Cinque Maggio: Messa da Requiem a Santa Maria dei Servi

La vita musicale nella Bologna dei Lumi era intensissima paragonabile a quella veneziana. La maggior parte di bolognesi questo non lo sa, nemmeno gli assidui frequentatori dei teatri. Recuperando bei libri usati, si apprende che Bologna arrivò, prima che spirasse il primo quarto di secolo del ’700, ad avere, incendi permettendo, quattro grandi teatri pubblici funzionanti per circa settantamila residenti entro le mura. Annotava l’impagabile Corrado Ricci nel 1888 «[…] I teatri pubblici nei secoli scorsi erano troppo poco in consueto alla passione dei Bolognesi per la musica e la commedia […] Nello spoglio fatto delle cronache manoscritte ho trovato ricordo di ben sessanta teatri privati, senza contare quelli ne’ conventi e nei collegi […]Anche ogni chiesa o frateria ebbe far cura di far eseguire abbondanti oratorii.» (Da I teatri di Bologna Nei secoli XVII e XVIII, ristampa anastatica di Forni Editore Bologna, Prefazione pag. XV). E ancora Lodovico Frati, fine e colto bibliotecario dell’Archiginnasio, scriveva a tal proposito: «[…] la passione per la musica e gli spettacoli non aveva tregua, si manifestava continuamente nelle sale pubbliche e nelle private, nelle Accademie, nei Collegi, nei monasteri e negli educandati, nei teatri e nelle chiese» (Da Il Settecento a Bologna, Remo Sandron Editore, 1923, pag.124).
E ieri sera, ascoltando la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi presso la Basilica di Santa Maria dei Servi – situata quasi di fronte all’Accademia Filarmonica guidata anche dal Padre Giovanni Battista Martini, presso la quale Mozart si munì delle patente di maestro compositore – mi è venuto in mente il grande passato musicale bolognese, contento di essere lì non solo per questo ma anche, peraltro, per il ricordo di Alessandro Manzoni (2023, centocinquantenario della morte) nella giornata non casuale del Cinque Maggio.
In tempi in cui con il tanto si riesce a fare poco, cioè con le forze artistiche dei grandi teatri si arriva a risultati in certe occasioni men che modeste, ieri sera è avvenuto l’inverso: voglio dire che ho ascoltato un’ottima esecuzione, in generale, con un organico, nel coro e nell’orchestra, più ridotto rispetto a quello ordinario, a disposizione di un Ente lirico, ma non per questo meno efficace nel rendere la grandiosità del capolavoro verdiano, un po’ come se si fosse riprodotto con fedeltà il Giudizio Universale su un muro di minore estensione.
Il protagonista di questo grande affresco musicale è senza dubbio il coro: l’unione del coro della Cappella Musicale della Chiesa di Santa Maria dei Servi con la Corale Quadriclavio, diretto da Giovanna Facilla, è stata piuttosto felice, dimostrando un’ottima preparazione, relativamente allo scoglio musicale, per una compagine amatoriale, e un impasto autorevole. Il direttore Lorenzo Bizzarri ha efficacemente diretto l’orchestra rinforzata della Cappella con sicurezza, begli stacchi di tempo e un gran braccio.
Il basso Carlo Colombara, una celebrità, ultimo di una genealogia in estinzione che ha come capostipiti, ed esempio, i De Angelis, i Pasero, i Pinza, i Giaiotti, come sempre si è distinto per bel timbro, ampiezza sia di suono che di legato, e per bellissima dizione.
Il mezzosoprano Cristina Melis, altra celebrità, si è distinta per il suo colore, altra specie vocale quasi in estinzione, per sicurezza nel controllo del proprio strumento ed efficacia di interprete.
Il tenore Ugo Tarquini, dotato di notevoli mezzi naturali che in prospettiva saranno quelli da lirico spinto, è stato soddisfacente nonostante un legato e pronuncia a tratti carenti e che la voce, sostanzialmente emessa correttamente, presenti una certa gutturalitá.
Il soprano Elena Borin se da un lato è riuscita a venire a capo della parte solistica di maggiore responsabilità dimostrando buone intenzioni, dall’altro non ha evidenziato sonorità adeguate né intonazione impeccabile.
E il pubblico numeroso ha giustamente premiato, con entusiasmo, la bella esecuzione di un capolavoro senza tempo.

Nuovi Vespri siciliani al Comunale Nouveau

Con queste riflessioni mi trovo a promuovere allo scrutinio finale, a denti stretti, con la mera sufficienza i Vespri Siciliani rappresentati al Comunale Nouveau nella recita di domenica 23 aprile.
È un opera che non ho mai amato perché la trovo discontinua, senza un clima e un colore specifici; anzi penso che, rispetto alla Traviata – questa opera in anticipo di venti anni, ammesso che queste considerazioni abbiano senso e che, piuttosto, ogni creazione artistica debba essere presa solo per l’intrinseco valore estetico – I vespri siciliani siano un ritorno ai cosiddetti anni di galera, con toni un poco pompier. I numeri che mi piacciono senza riserve? La sinfonia, la bella entrata di Elena e le sue due arie, O tu Palermo, Giorno di pianto e i concertati.
Esprimerò il giudizio sulla nuova messa in scena bolognese con voti e una graduatoria, puntualizzando che essi non vengono espressi rispetto a una scala di valori assoluti, né confrontando questa rappresentazione con altre.
Il baritono Franco Vassallo, Guido di Monforte, è il cantante che ha meglio figurato perché dotato di voce sana, gradevole di timbro, ben sonora ed educata in tutta l’estensione; la dizione è assai chiara e non ha lesinato rotonde mezze voci nella sua aria, momento che ha riscosso il più convinto e prolungato applauso del pubblico. È degno di cantare Verdi. Il voto è nove.
E un bel nove va anche al coro, rinforzato da elementi del Teatro Regio di Parma, diretto da Gea Garatti Ansini, per via del bell’impasto gagliardo schiettamente verdiano.
Il basso Riccardo Zanellato, Giovanni da Procida, si attesta su un gradino leggermente inferiore rispetto al baritono per un timbro meno rotondo ovvero per una voce con qualche ruvidezza; nondimeno possiede uno strumento da basso schietto, qualità attualmente oggi spesso indisponibile. Dopo l’aria O tu Palermo ha anche lui riscosso meritati applausi. Il voto è otto e mezzo.
E una menzione per l’ottimo basso Gabriele Sagona (Il sire di Bethune) a cui assegno il voto otto e mezzo condiviso con le altre parti di fianco.
Temevo che la direttrice Oksana Lyniv potesse essere un anello debole, non da poco, all’interno dell’opera; temevo che alla direttrice fosse estraneo il lessico verdiano. E invece non è avvenuto così: pur non manifestando particolare originalità, ha condotto con tempi giusti, fisiologici per la musica in sé e non solo per seguire i cantanti; il risultato è stato quindi di buon livello. Probabilmente aiutata dall’aggiustamento elettronico dell’acustica, i cantanti non sono mai stati sovrastati dal suono orchestrale, problema invece rilevato in altre occasioni nelle conduzioni della Lyniv. Il voto è otto.
E da qua inizia il cahier de doléances.
Il soprano Roberta Mantegna è stata chiamata  imprudentemente a ricoprire  il ruolo della Duchessa Elena. La voce, seppur genericamente gradevole ma senza una vera personalità timbrica, non è adeguatamente sviluppata nel registro centrale e ancora meno in quello grave; gli acuti spesso sono striduli e nessun passaggio è stato eseguito con vera bravura, nemmeno nelle agilità di Mercé dilette amiche; inoltre, il fraseggio è apparso scialbo, insufficiente per un’eroina verdiana. Il voto è cinque e mezzo.
Arrigo è stato impersonato da Stefano Secco, ma anche per lui questo ruolo costituisce un passo più lungo della propria gamba. Gli si può riconoscere un timbro gradevole, da tenore lirico-leggero (forse), una bella dizione e buone capacità di interprete, ma il volume è scarso, gli acuti appaiono forzati per via del peccato originale insito nel ruolo a lui inadatto. Anche il passaggio di registro è faticoso o macchinoso, sembra che non ingrani il giusto cambio di marcia. Il voto è cinque.
La regia e, diciamo purtroppo, la parte concettuale sono state curate da Emma Dante. La regista ha seguito l’impronta manichea dell’opera, dove i siciliani sono contro degli oppressori. Ma quali oppressori? Non i francesi:  secondo la visione della Dante i mafiosi, e comunque la criminalità organizzata, sostituiscono i francesi, mentre i siciliani sono rimasti tali, buoni, giusti, oppressi, tutti dalla parte della legalità, visto che sbandierano gli stendardi con i volti delle più note vittime di mafia; appaiono perfino le targhe stradali dove le stragi sono state consumate. Tutto questo evidentemente non è affatto pertinente: anche qualora si desse un’interpretazione sociologica all’opera, in chiave di contemporaneità, essa sarebbe discutibile perché non tiene conto della sfuggevole omertà diffusa tra la gente né delle varie coperture di cui la malavita organizzata beneficia a vari livelli. La regista Emma Dante ha inoltre apposto il proprio annoiante marchio sdoppiando, come sempre, l’azione scenica: la prima azione è quella narrata dall’opera, attuata in maniera più o meno aderente a essa, la seconda è un’azione a commento, a ornamento della narrazione principale, che parrebbe simbolica, realizzata con tanti contenitori (quadretti) riempiti di certe trovate, partorite dalla fantasia della regista, all’insegna della sua palermitanità o comunque della sua sicilianità. Questi contenitori simbolici contengono oggetti popolari (i pupi) oppure religiosi (croci, crocifissi o altro) portati da mimi, processioni religiose, azioni sceniche con movimenti assai contorti, eccessivi e bizzarri (Santa Rosalia, dai movimenti tra una tarantolata e  un derviscio rotante, che porta via la scena ai protagonisti). Se con tutto questo la Dante vuole ricreare un certo barocchismo siciliano, l’esito è grottesco e fastidioso.  Il voto è quattro solo perché appaiono disdicevoli punteggi inferiori.
Scene e costumi rispettivamente di Carmine Maringola e Vanessa Sannino sono stati brutti non consoni per il fasto di un grand-opéra. Sia all’uno che all’altra va il voto quattro.
Il Comunale Nouveau in una recita domenicale e pomeridiana non era esaurito. E comunque tra il pubblico non c’erano molti giovani. È il  sintomo di una malattia che andrà peggiorando?

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