Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte quattordicesima

Giuseppe, il carbonaio, non aveva ancora vent’anni. «Sì…ti riconosco. Inbezéll… Smettila di fare l’imbecille», rispose sostenuta Bruna facendo spallucce. Il servizio di leva aveva interrotto i primi approcci amorosi; in tutto quel tempo la ragazza aveva ricevuto delle cartoline con soli saluti senza nemmeno un dolce pensiero. Congedato da poco,  ancora non s’era fatto vivo con Bruna. Com’era cambiato! Sembrava più maturo, bello, con spalle larghe. Portava i capelli tagliati di fresco all’indietro, lucidi, profumati di brillantina, e dei baffi alla Amedeo Nazzari ben curati; aveva gli occhi neri vispi, simpatici. Furbi. La voce era scura, profonda, ben modulata. Elegante con un abito preso in prestito dal fratello. «Non ti ho mai visto così bella…Posso chiederti di ballare?», fece chinando la testa. Sentiva di amarlo ancora. Bruna non rispose, non rifletté nemmeno per un istante, si alzò macchinalmente perché in quel momento non desiderava altro. Danzarono una polka e una mazurka, quindi Giuseppe la fece ridere e poi, improvvisamente, le sussurrò: «Mè a t baṡèrev…Ti bacerei…» e avvicinò la bocca a quella di Bruna, ma lei si ritrasse. Terminarono le danze alla Filuzzi a cui seguì un intervallo. L’orchestra si ampliò con un cantante e altri strumenti. Di soppiatto a Bruna, Giuseppe andò a confabulare con il cantante e pagò una bevuta a lui e ai suonatori. Riprese la festa con le canzoni che tutti avevano ascoltato accendendo la radio. Il cantante, una voce da tenorino alla Giorgio Consolini, il nuovo divo del momento. A un certo momento questi si fece da parte e, inaspettatamente per tutti, Giuseppe salì sul palchetto che iniziò a cantare al microfono con un bel colore baritonale: Non dimenticar le mie parole, bimba tu non sai cos’è l’amor, è una cosa bella come il sole, più del sole dà calor. E si rivolse proprio verso Bruna: Non dimenticar le mie parole, bimba t’amo tanto, da morir, tu per me sei forse più del sole, non mi fare mai soffrir. Sceso dal palchetto si mise davanti a Bruna mentre il tenorino proseguì a cantare ciò che rimaneva della canzone. La ragazza non sapeva dove guardare, aveva le guance rosse, le braccia chiazzate, stringeva nervosamente le mani, s’agitava sulla sedia. Le spalle iniziarono a sobbalzare sempre più forte: Bruna stava reprimendo le risate tanto che le scendevano lacrime. Senza pensare a quello che stava facendo, si alzò per ballare stretta al ragazzo. Finalmente era felice. Giuseppe proseguì la melodia a bocca chiusa, fissando intensamente la ragazza, sfiorandole il naso con il suo: Domani tu mi lascerai e più non tornerai, domani tutti i sogni miei li porterai con te. Bruna sostenne lo sguardo per qualche istante e poi lo baciò sulla bocca. Era una donna innamorata. Come il pubblico di una commedia dal finale lieto, la gente che assisteva applaudì i giovani: «Guarda i due innamorati!» «Evviva!» «Ma che bella coppia!» E Maria corse ad abbracciare il ragazzo. Anche Aristide applaudiva alternando riso a pianto. La festa della domenica in Albis si prolungava con la fiera durante il giorno successivo. Aristide e gli altri uomini del paese erano in giro per vedere le vendite al mercato del bestiame, Margherita era uscita per assistere alla messa. «Bruna, Bruna… Giuseppe…Giuseppe!», urlò Maria dalla strada. Ansimava, aveva fatto una lunga corsa senza mai fermarsi. In casa c’era solamente la sorella che stava riponendo l’abito di Cenerentola nell’armadio, aveva lucidato e riposto le scarpe nella loro scatola dopo averle riempite di carta pressata affinché mantenessero la forma. Sentendo quella disperazione, Bruna accorse nell’orto col cuore in gola. Non aveva mai sentito la sorella in quello stato, nemmeno durante le paure della Guerra. Tremava, piangeva a dirotto, non riusciva a parlare. Le uscì solo un fil di voce: «Giu…Giuseppe…è morto!» e riprese a piangere. Bruna dapprima pensò a calmare quel convulso, e poi: «Giuseppe? Ma chi?» La sorella ripeté con tono più controllato ma grave: «Bruna… Giuseppe, il tuo Giuseppe, è morto!» Maria spiegò che, quella mattina, Giuseppe aveva avvitato quattro rotelle a una tavola di legno per ottenere un carrello che lo aiutasse a muovere i sacchi di carbone. Quasi fosse un ragazzino, accettò la sfida del fratello di fare una corsa giù per una strada in discesa, in equilibrio sul carrello. Una piccola buca provocò una deviazione del carrello verso un camion che stava transitando a gran velocità sulla Porrettana. Il destino guidò crudelmente il capo, ancora profumato di brillantina, di Giuseppe contro un angolo metallico scabro del camion e immediatamente morì. Bruna si sentì venire meno, la sorella le fece bere un sorso d’acqua, e iniziò a singhiozzare a dirotto: «Ieri sera… me l’ha detto…si sentiva di morire…E io non ho fatto nulla per evitare questa disgrazia!» Si convinse che Giuseppe avesse scelto quella canzone per annunziarle la propria fine, sentiva su di sé la colpa di esser stata superficiale per aver scambiato come espressioni d’amore dei presentimenti di morte. Non avrebbe dovuto lasciarlo andare via da solo, doveva stare con lui fin oltre la notte, fin oltre l’alba, fin oltre il pieno giorno. La notte dopo il funerale Bruna rivisse in sogno l’ultimo ballo guancia a guancia con il ragazzo. Prima che la musica terminasse, Giuseppe si staccò dalla sua dama. Senza alcuna parola, senza alcun saluto, camminando lentamente, fu attratto e inghiottito dal nulla di un bosco senza luce. Bruna si toccò il volto, le dita erano insanguinate, si guardò indosso e grumi di rosso fluido vitale di Giuseppe avevano corrotto la felicità del lucido abito di festa. E una sensazione di freddo risvegliò Bruna dall’incoscienza del sonno. Una voce le parlò: «Tu mi vuoi bene…aiutami ad avere pace» «Cosa posso fare per te, Giuseppe?», sussurrò la ragazza. «Aiutami. Sto male.»

(Continua)

 

 

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