La professoressa di lettere (1)

Nel 1971 frequentavo la seconda classe del Liceo Scientifico.
In una tiepida mattina all’inizio di ottobre, tutte le finestre erano ancora spalancate, prevedevamo ore di baldoria poiché le assegnazioni dei professori andavano per le lunghe. Si ebbero risate sguaiate per le reazioni, schiaffi e calci, della Rosina Strocchi contro le assidue vessazioni di alcuni compagni. La gazzarra fu improvvisamente interrotta da una nuova insegnante che entrò con passo veloce. Si sedette alla cattedra mollando con un tonfo libri, registro e borsa.
«Buongiorno. Fate silenzio, per favore. Mi chiamo Lilia Armenghi. Sono la vostra professoressa di lettere», disse gravemente.
Seguì un silenzio immediato come dopo un fulmine a cielo sereno. Eravamo increduli: la professoressa ricordava Sylvie Vartan, la cantante yé-yé, oppure avrebbe potuto essere una valletta del Rischiatutto con Mike Bongiorno, al posto di Sabina Ciuffini. Lilia Armenghi indossava una minigonna e un piccolo gilet scamosciato, ricamato con fiori multicolori, sopra ad una camicetta bianca dal colletto a punte lunghe arrotondate, sbottonata fino all’attaccatura del seno. I lunghi capelli biondi, acconciati con una frangia, scalati, le incorniciavano il volto, gli occhi erano allungati da una sottile linea di china nera. E portava tacchi alti.
Sovvertiva decisamente gli usuali preconcetti sulle insegnanti liceali.
L’Armenghi, in contrasto, ben presto si rivelò un’insegnante scrupolosa, rigorosa, esigente, che infondeva grande passione perfino nelle letture de I Promessi Sposi e nelle lezioni di latino, assai più delle colleghe beghine.
E al terzo anno di liceo, la professoressa ci apparì un po’ cambiata, più ricercata nel vestire, più elegante nei gesti, con modi sofisticati ma asciutti. Prese anche a scrutare l’interlocutore socchiudendo gli occhi mentre s’insinuava, lenta e decisa, entro l’immateriale spazio prossemico dei suoi interlocutori. Il tracagnotto professor di filosofia Caterino Xibilia una volta ironizzò su questo: «L’Armenghi guarda in quel modo perché è miope, ma evita gli occhiali…teme che nascondano la sua bellezza… Però, quando si avvicina e fissa in quel modo, mi chiedo: mi butto o non mi butto? Ahaha!».
Noi allievi venivamo spesso disorientati dal susseguirsi di intellettuali considerazioni, talvolta mordaci, a inaspettate parole materne. Insomma, ora Lilia Armenghi era diventata una donna giovane, bella e affascinante. Ora ci appariva perfetta.
E aveva solo poco più di dieci anni rispetto a noi.
La professoressa iniziò il nuovo programma di letteratura leggendo le poche righe del Placito capuano dal Pazzaglia, l’antologia di letteratura italiana dalla copertina gialla come tuorlo d’ uovo.
Scandì le parole con voce altisonante:
«Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contiene trenta anni le possette parte sancti Benedicti».
Le lezioni si evolsero, diventando assai più elaborate rispetto a quelle dell’anno precedente. E capimmo che le ore trascorse con l’Armenghi erano speciali, assai diverse da quelle delle altre classi.
La bionda professoressa dischiuse una finestra sul mondo della linguistica, per cui le parole non furono più studiate solamente secondo le trite regole grammaticali, dell’analisi logica e del periodo: fummo i primi liceali bolognesi a ragionare sui concetti di significante, significato e referente, conoscemmo la differenza tra sincronia e diacronia. L’Armenghi ci introdusse anche ai fondamenti della semiotica, disciplina che a quel tempo veniva insegnata solamente all’Università di Bologna da Umberto Eco al DAMS. E ci entusiasmò tanto perché la semiotica sembrava poter indagare ogni aspetto del mondo, una religione senza dio. Tutta la classe divorò Diario minimo di Eco e Silvio Nocenti, particolarmente entusiasmato, prese in prestito dalla biblioteca comunale perfino La struttura assente, faticosa lettura di lì a poco abbandonata.
Il nostro orizzonte di adolescenti si ampliò in breve tempo e iniziammo così a riflettere su cose da grandi.
Molte lezioni ardevano di passione, specialmente quelle dedicate alle letture dantesche perché manifestavano poetica ispirazione. Quella dedicata al Decimo Canto dell’Inferno ebbe toni spesso accesi, intensi, temperati da una sottile regia studiata con meticolosa cura. Gli interessi germogliano e mettono radici più profonde se trovano terreno concimato dalla fascinazione.
E la professoressa si levò dalla cattedra, prese l’Inferno con il commento di Sapegno da un banco e incominciò a leggere passeggiando per la classe tenendo il testo piegato a metà. Quel libro usato, malconcio, almeno al terzo anno scolastico di vita, dopo che fu tenuto in mano, piegato, sgualcito, stropicciato dall’Armenghi e, soprattutto, sfogliato dalle dita leggermente inumidite sulle sue lucide labbra, acquisì il valore di una reliquia.
Le terzine del Canto X pervasero la classe:
«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco
».
Lesse con lentezza, talora scandendo, talora sussurrando, e con ampi gesti.
Il commento, le riflessioni si soffermarono sulle complesse vicende di Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti, epicurei dannati, sostarono sui suoni, sulle melodie, sulle dissonanze delle sillabe, sull’assenza di casualità nella scelta delle parole e sulle visioni evocate dai versi.
L’attenzione tributata alla lezione costituì per alcuni anche una facilitazione per ammirare senza magheggi la seducente bellezza della professoressa e, probabilmente, nella testa di Tommaso Gozzi, poco propenso alle suggestioni e al pathos danteschi, le parole a commento dei versi del Poeta si mischiarono a certe scene dei film con Edwige Fenech.
Seduto in un banco dell’ultima fila, Gozzi era un tipo massiccio con capelli rossi ed efelidi dalla vista lunga: fingendo di cercare i ray-ban a specchio nel proprio giubbotto di pelle, si alzò in realtà per raccogliere un lungo capello biondo perso dall’Armenghi su di un loden blu. Gozzi esibì ammiccando, con sorriso fino alle orecchie, il prezioso trofeo. E seguirono gomitate, cenni, occhiate, risatine senza che la professoressa s’accorgesse di nulla. Il suono della campanella fece svanire la lezione sugli epicurei nel nulla. Gozzi incartò il trofeo tricologico con un foglio di quaderno, e in pochi minuti lo vendette a Dario Franchi, giocatore di basket appena discreto quanto ottimo playboy millantatore, per ben mille lire.
Le preziose lezioni di Lilia Armenghi, come bottiglie abbandonate in mare, sarebbero state ritrovate da qualche allievo, prima o poi, durante la vita. Non intendeva convertire alla lettura, la professoressa era semmai una sorta d’astuta mezzana che combinava incontri con i grandi scrittori. Sperava di fare nascere l’amore per la lettura o che, almeno, qualche verso armonioso, qualche parola ispirata, raggiungessero anche le menti dei più riottosi e distratti.
Fece una raccomandazione:
«Leggete ora perché, quando sarete grandi, non ne avrete più tempo. Solo da giovani ci si può trastullare in cose inutili come la lettura dei romanzi e dei poeti!».
E con l’Armenghi ammirammo così gli inutili gioielli di Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Machiavelli, Guicciardini, Tasso…

(Continua)

L’ombra della Rocchetta (10-Epilogo)

Una decina di anni fa, la mamma s’affacciò sorridendo nella mia stanza con in mano una gonfia busta gialla.
«Ho trovato in fondo all’armadio questa. Contiene le fotografie che il babbo si faceva lasciare dai clienti per togliere il malocchio o per dare fortuna».
Sfogliai più di duecento fotografie invecchiate.
«Hai riconosciuto qualcuno?».
«No, nessuno».
«Per forza, hai guardato troppo distrattamente. Osserva queste fotografie per bene». Riconobbi immediatamente i volti e in un batter di ciglio capii.
«Mamma, dunque la Mâta aveva ragione?».
«Sì. Avevamo in casa le fotografie che voleva indietro…Le fotografie della Iolanda e della sua famiglia! Ma chi se lo ricordava più…morto il babbo, infilai queste fotografie nella busta alla rinfusa. Se mi fosse venuto in mente, per evitare i fastidi che abbiamo passato, gliele avrei subito restituite venticinque anni fa!».
«Non fartene una colpa. Se accadessero ora, le azioni della Mâta rientrerebbero nel reato di stalking quindi facilmente condannabili con la reclusione per diversi anni senza troppi arrampicamenti sugli specchi da parte dell’avvocato. È andata così…Tu e queste fotografie c’entrate molto poco con la Mâta. Un caso psichiatrico…aveva bisogno di perseguitare. La sua malattia cercava un bersaglio e poi ha costruito intorno a te una storia. La sua storia».
«Quando preso ho in mano queste fotografie ho sentito dei brividi per la schiena, una specie di scossa elettrica. E mi è riaffiorata in mente tutta la verità ormai morta e sepolta! Come ho potuto dimenticare…perché non ho collegato? Eppure ho una buona memoria e sono fisionomista…quante angustie avremmo evitato!», percuotendosi la fronte con il pugno. Le presi le mani. Piangeva. La abbracciai.
«Ma ora raccontami i tuoi ricordi».
«Ebbene, la madre della Mâta veniva dal babbo insieme alla Mâta e alla gemella, la Fioretta, per farle segnare».
«Ti ricordi perché le portò dal babbo?».
«Non stavano bene».
«Probabilmente la madre aveva già notato qualcosa che non andava nella testa della Mâta e dell’altra. Chiese aiuto al babbo, il migliore dei maghi, per evitare di rivolgersi allo psichiatra. Meglio togliere il malocchio delle cure in un manicomio!», congetturai. «Ma quanti anni avevano le gemelle?».
«Nove, dieci anni. E sai come arrivarono dal babbo? Ti ricordi quando tu ed io andammo dalla Contessa Fadda in Strada Maggiore? La madre della Mâta e la Iolanda erano le cameriere della Contessa. Andando avanti indietro per la casa, forse anche per curiosare, la madre vide che io facevo le carte alla sua padrona…».
«E fu dunque la Contessa a inviare la madre dal babbo per risolvere il malessere delle figlie?».
«Sì, la Contessa conosceva bene i poteri di tuo babbo».
Quindi, ancora bambino, avevo conosciuto anch’io la madre della Mâta e la Iolanda in casa della Contessa, ovvero Iris Boriani, l’ultima erede del Conte Mattei: la madre aprì la porta, mi offrì i cioccolatini in salotto mentre la mia mamma faceva le carte alla Contessa invece Iolanda era la ragazza che pettinava il gatto d’angora in cucina.
«La madre della Mâta venne in casa nostra almeno per tre volte perché le segnature, come sai, vanno ripetute. E portò al babbo le fotografie degli altri figli, fra cui quella della Iolanda, per fargli controllare con il pendolo se qualcun altro avesse il malocchio…quindi la Mâta vide il babbo usare il pendolo. Aveva visto il vero! Tuo padre ebbe la colpa di non aver restituito le fotografie dopo aver eseguito gli esorcismi…».
Mi mancarono le parole.
«Se il babbo fosse stato meno zaccolone ci saremmo evitati guai, lacrime, paure e non avremmo speso quel mare di soldi…Che Dio l’abbia in gloria». E si fece il segno della croce mandandogli un bacio con la mano per farsi perdonare.
«Il babbo conobbe mai personalmente la Contessa? Mi ricordo solo che parlavano ogni giorno per telefono».
«La conobbe qualche anno prima. Ma non con il passaparola delle persone grate per il bene ricevuto. Hai presente il Mercantone di Vergato, Primo Stefanelli, e sua moglie?».
«Come no? Ricordo bene il negozio di mobili vicino alla stazione e la moglie che spennava le galline a gambe aperte, seduta davanti all’entrata. E ricordo che da lui acquistaste la nostra camera da pranzo».
«E che faceva parte del mobilio della Rocchetta Mattei…E che la moglie di Primo Stefanelli acquistò la Rocchetta…».
«Quindi Primo Stefanelli indirizzò dal babbo la Contessa perché aveva bisogno delle sue facoltà?».
«No, la storia andò molto diversamente…».
Stefanelli, possedendo tanti soldi con la moglie Elsa Sapori, intese acquistare la Rocchetta per trasformarla in un luogo di divertimento, con albergo, ristorante e bar. Sapeva, però, che il Conte Mattei era un personaggio molto strano e che alla fine della vita andò fuori di testa. Poiché il Conte si trovava tumulato nella cappella all’interno del castello, Stefanelli, molto superstizioso, intendeva conoscere se lo spirito del Conte, dopo la trasformazione della Rocchetta in attrazione turistica, gli si fosse rivoltato contro e se gli avesse portato scalogna. Anche la Contessa, unica erede di Mattei, depositaria dei suoi segreti, aveva interesse di sapere se lo spirito avesse approvato la vendita della Rocchetta e se il via vai di turisti con bambini avesse arrecato offesa al sonno eterno del Conte. Nutrendo cieca fiducia verso mio babbo, Stefanelli lo chiamò a Riola di Vergato, prima di procedere all’acquisto del castello, per una consulenza molto particolare.
«Tuo padre entrò in contatto con l’anima del defunto in presenza della Contessa, di Stefanelli e di sua moglie. E pure io ero presente a quella seduta spiritica».
«Lo spirito quindi non si oppose, visto che la moglie del Mercantone acquistò la Rocchetta», conclusi io.
I ricordi della mamma chiarirono ogni cosa. Le varie sorti dei personaggi – il Conte Mattei, Mario Venturoli, Giovanna Maria Longhi, Iris Boriani, Primo Stefanelli, mio babbo, Angela Fiocchetti, la mamma, ed io – erano state concatenate dal destino in una sola storia all’ombra della Rocchetta!
E mio babbo, il Mago, nel bene e nel male, volente o nolente, ne fu il deus ex machina.
«Cosa devo ora fare di queste fotografie?».
«Stracciale».

(Fine)

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