Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte ventiquattresima

Giulietta, marchesa zitella discendente di un’antica famiglia senatoria bolognese, ogni venerdì si presentava in casa nostra per ottenere i servigi del babbo perché pensava, come tanti, che questo giorno fosse favorevole alle pratiche magiche e se non avesse potuto in quel giorno, avrebbe scelto un giorno con la erre.
Io stavo con il babbo quando suonò il campanello di casa e sentimmo la mamma:
«Buongiorno signora Giulietta! Attenda un momento, vado a vedere se mio marito è libero».
«C’è quella borsa della _Giulietta degli spiriti_», così la mamma disse a bassa voce strizzando l’occhio.
«Falla passare. Oggi è con i cagnini?» Portava spesso con sé tre vivaci e innocui piccoli barboncini bianchi di cui avevo paura; per questo salivo sul tavolo o su di una sedia e lei si divertiva.
«No, è venuta da sola», rispose la mamma.
«Allora, stai qua vicino a me.»
La donna entrò speditamente. Era sulla cinquantina, bassa, minuta, vestiva semplicemente spesso con pantaloni di un fine principe di galles e un maglioncino bianco, con il collo alla ciclista, indumenti che raccontavano la loro provenienza dai migliori negozi del centro. Aveva una massa di capelli rossi pettinati a ciocche e nascondeva lo sguardo dietro a dei grandi occhiali dalle spesse lenti scure.
«Buongiorno Riccardo… E tu hai già studiato?», cinguettò la Marchesa come le donne scioccamente si rivolgono con i bambini. Non le risposi. Camuffai con la timidezza la mia precoce insofferenza per moine e voci querule rammentando i bei giocattoli che, ogni anno, mi regalava per la Befana e il compleanno. Il babbo rispose al posto mio:
«Non ha avuto molti compiti, oggi mi farà da segretario. Le spiace?»
«No, no, per me può rimanere. Gli sta già insegnando le sue arti? _Mo l è un fangén, Riccardo…_ è un bambino!»
«Sì, è un bambino che, però, deve crescere conoscendo tutto dalla vita, il bello e il brutto della vita. I bambini non devono crescere nella bambagia, non si devono tenere sotto a una campana. Io quando avevo la sua età fumavo come un turco e andavo già a…_pasturèr_», facendo l’occhietto alla marchesa. Già: in appena undici anni trascorsi insieme a mio padre conobbi senza alcun filtro, per quello che erano, una gran quantità di forme e modi con cui si declina l’umanità. La mia casa era come un paiolo dove si cuocevano farine di ogni genere; incontrai, cioè, fin da bambino, una grande varietà di caratteri e tipi eterogenei, appartenenti a ogni ceto sociale che svolgevano ogni tipo di professione: in attesa dei servigi del babbo, nella mia casa di Via Galliera si potevano incontrare contadini, impiegati, prostitute, politici pastori, giornalisti, nobili, domestici, artisti, tutti democraticamente uniti dalle batoste della vita, da ostacoli, dubbi, inconvenienti più o meno gravi, oppure per migliorare il proprio stato non necessariamente cattivo.
«_Eh mo csa dîṡel Riccardo!_ Ma cosa dice! Tutti sanno che lei è un bel galletto…con sua moglie ha avuto un gran buon gusto… Eh, questa volta non seguire mica quello che ha detto il babbo! Ma…Non gli insegnerà mica di fumare!», disse Giulietta con un lieve cinguettio.
«Ma no, ma no… era per dire. Per quanto riguarda questo lavoro si vedrà…gli insegnerò se lo vorrà e se dimostrerà di averne la vocazione e se ne sarà degno. Voglio piuttosto che si diplomi.» E chiuse il discorso.
«_Comm stèla_ Giulietta. Come sta?»
La donna si corrucciò.
«Stanotte non ho dormito… Li ho sentiti, mi chiamavano, mi dicevano parole oscene, ridevano di me, spostavano le cose sui mobili, aprivano gli sportelli, buttavano per terra i libri dalla libreria!».
«Forse sono degli sono degli spiriti burloni, con l’amuleto indosso non deve avere paura, non le faranno del male. Però lei deve smettere di fare il tavolino».
«Ma come faccio? Io voglio parlare con i miei antenati…voglio sapere».
«Sapere, sapere, sapere, cosa dovrà mai sapere…Glie l’ho detto tante volte: i morti vanno lasciati in pace. Sono loro che vogliono parlare con noi e ce lo fanno capire. Non sono al nostro servizio. E poi vede come va a finire? Il tavolino viene mosso da altri, si trova la casa zeppa di spiriti che non la fanno dormire».
«Ha ragione Riccardo, ma è colpa della mia domestica».
«La domestica non sa quello che fa. Io posso solo proteggerla dagli spiriti, non dalla sua domestica. La mandi via».
«Posso, allora, venire da lei per parlare con i miei antenati?»
«Le ho detto già che non voglio, i morti vanno rispettati. Non si evocano per chiacchierare, per capricci o scrivere libri. Faccia, piuttosto, dire loro delle messe e vada in Certosa a pregare»
«Io prego sempre e vado in Certosa…il resto non posso farlo. Sento in testa la voce del mio trisavolo, mi chiama, mi dice che ha da parlarmi…»
«Ma quello non è un suo ascendente, gliel’ho detto più volte. Lei deve togliersi di torno quella donna e faccia attenzione ai suoi soldi»
«Non posso mandarla via…sa bene, l’ho promesso alla madre»
«Allora non si lamenti. Quest’è beneficenza che le si ritorce contro. Quella donna è una malefica pasticciona. Io a questo punto posso solo riparare i guasti degli altri. Si ricordi, però, di non approfittare della benevolenza e della protezione che l’amuleto le concede. Uno di questi giorni potrebbe arrivare qualche spirito maligno…infernale. Quelli fanno sul serio, non si limitano a buttarle a terra i libri!»

(Continua)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte ventitreesima

I giorni e la convivenza mitigarono la distanza tra il babbo, uomo sulla strada dell’anzianità, e la mamma che, con la sua giovinezza e l’esuberanza caratteriale, ne aveva ravvivato la fiamma interna affiochita dall’età; nel contempo, questo legame la maturava più velocemente, con maggiore profondità.
La mamma però ben presto si trovò davanti alla durezza della realtà prevista da altri ma non da lei: maltrattato dalle troppe sigarette e dalla temerarietà che manifestava nell’attività di mago, il vecchio cuore del babbo fu squassato da un infarto qualche mese prima del matrimonio. Superata la crisi, il babbo, qualora si fosse ripresentata un recidiva della malattia, avrebbe sposato la mamma in extremis, ma non ve ne fu bisogno.
Il primario dell’ospedale aveva ordinato a Riccardo di piantarla con il suo fricandò di sigarette che gli avevano ingiallito le dita e le unghie della mano destra. Basta totalmente con le Alfa, Nazionali, Serraglio, Macedonia, Diana, Mercedes, trappole nocive per il cuore.
Il medico della mutua disse al convalescente:
«Riccardo se non vuoi morire, dimezza almeno le sigarette e non devi essere più temerario con il tuo lavoro.»
E il babbo obbedì a modo suo.
Qualche settimana dopo, il dottor Agostini rinnovò la domanda:
«Allora ora quanto fumi? Hai fatto quel che t’ho detto?»
«Si, dottore. Ne fumo quaranta», rispose Riccardo fissandolo con un tono che stava tra la provocazione polemica e la presa in giro.
«Quando cambierai? Tra poco sposerai una donna che potrebbe essere almeno tua figlia e sarai padre», disse il medico ma sapeva quanto fosse difficile smuovere l’uomo da qualsiasi idea.
I miei genitori si unirono in matrimonio il 9 agosto 1955 al Santuario di San Luca. La mamma era incinta di me e quindi, per non dare adito a maldicenze, il matrimonio fu celebrato con dispensa dalle pubblicazioni in presenza dei soli testimoni, nemmeno in presenza di Aristide e Caterina, che erano stati tenuti all’oscuro d’ogni cosa, sebbene a celebrare il rito fosse stato proprio parroco di Vergato. Subito dopo noleggiarono un taxi e la mamma, bellissima, vestita con l’abito della cerimonia, annunciò con raggiante semplicità e lo stupore dei familiari:
«Incû am sån spuṡè», oggi mi sono sposata.
E qualche mese più tardi, il 20 gennaio 1956, feci la comparsa nella fabula di questo racconto: la mamma mi partorì poche ore prima che il Sole abbandonasse il cielo del Capricorno; e questa combinazione comportò che l’ascendente fosse nel segno del Leone. Nacqui in casa, come ancora spesso avveniva in quegli anni; probabilmente per questo motivo il babbo ingaggiò due levatrici, ed era presente anche la nonna Caterina, venuta da Vergato. L’esatta data di nascita era stata individuata dagli spiriti che gli prestavano i servigi, data che la mamma rispettò con precisione, perché il babbo doveva creare per me un oggetto magico, un pentacolo. Si era recato per questo presso un orefice perché incidesse una medaglia d’oro di forma circolare: su una faccia un motto antico, Mors tua vita mea che, richiamato dal babbo, alludeva a un significato esoterico e sull’altra un sacro emblema costituito da una croce radiante sovrastante forse un nome, ma non so di chi, o forse una magica parola, di cui non conosco il significato o la funzione, Neurat.
Il parto fu complicato non tanto dai due giri di cordone ombelicale intorno al mio collo quanto da una strana circostanza: la levatrice più anziana prese a urlare sentendo due inesorabili mani invisibili stringerle il collo con forza; questa mentre tentava di liberarsi dalla costrizione abbandonò la mamma e me. Se fu un attacco di panico non si manifestò nel momento migliore.
Mio padre inveì contro questa e urlò all’altra levatrice di risolvere la complicazione.
Mi presentai così al mondo con un bel colore bluastro e il babbo, per la tensione rinforzata dallo spavento, dopo aver constatato che non avevo malformazioni, si sentì male.
Conosciuta l’esatta data di nascita, il babbo esorcizzò il pentacolo affinché mi accompagnasse nel percorso della vita formando esso, intorno alla mia persona, una specie di bozzolo protettivo per favorire l’avvento di cose buone e attutire i colpi delle inevitabili sorti avverse. Questa particolare atmosfera è costituita da centurie di spiriti che raddoppiano, di anno in anno, secondo quanto il babbo-mago mi disse allorché avevo raggiunto appena l’età per capire e per ricordare.
Alla mamma regalò una parure in oro composta da un collier con una medaglia riccamente decorata ritraente la Madre Celeste e da orecchini, due anelle che accentuavano i lineamenti da Carmen della mamma.

(Continua)

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