Tre millantatori all’Opera – Un paltò da tenore (Parte terza)

«Ora sta a te. Cosa ci canti di bello?», mi chiese Tullio.

«L’ Addio alla madre», gli comunicai.

«Auguri…», commentò quello.

Il tono esprimeva chiaramente disapprovazione.

«Contento tu…», sembrava voler dire Tullio.

O ancor più:

«Se t’andrà male sarà peggio per te».

In un battibaleno sentii il motore andare al massimo dei giri. Avrei potuto prendere il volo.

Tanta agitazione, e poi, all’improvviso, più nulla. Caddi in preda alla calma e all’indifferenza che precedono un’esecuzione capitale.

Le scantarellate, direte voi, non avrebbero forse dovuto essere un divertimento? Un gioco?

Attaccai la romanza di Mascagni:

Mamma,

Quel vino è generoso, e certo

Oggi troppi bicchieri

ne ho tracannati…

Cantavo per una strana platea.

Edmondo si allungava su di una sedia accostata al muro per far defluire il pranzo, controllando ripetutamente l’orologio al polso.

Tutti gli altri stavano disposti intorno al tavolo da pranzo.

Tullio era freddo e immobile come una statua.

Evelina scarabocchiava i fogli di carta del Gioco dei nomi. La Corinna, con gli occhi semiaperti, pareva in deliquio.

Gabriele fissava l’ultimo rottame di uovo pasquale rimasto nel piatto. Fece per prendere il pezzo di cioccolato, ma Rufo, predatore infallibile,  zac, fu più veloce di lui.

Allorché giunsi a cantare

E poi… mamma… sentite…

S’io… non tornassi…

Voi dovrete fare

Da madre a Santa, Edmondo s’alzò di scatto per recarsi in cucina.

Lo scorsi lavare al lavandino il tegame con cui aveva portato l’arrosto.

Le sue spalle sobbalzavano: rideva.

Lavava la teglia e rideva di me.

In quel momento Edmondo rideva però a non me non fregava niente. Dovevo andare avanti. Mancava poco per terminare la romanza, ma la strada rimasta ora presentava una salita repentina e ripidissima: la semibreve del si bemolle sulla «a» di S’io non tornassi… con quasi una corona. Mascagni indicò sullo spartito «a piacere» perché, su questa nota, il tenore dovrebbe fare sfoggio delle sue capacità. Sul palcoscenico, con questa nota Turiddu si gioca tutto.

Un bacio, un bacio, mamma!

Un’altro bacio…

Addio…

S’io non tornassi…

Ed io steccai il si bemolle.

Clamorosamente.

Una stecca, forse più un raglio d’asino.

Un brivido elettrico giù per la schiena mi riportò tra i vivi.

Sentii bene che Edmondo, scuotendo la testa, commentò e rise:

«Ooosssignùr…hohohooo»

Ero bollente, sudato, rosso in faccia. Mi sentivo un febbrone da broncopolmonite.

Non ce la facevo più e piantai lì le ultime frasi della romanza.

Tullio mi fece la morale del grillo parlante.

«Beh, se tu avessi cantato L’ultima canzone questo non sarebbe successo…», in altre parole chi troppo vuole nulla stringe, oppure chi è causa del suo mal pianga se stesso.

Quanto mi urtavano le paternali! E quanto mi urtano ancora!

Tutto vero. Con la romanza di Tosti non avrei corso pressoché alcun rischio di fare una stecca.

E si rivolse a Rufo con un lieve ammiccamento sardonico:

«Non si può certamente dire che lui abbia una voce pallente…»

Rufo non gli diede ascolto e si rivolse a me:

«Dai, non fare quella faccia arrabbiata. Capita a tutti di steccare!»

Ma a me, più della stecca, pesavano come macigni le risate di Edmondo. Il tegame era stato un pretesto per ridere liberamente, pensando di non essere visto.

Ora quello stava nuovamente seduto davanti a me. Come se nulla fosse successo.

Si risvegliò la Corinna:

«Rufo, sta a te! Sei l’ultimo. Cosa ci canti?»

E Tullio:

«Ci fai l’Esultate? Hihihi…»

Evelina alzò la testa dal foglio scarabocchiato ed esortò Rufo con la consueta prosaicità:

«Avanti, su, Pieranti, scanterella mo’ in fretta, così faccio qualche peccato con la vista prima di andare in Parrocchia a confessarmi…non ho mai niente da raccontare al prete!»

«No, l’Esultate no. Faccio La donna è mobile», rispose Rufo.

«Ho comprato il Rigoletto da poco» disse la Corinna in dodici toni. «La signora Salizzoni aveva l’edizione migliore a poco, quella con Fischer-Dieskau, la Scotto e Bergonzi», fini sproloquiando senza che nessuno le desse retta.

Rufo bevve un sorso d’acqua e finalmente s’alzò in piedi.

La donna è mobile

qual piuma al vento

muta d’accento

e di pensiero…

Caro lettore, ben saprai quanto sia facile descrivere il Brutto. Bastano poche pennellate di difetti. Tutto il resto non conta.

Le parole tendono al Bello ma sono incapaci di renderlo appieno. Un bel volto, un bel corpo, vengono descritti con labirintiche fiumane verbali però quello che gli occhi vedono è altra cosa.

Le parole ci permettono di dire ‘bel profumo’, ‘brutto odore’, ‘ bel tepore’, ‘un brutto sapore’. Queste commistioni di parole che non c’entrano nulla sono una sinestesia, una figura retorica, ma nessuno penserà mai che siano reali. Non esprimono un’ effettiva bellezza. Un profumo non può essere bello perché non lo vediamo.

Le orecchie sono privilegiate. La bellezza, infatti, spunta tra i suoni e, ancor più, è visibile nella musica.

Qualcuno di noi avrà apprezzato maggiormente, e quindi trovato più bello, il suono di un particolare violino o di un pianoforte rispetto a un altro. Così come tutti avremo detto, almeno una volta, d’aver ascoltato sia musiche belle che musiche brutte.

I bei suoni e le belle melodie, però, sfuggono alle descrizioni più di un bel volto.

Quali parole possono descrivere la bellezza di una voce? I frequentatori di teatri e delle sale da concerto spesso tentano la strada del confronto, fidandosi della memoria. I discorsi tra melomani? Tante Torri di Babele senza senso. Afasie nei foyer teatrali. Confronti inutili, tant’è che pare d’avere ascoltato cantanti totalmente differenti in giorni differenti.

Per la voce di Rufo, ogni confronto era inutile, perché non assomigliava a nessun’altra voce rubricata come bella. Pareva bella quanto quella di Giacomo Aragall o Giuseppe Di Stefano, ma non assomigliava né all’uno né all’altro.

La voce di Rufo aveva un timbro nuovo e non reincarnava nessun altro tenore. Apparteneva unicamente a lui.

Un grande giornalista, Rodolfo Celletti – a quel tempo in gran voga, tanto da essere per tutti noi un evangelista – astrologò una particolare metafora dal sentore buddista volendo descrivere la voce di Magda Olivero. Dura sfida. Non vantando un colore vocale particolarmente attraente, una limitazione per i detrattori, la penna abile e astuta del critico scrisse che Magda Olivero, con una voce in bianco e nero, riusciva ad evocare tutti i colori dell’arcobaleno. Furono le più belle parole mai scritte per descrivere un cantante. Evviva!

Non posso seguire le orme della metafora di Celletti. Sarebbe questo fuori luogo perché la voce di Rufo era piena di colori che si percepivano a mano a mano. Come accade nei profumi, le varie fragranze della voce – testa, cuore e fondo – si sprigionarono nel breve tempo della romanza.

Ci sarebbero volute le parole all’apparenza senza senso della Corinna per rappresentare la voce di Rufo.

Delle scemenze per descrivere la bellezza?

La voce, quindi, a me parve bellissima e squillante.

Certo,  da un lato Rufo  doveva ancora migliorare dal punto di vista tecnico – era ancora giovane –  dall’altro lato, ciò che mancava per essere un tenore coi fiocchi in quel momento non aveva alcuna importanza.

Finita la canzonetta del Duca di Mantova, Evelina sintetizzò immediatamente con il garbo che la contraddistingueva:

«Oooh, Pieranti… soccia te sì che c’hai una bella voce. Cazzarola, se farai strada».

Ed io:

«Peró…Questo qua mi aveva detto che la tua voce era bella» dissi serio a Rufo, indicando Tullio, «Ma, come sempre, questo qua non capisce mai nulla».

E terminai fissandolo negli occhi per esprimergli la mia sincerità:

«La tua voce è bellissima, una delle più belle che abbia mai ascoltato».

Rufo sorrise e corrispose allo sguardo a suggello dell’inizio di una profonda amicizia.

La Corinna non fece alcuna metafora con curve e controcurve:

«Accipicchia. Se ti sentisse mia madre! Verrai anche tu a mangiare le tigelle, vero?»

Il mentore di Rufo non stava nella pelle, il sorriso gli congiungeva le orecchie, gli occhi sbrillucicavano.

«Rufo Pieranti…ora facci sentire l’Esultate, avanti avanti!».

L’Esultate è pur sempre l’Esultate, un feticcio per la maggior parte dei melomani.

Il tenore finalmente cedette:

Esultate! L’orgoglio musulmano

sepolto è in mar.

Nostra e del ciel è gloria.

Dopo l’armi lo vinse l’uragano.

La platea davanti a Rufo diventò festante come tifosi allo stadio.

Applaudivamo tutti. Avremmo voluto putipù, triccheballacche e scetavajasse.

Erano passate le cinque del pomeriggio. Pesanti nuvole plumbee oscuravano il cielo ma non pioveva.

Per mangiare, avevamo mangiato. Per giocare, avevamo giocato. Per scantarellare, avevamo scantarellato.

La festa si avvicinava al termine.

Edmondo guardò l’orologio: finalmente era l’ora di andare. Evelina lo seguì più per opportunità, il passaggio in automobile, che per sincero bisogno di andare in chiesa.

Rimasero quattro ospiti ancora per un po’. Sarebbero usciti tutt’insieme poiché abitavano a poca distanza l’uno dall’ altro.

Le parole di Rufo avevano decisamente ridimensionato il dramma della mia stecca. Cantare la Cavalleria Rusticana era stato un azzardo, e non tutti gli azzardi hanno una fine felice.

Mi pareva una figuraccia appartenente a un passato lontano anche se era successa non più di mezz’ora prima.

Ormai lontana per me, ma non per Tullio. Questi si rivolse al suo protetto indicandomi:

«Rufo, pensi che sia possibile correggere i suoi problemi di intonazione?»

In parole piane, Tullio domandò se mai sarei riuscito a non stonare.

La stecca, in confronto, appariva poca cosa. Semplici parole ma efficaci come una bomba che esplode nelle cantina di una casa.

Rufo prontamente rispose alla domanda:

«Certamente. E’ possibile. Occorre impostare bene la voce. Se non si canta nella posizione giusta, l’intonazione può essere sbagliata».

«Aaaaah, tu pensi?», chiese Tullio quasi dubbioso.

Rufo rispose seccamente:

«Non lo penso io»

E scandì:

«E’ co-sì»

«Meno male, allora», fece Tullio. «Ecco…Mi sembrava strano dal momento che lui conosce bene la musica. Non capivo il motivo di tutte queste stonature». E continuò a interessarsi per me: «Pensi che il tuo maestro di canto lo prenderà a lezione?»

«Sì, Floriano Mantovani lo prenderà. Ma prima studierà un po’ con me»

«Ti va?», mi chiese Rufo sorridendo.

Io assistevo immobile a questi discorsi.

Paralizzato per l’umiliazione.

Tullio applicò a me un suo principio, cioè che la verità deve essere sempre detta così com’è, senza fronzoli e arzigogoli. La verità nuda e cruda, però, non sempre cura, corregge o salva. Tutti lo sanno: la verità può diventare un’arma spietata per colpire nel punto di maggiore debolezza.

Per quanto mi riguarda, non avevo alcuna seria velleità di fare cantante. Il canto non era una vera debolezza da poter bersagliare. Ben sapevo che non avrei mai avuto il coraggio di salire su di un palcoscenico, nemmeno se avessi avuto la migliore voce al mondo. Cantavo per divertirmi, un gioco adolescenziale che si stava protraendo nel tempo, insomma.

Dove si piantò la freccia scoccata da Tullio? In quale parte di me?

Ferì l’amore per me stesso, umiliò la mia dignità.

Compresi che, cantando, venivo deriso.

Edmondo aveva riso di me, e in casa mia.

La domanda di Rufo, se m’andava di studiare canto con lui, mi distolse da questi tristi pensieri.

Il suo sorriso era una mano tesa. Ed io annuii con un sorriso.

Avevo trovato il mio primo maestro di canto.

Erano le sei passate. I quattro si alzarono per prendere i loro cappotti.

La Corinna sulla porta barcollava confusa come non mai. La sua parlata dodecafonica mi restituì il buonumore:

«Mi sono scappellata per le risate»

«Scappellata! Ahahah…ma che dici, Corinna?», feci io.

«Uuuuuh…non capisco»

«Te lo spiegherò con calma…ma solo se tieni lontano tua madre dalla cornetta del telefono!»

Guardai Rufo scendere le scale per ultimo.

Pensai tra me e me:

«Eeeeeh sì, è proprio un bel paltò da tenore!»

Tre millantatori all’Opera – Un paltò da tenore (Parte seconda)

Conoscete persone che sanno essere inopportune pure se non presenti fisicamente? Purché abbiano un telefono tra le mani e il gioco è fatto.

Io ne conoscevo bene uno: Tullio.

E in questo primeggiava.

Chiamava, per lo più, mentre pranzavo o cenavo.

Questo era sempre l’inizio della telefonata:

«Disturbo?»

«Ciao…sto pranzando», rispondevo con la bocca piena, accentuando la masticazione.

Anche a me è capitato di interrompere il pasto di qualcuno con una telefonata ma, quale persona non fastidiosa e di buona creanza, immediatamente ho salutato.

Tullio no.

Poiché lui aveva già mangiato, la conversazione poteva proseguire.

E proseguiva così:

«Novitàaa?»

Ed io, secco:

«No!»

Dopodiché spesso mi trovavo così in mezzo alle obituaries liriche, cioè i necrologi di artisti lirici, che Tullio leggeva puntigliosamente dai mensili esteri, e ai sordi borborigmi del mio stomaco.

Avrei potuto dirgli: «Senti cocco, perché non ci risentiamo tra un’ora»?

Evidentemente sì, avrei potuto farlo.

Ma non l’ho mai fatto.

Passavano i minuti e la minestra si raffreddava:

«Altre novità?», continuava lui con grande cretineria.

E replicavo:

«No»

E allora Tullio rispondeva sempre così:

«Benissimo». Nuovamente con grande cretineria.

Cretineria che m’irritava.

C’avevo perfino più gusto nel telefonare alla Corinna.

Se mi fosse andato bene con lei avrei ascoltato i consueti panegirici sull’arte direttoriale di Herbert von Karajan.

Attaccava la cornetta innanzi al giradischi per dimostrarmi quanto lei intendeva dire. Parlare diventava inutile, tanto non mi avrebbe sentito.

«Senti qua…senti le curve di Karajan».

Già le curve di Karajan.

Quali curve?

«Ma come, non le senti?»

Per capire le sue sensazioni musicali dovevo andare a tentoni. Che volesse intendendere il particolare legato che il direttore ricavava dall’orchestra?

Certo, anche con la Corinna era necessario armarsi di santa pazienza.

Durante le conversazioni, dovevo ripetere più e più volte quanto le avevo detto. Non era sorda. Non sentiva perché si distraeva continuamente.

Non ascoltava.

Mentre parlava con me, avendo la televisione sempre accesa, guardava e commentava tutte le possibili trasmissioni, cartoni animati, soap opera, telefilm a puntate. Anche la pubblicità.

Il tubo catodico era logoro, poveretto, perché quella che era stata grande sostenitrice del centralismo democratico, del teatro epico di Brecht e Piscator guardava qualsiasi onda elettromagnetica che l’antenna sul tetto riusciva ad assorbire.

La conversazione telefonica, si arricchiva pure degli interventi della madre cosicché la Corinna si sdoppiava, parlando contemporaneamente con me e con la madre.

Insomma, telefonate senza capo né coda. Un teatrino dell’assurdo.

Ma la Corinna, almeno, a differenza di Tullio, rispettava gli orari santificati dei pranzi e delle cene.

In quel piovoso sabato di presentazioni Tullio, uscito di casa mia dopo il primo incontro con Rufo e Gabriele, non fece passare nemmeno una mezz’ora che mi telefonò.

Mentre stavo cenando. Ovviamente.

«Vorrei fare un poco di ‘Radio Serva’. Come ti sono parsi i ragazzi?»

«I ragazzi? Perché mai li chiama così? È per caso loro zio? Quant’è cretino», pensai.

«Beh, simpatici» dissi. «Mi pare che Rufo comandi a bacchetta il povero Gabriele». Tagliai corto perché avevo fame, visto che della colomba pasquale erano rimaste solo briciole e qualche mandorla attaccata alla carta.

Tullio riprese a farmi la consueta solfa sul tenorissimo Rufo.

E biribim e biribam e biribim.

Finalmente m’arrivò alle orecchie qualcosa che distolse l’attenzione dalla fame:

«E poi…sai…è anche pronipote di Divina Pieranti», mi fece con un leggero sussiego, come se avesse nominato chissà quale celebrità.

«E da dove viene fuori questa?», chiesi.

«Speravo che la conoscessi, piacendoti i cantanti antichi…Insomma, Rufo mi ha raccontato che la sua prozia cantava al Teatro di Montevideo. Non hai mai sentito parlare di Divina Pieranti?»

«No, sai…leggo solo sporadicamente i necrologi sui giornali di Montevideo, ahaha», e subito chiesi:

«E ‘sta Pieranti come arrivò in Uruguay?»

«Nacque a Firenze ed emigrò per una tournée alla fine dell’Ottocento con il fratello violinista al seguito di una compagnia lirica. Terminato il giro, il fratello prese il piroscafo e ritornò indietro. Era il nonno di Rufo. Divina Pieranti rimase là e diventò il primo soprano al Teatro di Montevideo»

Ero dubbioso, incredulo, pensavo che Tullio desse credito ad un’altra panzana.

«Non l’ho mai sentita nominare. Dunque Rufo è pronipote d’arte? Sei sicuro?».

«È quanto lui mi ha raccontato. Sul pianoforte ci sono tre fotografie di scena autografate», mi rispose il raffreddatore delle mie pietanze.

Mi dissi:

«Hanno lo stesso cognome, ci sono i genitori di Rufo e le fotografie… Questa storia non dovrebbe essere una millanteria».

Passò Pasqua con tanta pioggia ed umidità.

Il pranzo del Lunedì dell’Angelo si svolse in allegria.

Mangiammo abbondantemente.

Se io ero una buona forchetta, Rufo si strafogò. Bissò, per lo meno, ogni cosa, anche il prosciutto in crosta portato da Tullio, fatto con ingredienti scaduti.

Non avevo mai visto mangiare così tanto.

Dopo il caffè, facemmo qualche giro al Gioco dei Nomi, adattato alla nostra passione lirica: dovevamo scrivere i nomi dei soprani, tenori, mezzosoprani, baritoni, bassi, dei direttori d’orchestra e i titoli delle opere.

La sfida si svolse soprattutto tra me, Tullio, Rufo e Gabriele.

Cantanti noti e di minor fortuna, gregari e comprimari, opere celebri e dimenticate, grandi bacchette e battisolfa.

Gli altri amici arrancavano per riempire le colonne.

Teresa conosceva l’opera attraverso i suoi amori adolescenziali per i tenori. Corinna scriveva i nomi sulla base delle opere acquistate nel Sottopassaggio dalla signora Salizzoni, mentre Edmondo, analogamente, quel che gli sovveniva dai cataloghi dei collezionisti di nastri dal vivo. Evelina, infine, l’unico nome che scrisse senza sbirciare il foglio di Edmondo fu, ovviamente, quello di Anna Moffo.

Nessuno ebbe da dire fino a che giunse la volta dei soprani che iniziavano con la lettera «P»:

Pobbe, Price, Patti, Pagliughi, Pampanini, Ponselle, Parazzini, Pons, Panni, Pinto, Parutto, Pasta, Pacetti, Pieranti, Petrella, Pizzo, Pedrini.

«Pieranti? Non l’ho mai sentita dire», fece la Corinna, mezza stralunata, con una cantilena dodecafonica, cioè con un tono di voce differente per ciascuna sillaba.

Rufo, placido e indifferente, spiegò:

«Era mia nonna, cantava agli inizi del secolo. Ho una sua fotografia autografata in Tosca», come se avesse già risposto a quella domanda più e più volte.

«Confermo», disse Tullio con autorità notarile.

Piantammo il gioco prima di esaurire le lettere dell’alfabeto.

Per Teresa si era fatto tardi. Prese il cappotto a tre quarti dal color velenoso delle pervinche, violetto come quello della gonna, uguale a quello del foulard, del cappellino, dell’ombretto sulle palpebre. Salutò seraficamente con la mano, mandando baci a tutti.

«Ed ora che si fa?» chiese la Corinna, stravaccata sul tavolo dal gomito in su, torturandosi la frangia. Il lambrusco e lo zibibbo le ravvivano i guanciotti e gli occhi sporgevano più che mai dalle borse a fisarmonica.

Sua madre, se l’avesse vista, avrebbe cessato di esserne orgogliosa.

«Potremmo fare una scantarellata!», propose Tullio prontamente.

E la Corinna con la sua dissonante cantilena dodecatonica:

«Oh, sì sì, che bello! Cantate, cantate!»

E la ruspante Evelina, sempre seduta sulle ginocchia indifferenti di Edmondo:

«Io ora certamente non canto, sono gonfia come una pallone. Dai, Pieranti, attacca un po’ te. Oh, sta’ ben attento a non fare arie mentre canti, eh!»

Tullio prontamente intervenne:

«Sempre cara mi fu quest’Evelina. Noi non facciamo arie, ma cantiamo delle arie, hihihi…dai, canto io per primo».

Attaccò la Calunnia dal Barbiere di Siviglia.

La calunnia è un venticello

Un’auretta assai gentile

Che insensibile, sottile,

Leggermente, dolcemente,

Incomincia, incomincia a sussurrar.

Aveva dei raspini. Come sempre.

Mentre cantava, la Corinna gli offrì perfino una caramella Valda.

Terminò l’aria e, senza che qualcuno potesse dire né «a» né «ba», chiese:

«Chi è il prossimo? Gabriele, dai, fatti avanti tu».

Questi parve assai felice:

«Oggi avrei voglia di cantare Cielo e mar».

La Corinna prese a starnazzare:

«Oh, sì sì, che bello, adoro quest’aria cantata da Bergonzi…»

Ma Rufo prese in mano la situazione, deludendo le aspettative della Corinna e reprimendo le velleità di Gabriele di fare il tenore lirico spinto:

«No, Cielo e mar no».

Ci mancava che oscillasse l’indice e battesse un giornale piegato per educare quella povera creatura.

«E’ meglio Una furtiva lagrima», comandò Rufo.

Gabriele, il succube, non disse beo. Quindi cantò Una furtiva lagrima.

La Corinna lo dirigeva ad occhi chiusi. Così come von Karajan dirigeva le curve dei Berliner Philarmoniker.

«Il tuo timbro ha una lucentezza madreperlacea dai riflessi rotondi grigiazzurri…», e cantilenò altre scemenze. «Dovrai venire a cantare per mia madre. In premio ti farà le tigelle con il pesto di lardo, rosmarino e parmigiano».

Gabriele si illuminò, accennando dei piccoli inchini da maggiordomo.

I cantanti accettano qualsiasi tipo di complimento o si accontentano di qualcosa che sembri tale.

E gli era arrivato perfino un ingaggio retribuito in natura!

(Continua)

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