Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte trentunesima

Non ho bei ricordi di quelle interminabili mattine trascorse alle scuole elementari: verso la maestra serbo ancora grande rancore perché causò cinque anni talora sconfortanti sia per me che per i miei genitori. La classe era divisa per censo: prima venivano i figli di gente facoltosa, avevamo anche una contessina che abitava nel palazzo in Via Galliera dove avrebbe soggiornato Leonardo da Vinci e dipinto la Monna Lisa. Per gli alunni benestanti, i cocchini, la maestra Amalia aveva un occhio di riguardo e per i loro genitori riservava un bel campionario di salamelecchi; poi c’erano gli altri bambini che si dovevano guadagnare la pagnotta, trattati in maniera anche brusca. Il suo carattere dispotico, sicuramente era una fascista dura e pura, creava un clima teso e competitivo per tutti, tant’è che anche i cocchini ne risentivano seppure in maniera meno negativa. Tutto questo non fece bene alla mia timidezza per cui andavo a scuola assai malvolentieri. E ogni sabato la mia mamma si presentava al ricevimento dei genitori: educato ma poco brillante, l’italiano scritto non era proprio il mio forte, e poco contava l’avere un buon profitto in aritmetica. «Evitate di parlare in dialetto in casa e deve leggere molto.» «Ma è un bambino che a casa ha sempre dei libri in mano», ribatteva debolmente la mamma. «E che cosa legge?» «L’enciclopedia, i libri di suo padre, quello che trova nella libreria…» «Non vanno assolutamente bene: deve leggere solo dei libri con storie per bambini.» La mamma subiva l’autorità della maestra. E avrebbe dovuto forse dire che leggevo libri di medicina, erboristeria, magia, astrologia e La domenica del Corriere perché non gradivo i libri da bambini? Pinocchio e Cuore, per esempio, non mi piacquero; lessi e rilessi invece Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e Il giornalino di Gian Burrasca. Provo risentimento per quella maestra, anche se ci garantì una buona preparazione, perché fece tanto piangere la mamma: le disse che forse avevo un lieve ritardo mentale e che non avrei fatto nulla nella vita. Nel giugno del 1967 sostenni quindi l’Esame di Licenza Elementare ottenendo i seguenti voti, tenendo conto che il voto massimo era Dieci e la sufficienza era il Sei: Religione: nove Comportamento ed educazione morale e civile: dieci Educazione fisica: otto Lingua italiana: otto Aritmetica e geometria: dieci Storia, geografia e scienze: dieci Disegno, recitazione e canto: otto Attività manuali e pratiche: otto L’esame dunque non andò male ma soprattutto mi liberò dalla maestra. La incontrai per strada una sola volta dopo diversi anni, mentre mi stavo per laureare in Fisica. All’esame di licenza seguirono le vacanze al mare: un agosto di assoluto divertimento. Ogni stagione ha proprie luci e propri colori ma, nel 1967, i giorni del principio di autunno confondevano i sensi: settembre stava terminando eppure sembrava di essere ancora in estate, con le persiane accostate e i vetri aperti per via del caldo. Suonò alla porta una donna sconosciuta che rappresentò al babbo quanto la sua esistenza fosse sotto l’influsso della cattiva sorte. E le carte Navalde confermarono l’afflizione della donna per cui il babbo ritenne opportuno di segnarla e neutralizzare gli influssi avversi. Le fece accendere le tre candele di cera bianca collocate in un vaso di vetro colmo di grano e le fece baciare la verde stola benedetta. Quel giorno disse alla signora di porre, inusualmente, la mano sul talismano della mamma anziché su quello che aveva creato per sé, entrambi capaci di governare gli spiriti. Mentalmente ripetè l’esorcismo liberatorio ponendo le mani sulle spalle, sulla nuca, sulle tempie, intorno davanti e dietro alla signora effettuò dei gesti magnetici dalla testa fino ai piedi, e le insufflò sul ventre il proprio alito; infine con un batuffolo di cotone, che avrebbe dovuto tenere indosso per una giornata intera, imbevuto di profumo in cui aveva versato trentatré gocce di acqua benedetta, tracciò sulle palme delle mani, sulla nuca, sulla fronte delle croci. La segnatura terminò con lo spegnimento delle candele. Il babbo accompagnò la signora rasserenata alla porta. «Riccardo, vieni subito a vedere» disse la mamma con estrema ansia, essendo andata a riordinare la scrivania. Il vetro che proteggeva il talismano era infranto e il mercurio ch’esso conteneva stava sparso sul tappeto del tavolo in una miriade di goccioline sferiche. E il babbo interruppe il silenzio mormorando con gravità: «Tra poco morirò.» La mamma, avendo sentito le esatte parole che s’aspettava, scoppiò in pianto: «Cosa stai dicendo, Riccardo? Non starai mica scherzando.» La donna sconosciuta ruppe intenzionalmente il talismano durante un improbabile momento di disattenzione del babbo, oppure l’energia negativa accumulata in corpo ebbe tale forza da danneggiare il prezioso oggetto? Chi era quella donna che mai più si presentò in casa nostra? I giorni successivi furono segnati dall’agitazione della mamma e dalla estrema laconicità del babbo che provvide in gran fretta a riparare il talismano. Due lastre di plastica trasparente sostituirono i fragili vetri frantumati, ne rinnovò il contenuto senza il mobile mercurio e dovette nuovamente caricarlo dei suoi poteri con i suoi potenti esorcismi. Il nuovo anno scolastico spazzò via in poco tempo i brutti ricordi delle Scuole Elementari e le ferite procurate nel mio animo andavano cicatrizzandosi. Il bell’inizio fu però turbato dal ricovero di mio padre programmato per l’asportazione di una grossa cheratosi seborroica sotto l’ascella sinistra. Un intervento all’apparenza di routine ma i medici decisero di effettuarlo sotto anestesia totale nonostante che il babbo avesse avuto un infarto e soffrisse di frequenti attacchi d’angina pectoris per i quali erano stati necessari ripetuti ricoveri. L’asportazione del tumore benigno andò bene ma il cuore ne risentì tanto che, passati due giorni, ebbe una crisi cardiaca fortissima che lo condusse a un passo dal morire. Uscì dall’ospedale e, il 6 novembre 1967, trovò la forza di acquistare la casa in cui tuttora vivo.

(Continua)

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