Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte trentaduesima

L’orologio sul buffet della camera da pranzo segnava quasi le nove e un quarto della sera. Era il sette novembre del 1967. Il babbo seguiva seduto al tavolo della camera da pranzo con una sigaretta tra le dita, accesa a catena con la brace della cicca precedente, una strana commedia con Ave Ninchi, La nascita di Salomé di Cesare Meano, mentre la mamma lavava i piatti e io ero disteso sul tappeto sotto il tavolo sbirciando con indolenza la televisione. All’improvviso il babbo lanciò un urlo di dolore, uno squarcio dal petto si irradiò al braccio sinistro fino alle dita, e poi diventò opprimente sofferenza fino alle viscere. La mamma si asciugò le mani in fretta e furia, quindi meccanicamente, senza sprecare tempo, prese siringhe e aghi già sterilizzati da un tegamino di alluminio per iniettargli nitroglicerina e morfina. Quella sera i farmaci non attenuarono il dolore lancinante per cui lo accompagnammo sul letto dopo avergli messo indosso un pigiama. Il babbo incominciò a respirare sempre più affannosamente e seguì una sciabolata di dolore che sembrò squarciarlo. «Non ce la faccio, muoio, chiedi aiuto…un medico…» E mentre la mamma chiamava l’Ospedale Maggiore, come se fosse una preghiera, senza voce, solo con il fiato, il babbo prese a mormorare: «Mama… Mama… Mama… Mama… ajutèm vò, aiutatemi» muovendo la testa a destra e a sinistra «Ajùtum… Ajùtum… Ajùtum… aiutami…» La mamma iniettò altra morfina e il dolore si lenì; gli occhi cerulei del babbo lentamente persero lo sguardo penetrante. «Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me», disse alla mamma baciandole una mano. «Ti raccomando mio figlio», aggiunse con un soffio di voce. «Ma che dici, Riccardo, sei matto?» e poi mi chiamò mascherando la commozione: «Da’ un bacio al babbo…» Mi avvicinai, toccai il gelido viso coperto di freddo sudore appiccicoso, lo baciai delicatamente e a sua volta pose la mano sul capo del figlio del Mago. Il sofferente ebbe requie dal dolore per l’effetto calmante della droga, il respiro diventò meno affannoso e un po’ si assopì. La cupezza della stanza dopo una ventina di minuti si ravvivò con la silenziosa speranza portata da tre infermieri e da un dottore. Questo auscultò il torace, misurò la pressione del sangue mentre gli infermieri facevano un elettrocardiogramma e poi un’altra iniezione nel braccio. Prima che gli infermieri lo mettessero sulla lettiga, il medico chiamò la mamma in un angolo e disse: «Signora, è un infarto. Lo portiamo via.» La mamma ancora represse la commozione per scacciare la confusione in testa, mi mise a letto e mi disse dolcemente che avrebbe accompagnato il babbo all’ospedale. Si infilò le scarpe, indossò il cappotto e si mise una sciarpa attorno ai capelli. Spense la stufa a gas e uscì lasciando le luci accese. Suonò alla porta di Alfredo al piano sottostante perché venisse a badarmi quindi raggiunse velocemente l’ambulanza. La stufa parigina, dopo lo spegnimento della fiamma a gas – durante il pomeriggio assumeva il color rosso tanto diventava rovente – contraendosi emetteva solitamente dei crepitii, e pure il lungo tubo che scaricava il gas di combustione nella canna fumaria produceva qualche suono sordo durante il raffreddamento. Rimasi solo nella stanza per meno di dieci minuti, sveglio nella stanza illuminata per l’agitazione dei momenti da poco trascorsi, in attesa di Alfredo. Sentii che i rumori metallici, all’improvviso, diventarono vigorosi e secchi come se la stufa fosse un’incudine percossa violentemente da un fabbro con un pesante mazza di ferro, una furia si scatenò contro quella stufa per distruggerla, cosicché anche il tubo risuonò con dei profondi, cupi, rintocchi di campana come mai era capitato. Al rumore percussivo si unirono degli scricchiolii talmente forti da sembrare che stesse per spaccarsi in più parti. Coperto fino al naso dalla pesante trapunta, sbirciavo un fenomeno al contempo meraviglioso e terribile senza paura, senza rendermi conto della sua straordinarietà, come se fosse uno spettatore estraniato. E udivo fragori metallici ma non vedevo nessuno; e percepivo la presenza di una folla di esseri immateriali nella stanza lividamente illuminata, eppure era completamente vuota. Nella mente del bambino echeggiarono improvvisamente delle parole: «Il babbo morirà.» Il mondo ultraterreno mi parlò in solitudine, senza alcuna mediazione, con un linguaggio primitivo, violento ma, per questo, senza alcuna possibilità di fraintendimento, per annunciare quanto il destino aveva deciso per mio padre. Alfredo, mio vecchio amico, si sedette accanto alla parigina intiepidita diventata improvvisamente muta. Calmo, in brevi istanti mi addormentai con la testa priva di pensieri senza conoscere il significato della morte. E Alfredo soffocava la tosse per non turbare il mio sonno, un grasso catarro scuro di catrame ribolliva negli esausti bronchi. Indossava uno spesso cappotto e un berretto con il paraorecchie; aveva preso con sé un libro e una sottile candela, infilata nella bugia smaltata. Il povero uomo non sapeva che la propria fine sarebbe venuta dopo dieci giorni, prima d’aver terminato quel libro preso in prestito dalla libreria del popolo. Prese a piovere come solo dio sa mandarla sulla terra per accanirsi contro la povera gente. Verso le quattro del mattino la mamma ritornò dall’ospedale in taxi. Mi accarezzò delicatamente per svegliarmi senza paura. «Il babbo non c’è più», sussurrò con tenerezza vicino a un orecchio. Mi porse innanzi alle labbra un oggetto – un quadretto rettangolare formato da due pergamene disegnate con inchiostri vivaci e con strane scritte, incorniciate di alluminio lucido, protette da una rigida plastica trasparente: «Il babbo è andato a finire qui dentro. Dagli un bacio.» E baciai il talismano. La grande stanza era fredda. Come ogni mattina, la mamma accese la parigina, collocandovi una pentola smaltata colma d’acqua che con il calore prese a sfrigolare. «Ora vieni a dormire nel lettone, vicino a me.» Pian piano, semiaddormentato, scivolai sotto le coperte al posto del babbo. La mamma si tolse le scarpe e spense la luce. Fissando il vuoto del presente, arida di lacrime, attese il giorno.

(Continua)

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