Una visita

Le mattine del martedì e del venerdì sono dedicate alla mamma. Prendo l’automobile e, con un po’ di ansia confusa con il desiderio di vederla, mi reco a Rastignano per farle visita. L’ansia, invero, incomincia sotto traccia già la sera prima mentre il desiderio di vederla e di stare con lei non mi lascia mai.
Fino a un anno fa, la possibilità della casa di riposo non l’avevo mai messa veramente in conto.
Quando la mamma fantasticava tristemente sul suo futuro da anziana, io le dicevo sempre:
«Mamma, tu uscirai da questa casa solamente se sarò preso per il collo».
Il destino mi ha preso per il collo. Una prova dura che mi ha indotto a una che tuttora non ho ancora accettato. Non ho mantenuto una promessa?
E poi con l’epidemia è ancora più difficile ingoiare questo boccone amaro. Le visite devono essere brevi, una o due volte alla settimana, e per ora solo attraverso la vetrata che s’affaccia sul giardino. Siamo l’uno di fronte all’altra comunicando con i cellulari. Per ora non è possibile tanto di più, non è possibile accarezzarla, non è possibile tenerle le mani, non è possibile coccolarla,non è possibile distrarla, non è possibile consolarla, non è possibile imboccarla. Non è possibile starle accanto anche senza parole, giusto per farle sentire la mia presenza. Il mio affetto.
Alla mamma sono rimaste solo poche parole che ripete in ogni occasione: Io, Con, Te, Cantare, Casa, Ecco, Basta. Con esse, però, è possibile costruire una frase, dal senso compiuto, che mi addolora:
«Io con te casa. Ecco». E piange oppure mi guarda con i begli occhi che ancora manifestano piena coscienza.
Le ripeto:
«Mamma, ora non si può…devi rimetterti…sei stata molto ammalata…hai bisogno delle cure in ospedale…»
È facile immaginare il mio stato d’animo.
Questa mattina la mamma ha tentato di dare vita con la mano sinistra al braccio plegico. Se lo alzava e questo cadeva inerte sulle ginocchia.
E poi, seduta sulla carrozzina a rotelle basculante, ha sollevato entrambe le gambe ormai scarne guardandomi negli occhi. Il lucido sguardo di una dolcissima e ingenua bambina sembrava volermi dire:
«Vedi? Sto meglio…posso venire via con te!».
Povera mamma.
Spero che non si senta tradita.

Buon compleanno, Nani!

Oggi è il mio compleanno. Nato il 20 gennaio 1956, ormai sono tecnicamente un anziano.
Fino all’anno scorso, appena mi svegliavo, la mamma era pronta a farmi gli auguri. Probabilmente non aveva dormito per la fregola di darmi il dono. Voleva,  doveva  essere la prima perché riteneva che i suoi auguri – gli auguri della mamma – fossero particolarmente benauguranti e perché voleva che il suo dono si distinguesse rispetto a quello di tutti gli altri, il dono della mamma.
E così il mio 20 gennaio iniziava seguendo un brevissimo copione:
«Buon compleanno, Nani», con due baci sulle guance.
«Grazie, Mami».
Ci siamo chiamati Nani e Mami per un’intera vita. I suoi regali non assecondavano miei desideri, non mi chiedeva nulla, erano imprevedibili. La mamma voleva sorprendermi, generare la sorpresa per manifestarmi il suo grande affetto, per sottolineare, una volta in più, quanto io fossi importante per lei. La mamma nella sua vita ha incontrato molte difficoltà e mi ha sempre considerato come la sua cosa più bella. La sua fortuna.
Trovato il regalo che la soddisfaceva, lo intrufolava nel suo armadio settimane prima.
Ricordo con inteso affetto ed emozione quando compii i trent’anni . Il dono mi generò una forte emozione. La mamma aveva partecipato di nascosto a un’asta televisiva aggiudicandosi un magnifico orologio da taschino del diciottesimo secolo in argento ed oro rosa; nel meccanismo c’erano rubini veri e la cipolla veniva caricata dal quadrante mediante una strana chiavetta d’argento. Ma questo non le bastò. Prese con sé la cipolla e si recò da Serrazanetti, un famoso orefice del centro che commerciava oggetti preziosi d’antiquariato, ed acquistò una pesante, grossa, catena in argento di foggia assolutamente originale.
Cosa successe quando aprii il cofanetto?
Mi commossi, ovviamente, sia per la bellezza del dono e sia, soprattutto, per quello che esso rappresentava. Era l’amore della mamma diventato reale tra le mie mani. I suoi pensieri che si erano materializzati in un magnifico oggetto. I veri doni hanno sempre dietro un qualcosa che proviene dal profondo dell’anima.
Diciotto anni fa successe, però, che la mamma il 20 gennaio non riuscisse a seguire i suoi piani per intero. Contro la sua volontà, ovviamente, perché il compleanno fu calato in un contesto di avvenimenti particolare: ero all’Ospedale Sant’Orsola.
Avevo chiesto due giorni di ferie per festeggiare in tranquillità, il venerdì e il lunedì, quest’ultimo era il giorno del compleanno. Mi alzai, portai il mio bulldog Platone a fare la passeggiata mattutina. Ritornato a casa, mia madre era uscita, accusai degli spasmi fortissimi all’addome da non potere stare in piedi. Quando la mamma ritornò a casa, chiamai un taxi e, insieme, andammo al Pronto Soccorso. Al triage il mio caso non parve che dovesse essere valutato con urgenza, i dolori erano scomparsi, e mi diedero il codice verde.
Passarono cinque ore e, finalmente, venne il mio turno. La temperatura corporea nel frattempo era salita a quasi quaranta gradi inoltre gamba e piede destro si erano molto gonfiati con un colore scarlatto.
Non riuscivo a muovermi e gli infermieri dalla sedia a rotelle mi misero sul lettino. Il medico vide la gamba, mi auscultò e poi seguì un elettrocardiogramma. Di peso mi portarono a fare una radiografia toracica. Appoggiato alla macchina dei raggi X, mi abbandonarono per effettuare l’esame. E vidi il mondo allontanarsi, sentii che la vita mi stava abbandonando.
«Sto morendo», pensai, «ma non è una cosa brutta perché non sento paura».
Delle voci lontane urlarono:
«Oh, oh, sta svenendo! Presto! Andate a prenderlo».
Non svenni né, ancor più, morii.
Fui collocato su una lettiga a rotelle e passai di fronte alla mamma. Ricordo bene il volto sbiancato e lo sguardo tutt’ a un tratto terrorizzato.
Mi condussero in una stanza della medicina d’urgenza, seguirono ben presto delle flebo e delle iniezioni all’addome.
Comparve un mio amico medico insieme alla mamma:
«Pensano che sia una tromboflebite».
«Quindi dovrò fare i fluidificanti per sempre»?
«Sì, probabilmente»
«Una bella prospettiva a quarantasette anni».
E mi lasciarono con i miei pensieri.
Era un venerdì 17.
La mattina successiva fui sottoposto all’ Ecodoppler della gamba. Non rilevarono alcun trombo, il sangue fluiva libero.
Il radiologo mi chiese:
«Per caso ha qualche scalfittura, qualche abrasione»?
«Certamente, eccola qua», mostrandogli una bella crosta sul tallone. Dieci giorni prima era caduta la neve e mi misi degli scarponi molto duri che mi procurano una vescica. Poiché in quel giorno lavoravo in pomeriggio, così rimasi per tutto il giorno senza togliermi lo scarpone e non mi disinfettai il piede. Causai un’infezione.
Il radiologo smadonnò:
«E’ incredibile che al Pronto Soccorso non distinguano un’erisipela da una troboflebite»!
L’erisipela è un’infezione profonda della pelle da stafilococco o streptococco che genera forte rossore e gonfiore.
La diagnosi mi diede un bel sollievo.
E fui trasferito nel reparto di dermatologia, con cure di antibiotici e interminabili bagni al piede a base di ittiolo.
Così trascorsi il giorno del mio compleanno in ospedale, senza che la mamma potesse festeggiarmi come voleva lei.
Da quel giorno, per scaramanzia, il giorno del compleanno l’ho trascorso sempre lavorando.
Oggi, invece, è un compleanno triste perché la mamma non abita più con me ma si trova in una casa di riposo, prigioniera della sua salute, prigioniera dell’emiplegia e dell’afasia.
Dopo un mese e mezzo, ieri mattina mi hanno dato il permesso di vedere la mamma attraverso la vetrata che s’affaccia sul giardino. Questo è stato il tempo necessario per la negativizzazione dal Covid 19 di tutti le persone residenti nella struttura, degli operatori, e per la sanificazione degli ambienti.
Mi sono recato alla casa di riposo con il batticuore.
Compatibilmente con la sua severa patologia, l’ho trovata abbastanza bene. La mamma è stata la prima a negativizzarsi al virus senza evidenziare sintomi ed anche la vaccinazione è andata via liscia.
Questa visita tanto desiderata è stato il grande regalo di compleanno che la mamma quest’anno mi ha fatto. Lei non sa che questo è stato un regalo. Non le ho detto che oggi sarebbe stato il mio compleanno per non farla piangere. Le ricorrenze possono generare sofferenza.
Il regalo della mamma mi è arrivato ma mi mancano i due baci sulle guance e l’augurio di sempre.
Però…ora io sono anche l’amministratore di sostegno della mamma e posso sostituirmi a lei. Conosco le sue intenzioni, interpreto i suoi pensieri.
In virtù di questo potere, dico quindi a me stesso, come se queste parole provenissero direttamente dalle labbra della mia amata mamma:
«Buon compleanno, Nani»!

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