I segreti sposi

La mia mamma mi ha detto per decenni, con tono apodittico e un nulla di orgoglio:
«Tu sei romano», oppure «Sei stato concepito a Roma». Era il fascino della Città Eterna, capitale della Cristianità. L’Urbe. Roma caput mundi… Ma né il luogo né il momento del concepimento sono dati rilevanti per alcunché, ammesso che essi siano determinabili con precisione; non servono nemmeno alle speculazioni astrologiche.
Tre fotografie in effetti ritraggono i miei genitori a Roma nel 1955 davanti alla Basilica di San Pietro; le parole della mamma mi hanno sempre fatto immaginare di essere presente con loro, in quel momento prima della nascita, come minuscolo aggregato di cellule nel ventre della mamma. Essere presente quando ancora non c’ero: un bel pensiero.
E chiesi alla mamma se quello fosse stato il loro viaggio di nozze:
«No, perché ci siamo sposati in agosto; facemmo un viaggio a Roma perché il babbo doveva fare un lavoro per una cliente».
«Che lavoro era?».
«E chi se lo ricorda? So solo che dovevamo andare da una contessa ma poi non se ne fece nulla». Capitolo chiuso.
La mamma più volte mi aveva descritto succintamente il matrimonio, celebrato il 9 agosto 1955 presso il Santuario della Beata Vergine di San Luca:
«Sai? Con noi c’erano solo i testimoni e il prete…al termine del matrimonio siamo andati a prendere un caffellatte al bar perché eravamo senza soldi». Mi mostrò quindi l’abito di nozze; essendo incinta, non era bianco ma di un chiaro color beige.
«Guarda un po’ il vitino che avevo allora…».
«Ma non eri incinta?».
«Sì, però da giovane ero molto magra…», orgogliosamente.
Non c’era nemmeno una fotografia delle nozze. Un matrimonio all’osso. Questo per diverso tempo fu lo stato dell’arte sull’argomento.
Un giorno, nel 2015, mi venne l’estro di scannerizzare tutte le fotografie che possiedo.
Dei nonni paterni, c’è una sola fotografia ambientata tra le colonne dell’ospizio di Villa Romita, attualmente Villa Ranuzzi, dove io, bambino di pochi mesi, vengo tenuto in braccio dalla mamma. Senza queste fotografie non avrei contezza dei volti di nonno Quirico e di nonna Esteria; probabilmente nacquero intorno agli anni della Breccia di Porta Pia, regnante Vittorio Emanuele II con Pio IX che sputava bile perché gli rimaneva solo la Cattedra di Pietro. Ho invece diverse fotografie dei nonni materni, Aristide e Caterina, da me ben conosciuti, tutte scattate a Vergato.
Da tanto non avevo più ripreso in mano quelle vecchie immagini quindi le osservai per bene. Con il computer potevo anche ingrandirle e ridare loro vita restaurandole.
E giunse il turno delle fotografie scattate in Piazza San Pietro, a Roma.

Quant’era bella la mia mamma nel 1955! Non me n’ero mai veramente accorto prima perché le mamme non sono né belle né brutte per i figli: sono mamme. Il babbo avrà generato stupore nel fotografo comunicandogli, con orgoglio, che quella ragazza con cui s’accompagnava non era la figlia ma la sua fidanzata. Al babbo piaceva stupire, provocare… Tra i due intercorreva un vero salto generazionale: mio padre nacque nel 1898 qualche giorno dopo la sanguinosa repressione di Bava Beccaris, a Milano, dei moti popolari per il pane, mentre pochi giorni dopo la nascita della mamma, nel 1933, la Germania era diventata, ahimè, una crudele dittatura.
Il babbo annotò dietro a una fotografia del viaggio romano con la sua pesante calligrafia che sembra incidere la carta:
Ricordi di Roma
Riccardo e Bruna
21-2-55.

Subito mostrai la scritta alla mamma: cadevano nel nulla le mie origini romane perché, se così fosse stato, sarei nato dopo undici mesi di gestazione… Sarebbe stato un caso da registrarsi nella letteratura medica.
La mamma non fece una piega, si limitò ad alzare le spalle. E alla fine a me dispiacque di non essere stato fecondato nella Capitale di Tutto, dopo averlo creduto per quasi una vita.
E la mamma, in là con gli anni, da qualche tempo, aveva cominciato a farmi spontaneamente interessanti racconti della sua vita, prima e dopo la mia nascita. Diversi di questi mi fecero sobbalzare oppure strabuzzare gli occhi. Altri invece mi addolorarono e, subito dopo, molto arrabbiare.
Ritornò, ovviamente, anche sul matrimonio. Bruna e Riccardo si sposarono all’insaputa di tutti, soprattutto all’insaputa della famiglia materna; il giorno stesso delle nozze si presentarono a Vergato come marito e moglie, lasciando basito tutto il parentado.
C’era dell’altro. Rimasta incinta, il babbo lasciò alla mamma la decisione di sposarlo: mi avrebbe riconosciuto come figlio dandomi il cognome ma avrebbero potuto convivere e, visto lo stato precario del suo cuore, il matrimonio sarebbe stato rischiosamente celebrato in extremis. Occorre rammentare che mio padre era rimasto vedovo, che la mia bella mamma era maggiorenne da poco più di un anno e se aggiungiamo che tra i miei genitori correvano tre decenni e mezzo abbondanti, dalla volontà di mia mamma si sarebbe potuta inverare una situazione di difficile governo: erano i tempi in cui facevano scandalo le vicende di Fausto Coppi con la Dama Bianca…
Ma tra i miei venne il matrimonio.
«E i nonni erano favorevoli alle nozze?».
La nonna paterna Esteria disse: «Signorina, ricordatevi che mio figlio ha trentacinque in più di lei…».
Specularmente, il nonno materno Aristide, che aveva otto anni in meno del mio babbo: «Ricordatevi di portare rispetto a mia figlia…».
«Ma i nonni di Vergato, alla fine, erano d’accordo perché vi foste sposati?».
«Sì; li avevo pure messi al corrente che ero rimasta incinta… Il nonno Aristide, qualora non si fossero concluse le nozze, ci avrebbe accolto, io e te, nella casa di Vergato».
Non oppressi più la mamma con altre domande perché intesi rispettare il suo passato.
Non nego che solo la quadratura generale di queste circostanze mi era apparsa soddisfacente appieno, come se fosse un mosaico di cui percepissi il disegno generale ma ritenessi incerta la collocazione di qualche tessera.
Nel 2020 la mamma si ammalò gravemente e fui costretto a inserirla in una casa residenza per anziani. Le era rimasta, oltre altri disturbi neurologici, una severa forma di afasia accompagnata da disartria, per cui la mamma comunica con sole tre parole, io con te, pronunciate in maniera assai sfuggente. E probabilmente si erano aggiunti delle limitazioni nella memoria e, parzialmente, di comprensione. In tal maniera i segreti della mamma sono perduti.
Quando accadono certe cose infauste è inevitabile cercare conforto nell’ambito dei parenti più stretti e che si parli di svariate cose famigliari. Chiesi ai fratelli della mamma, entrambi presenti a Vergato in quel particolare 9 agosto 1955, delle nozze.
La zia Maria ricorda solamente la bellezza della mamma in abito da sposa, dicendomi che era non solo all’oscuro delle nozze ma anche del fatto che era gravida. Lo zio Anselmo a sua volta mi ha confermato tutto questo.
Alla domanda se i nonni avevano avuto delle perplessità per il matrimonio, la zia mi ha risposto che non ne sapeva nulla che, anzi, stravedevano per mio padre; secondo lo zio delle perplessità, invece, ce ne furono.
La mamma a tal proposito mi raccontò che quello a mettere becco fu proprio lo zio Anselmo, giustamente zittito dal capofamiglia, il nonno Aristide.
Non molti giorni fa, assecondando non so quale istinto, ho richiesto una copia dell’Atto di Matrimonio dei miei genitori, presso il Santuario della Beata Vergine di San Luca, ed esso ha contribuito a fare chiarezza.
Come prima cosa saltano agli occhi due correzioni. La prima riguarda il nome del babbo, che viene scritto Ubaldo, cancellato e riscritto Ubaldo e aggiunto tra parentesi, che civilmente era Riccardo. Io so per certo di avere avuto uno zio, fratello del babbo, il cui nome era Ubaldo, morto assai prima del matrimonio. Inoltre il compilatore dell’atto dapprima scrisse che il babbo era celibe, quindi corresse scrivendo vedovo; già, mio padre era rimasto vedovo nel 1952. Errori di compilazione…e poi il babbo all’anagrafe era Ricardo e non Riccardo, secondo la parlata bolognese che omette certi raddoppi consonantici.
Non mi risulta che la mamma abbia mai lavorato da pellicciaia, come scritto in atto. Probabilmente la mamma dichiarò la prima cosa passata per la mente.
Il cognome del testimone del babbo, da me conosciuto, fu riportato come Pesci mentre io sapevo che era Pesce.
La testimone della mamma, il cui nome era Marcella, aveva appena ventuno anni…la mamma ne aveva ventidue. Non ho mai conosciuto questa Marcella, né gli zii sanno chi fosse.
Mi salta agli occhi che il matrimonio fu celebrato con dispensa dalle pubblicazioni canoniche; questa viene concessa dall’Officiante su richiesta degli sposi per giusta causa dopo averne accertato l’assenza di impedimenti e vincoli. La volontà di mantenere riservato il matrimonio per particolari esigenze dei nubendi potrebbe, in generale, costituire la giusta causa. Nel caso dei miei genitori c’erano diversi motivi per delle nozze in forma privata: la grande differenza di età, in aggiunta al fatto che il babbo era vedovo, avrebbero potuto essere causa di chiacchiericci, maldicenze, se non di ilarità, specialmente in un paese come Vergato; la giusta causa avrebbe potuto anche essere il non voler rendere noto lo stato interessante della mamma; infine, non escluderei una possibile opposizione nella cerchia più ristretta nell’ambito delle rispettive famiglie.
Salta, quindi, ancor più agli occhi che l’officiante fu proprio il Parroco di Vergato, territorio potenzialmente ostile; io mi sarei piuttosto aspettato o il Parroco di Santa Maria Maggiore in via Galliera, la Parrocchia del babbo, dove sono stato battezzato, oppure un frate cappuccino suo amico. Fu bravo il parroco vergatese ad assicurare il comprensibile bisogno di riservatezza richiesto dai miei genitori; non so però come convinsero il parroco a celebrare il matrimonio, visto che nella famiglia della mamma nessuno, compresa la mamma, andava in chiesa, i nonni erano dichiaratamente comunisti, e che mio babbo viveva ben lontano da quel paese. Però tutto ha un prezzo…
Furono nozze ammantate da anomalie, troppe per essere un matrimonio normale, poche per scrivere trentotto capitoli come nei Promessi Sposi! Ce n’era comunque a sufficienza per richiamare l’attenzione di un figlio indagatore.
Un figlio che non potrà più conoscere ulteriori dettagli.
Questa ricerca mi è, però, stata utile anche per un’altra ragione: pensavo di non avere alcuna immagine di quel 9 agosto 1955; e invece non è così. Una fotografia in bianco e nero non perfettamente a fuoco ritrae mia mamma con un mazzo di fiori in mano a braccetto di una bella ragazza. Entrambe sono vestite in chiaro. Dietro alle due c’è un edificio che ricorda una baita, alla loro destra un gruppo di persone con un religioso, accanto a questi un’importante balaustra che delimita uno spiazzo verso un ampio panorama indistinguibile per la canicola estiva. Ho sempre pensato che fosse una gita perché ho tante fotografie della mamma in viaggi di gruppo effettuati prima delle nozze.
E, prima della scannerizzazione, chiesi alla mamma quale fosse il luogo della fotografia e chi fosse quella bella ragazza. Mi pare che una volta mi abbia risposto:
«È la tua santola che ha voluto battezzarti come Marco Floriano». Ohibò, meno male che per l’anagrafe sono semplicemente Marco! Preciso che da queste parti santola sta per madrina. Questa ragazza io non l’ho mai conosciuta, mentre il padrino sì, essendo stato mio zio Anselmo. La mamma non si ricordò quale fosse la circostanza che la fotografia ritraeva.
Durante la scannerizzazione delle fotografie, nel 2015, la mamma disse che quella ragazza, invece, non fu la mia madrina, e me ne rivelò il nome, Marcella, senza altro aggiungere. Continuai a pensare sbrigativamente che fossero in gita da qualche parte…
La lettura del nome Marcella sull’Atto di Matrimonio mi ha attivato, non troppi giorni fa, qualcosa nella mente…sono corso immediatamente a rivedere la fotografia e tutto mi è apparso chiaro.
Il luogo era il piazzale, delimitato dalla balaustra, ai piedi del santuario della Beata Vergine di San Luca, davanti alla scalea di accesso dalla strada.
L’edificio dietro alla sposa e alla testimone era la stazione della funivia che univa il Colle della Guardia a Bologna, dove andarono a festeggiare le nozze con il caffellatte. La stazione esiste ancora ma, dal punto della fotografia,  è occultata da alberi che in sessantasette anni sono diventati alti e rigogliosi. E finalmente ho anche capito il significato dei fiori che la mamma stringeva tra le braccia… Quella era dunque l’unica immagine del matrimonio dei miei genitori. È una fotografia che vale più di ogni racconto, di ogni testimonianza verbale, perché ho visto il giorno in cui, grazie al coraggio di mia mamma, iniziò il mio destino. Con emozione, gratitudine e tanto affetto.

Voci nel Giorno della Memoria

Auschwitz. Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche scoprirono gli orrori del campo di concentramento e sterminio. Pochi sopravvissuti. Tra gli italiani, Primo Levi, Liliana Segre, Piero Terracina e Sami Modiano.

Lì morì un numero imprecisato di esseri umani. Forse un milione. Forse un milione e mezzo.

Cosa significa eliminare quasi un milione e mezzo di persone? Significa trasformare in deserto una città come Milano.
A cosa corrisponde uccidere quindici, venti milioni di persone? Potrebbe corrispondere allo svuotamento di tutte le principali città italiane, le più popolose.

E quest’ultimo numero sarebbe una stima aggiornata di quanti uomini, donne, vecchi, bambini,  furono uccisi dal governo nazista e dai suoi governi fantoccio.
Ebrei, oppositori politici, omosessuali, rom, sinti, testimoni di Geova, persone con problemi fisici, mentali, e tutti gli indesiderabili.

La Shoah.

Le leggi razziali.

Sessant’ anni dopo, nel 2005, le Nazioni Unite designarono che, il 27 gennaio, i Paesi dovessero commemorare le vittime dell’Olocausto.

Il Giorno della Memoria.

Ricorrenza di grande importanza: da una parte, occasione per ricordare un orribile passato, dall’altra parte, giorno dedicato alla riflessione su di un futuro che si profila sempre più incerto.
Per gli uomini e le donne che professano la religione ebraica gli eventi di quegli anni terribili sono scritti indelebilmente nel profondo del cuore.
Per tutti gli altri non è sempre così. La memoria collettiva degli uomini si mostra assai breve e labile.
Il Giorno della Memoria sembra essere, perciò, più importante per chi non professa la religione ebraica che per gli ebrei.
Appare necessario continuare a rappresentare lo sterminio nazista in tutto il suo orrore affinché le anime di chi non è ebreo non perdano la sensibilità nei confronti di queste atrocità. Per fustigare l’indifferenza. Per combattere quella pericolosa tendenza attuale rappresentata dal cosiddetto revisionismo storico.

Per evitare che la Storia si ripeta.

Penso che carnefice non fu solamente chi impartì gli ordini, chi eseguì materialmente quei crimini feroci, chi sostenne manifestamente regimi nazisti e fascisti.
Tra la gente comune stavano tanti piccoli-grandi correi, una moltitudine di gente apparentemente senza colpa che qualcosa sapeva. Che lasciò fare.
La testa bassa e il consenso – la paura – furono complementari a quei crimini.

Tenendo la schiena dritta, con il contributo di ogni individuo, la Storia avrebbe imboccato un’altra strada.

Narrerò ora di alcuni artisti lirici che, non ebrei, né vittime dei nazisti, tentarono di tenere la schiena dritta, oppure furono dissidenti nei confronti dei governi nazisti, filo nazisti e fascisti, o artisti che mai collaborarono con la propaganda di regime.

Narrerò, infine, di chi semplicemente aiutò persone in bisogno o in pericolo di morte.

Piccole storie, poche cose.

In Italia ricordiamo tre cantanti, il tenore Luigi Fort, e i due grandi soprani leggeri Toti Dal Monte e Lina Pagliughi.

Luigi Fort

Luigi Fort  (1907-1976), torinese, cantava come tenore lirico-leggero. Si ritirò dal palcoscenico allorché l’Italia cadde sotto il controllo dei tedeschi, e combatté con i Partigiani.
Lasciò definitivamente le scene agli inizi degli anni sessanta. Morì a Milano.

Toti Dal Monte

Chi non conosce Toti Dal Monte (1893-1975), almeno di nome? Il suo vero nome era Antonietta Meneghel e nacque a Mogliano Veneto. E’ meno noto che aveva uno zio di religione ebraica, Renzo Sacerdoti, quasi coetaneo. I nazisti lo catturarono. Si dice che la celebre cantante si adoperasse per salvarlo chiedendo, invano, aiuto a Claretta Petacci.

Avvenne però che, nel 1944, la Toti si esibisse davanti a Hitler e questi volle congratularsi con lei per l’esecuzione del concerto. La Toti non perse l’occasione di chiedere al Führer la liberazione dello zio. Passò poco tempo e l’artista ricevette dalla Segreteria del dittatore la comunicazione che, con rincrescimento, Renzo era morto ad Auschwitz. Il soprano nascose la fine dello zio. Solo dopo quasi tre anni Toti dal Monte trovò il coraggio di mostrare quella tragica lettera alla moglie di Renzo Sacerdoti.

Nel 1945 si ritirò dalla vita lirica e continuò come attrice goldoniana nella compagnia del grande Cesco Baseggio. Fece anche dei film, uno per tutti Anonimo Veneziano di Enrico Maria Salerno.

Lina Pagliughi

Essendo nata negli Stati Uniti, a New York, la corpulenta Lina Pagliughi  (1907-1980) non era benvista dal regime  fascista. E non volle mai cantare per i tedeschi.
Sfuggì, quindi, alle retate naziste nascondendosi nelle campagne romagnole.

Dopo la Guerra, a quarant’anni, si ritirò dalle scene dedicandosi alle esecuzioni in forma di concerto, per abbandonare definitivamente l’attività lirica nel 1956. Morì a Gatteo a Mare.

Frida Leider

In Germania, Frida Leider (1888-1975), splendido e celebre hochdramatischer Sopran berlinese, sposò il violinista ebreo Rudolf Deman. Ebbe forti pressioni affinché  si separasse dal marito. Ma si rifiutò. A lei, wagneriana di gran rango, fu impedito di cantare in tutti i teatri tedeschi.

Ritornò a Berlino dopo la Guerra, dove finì i suoi giorni.

Lotte Lehmann

Lotte Lehmann (1888-1976), soprano di storica caratura, pure lei tedesca, decise di emigrare negli Stati Uniti nel 1938. Al Covent Garden dovette rinunciare ad una produzione di Der Rosenkavalier, pur essendo la Marescialla per eccellenza (cantò, però, anche il ruolo di Oktavian), perché alcuni colleghi tedeschi di fede nazista  ebbero un comportamento intollerabile nei suoi confronti. Diventò cittadina americana.

Terminata la Guerra, Lotte Lehmann ritornò  a cantare in Europa solo per l’inaugurazione dell’Opera di Vienna, su invito del governo austriaco. Si spense a Santa Barbara, in California.

Tra i suoi allievi ricordiamo Grace Bumbry, Marilyn Horne e Carol Neblett.

Delia Reinhardt

Delia Reinhardt, (1892-1974), soprano tedesco, fece una bella carriera internazionale. Fu allontanata dai teatri sia perché aveva sposato un ebreo, sia per questioni politiche. Cadde in disgrazia. Nel 1943 la sua casa di Berlino cadde sotto i bombardamenti. Di lei si interessò Wlhelm Furtwängler e così poté cantare nei concerti ma non in opera. Solo nel dopoguerra attraverso l’interessamento di Bruno Walter le sue precarie condizioni economiche poterono migliorare. Morì vicino a Basilea.

Fernand Ansseau

Il grande tenore vallone Fernand Ansseau  (1890-1972) si ritirò dalle scene allorché i nazisti invasero il Belgio, rifiutandosi di cantare per loro.

Dal 1942 al 1944 insegnò al conservatorio di Bruxelles, per poi dedicarsi definitivamente alle sue passioni: la pesca e il giardinaggio.

Era celebre per il suo Werther. Morì nel paese natale, a Boussu-Bois.

Herbert Janssen

Il baritono Herbert Janssen  (1892-1965) nacque a Colonia. Fuggì dalla Germania perché le sue idee politiche erano assai distanti da quelle naziste. Durante una recita di Otello, nelle vesti di Jago, ebbe  un atteggiamento molto provocatorio nei confronti addirittura di Hermann Göring ed Emma Sonnemann. Il cantante si spense a New York.

Kerstin Thorborg

Il mezzosoprano svedese Kerstin Thorborg (1896-1970) troncò il suo contratto con il Teatro dell’Opera di Vienna nel 1938, dopo una recita di Tannhäuser, per dimostrare solidarietà con i perseguitati. Continuò una fulgida carriera al Covent Garden e al Metropolitan. Nel 1930 era stata notata da Bruno Walter. Essenzialmente wagneriana, cantò anche in Aida, Il trovatore, Un ballo in maschera, Samson et Dalila. Morì in Svezia.

Aksel Schiøtz

Il tenore danese Aksel Schiøtz (1906-1975) rifiutò di esibirsi in pubblico durante l’occupazione della Danimarca e cantò in concerti segreti per raccogliere fondi a favore della Resistenza. Diventò un simbolo della Resistenza danese.

Nel 1946 subì l’asportazione di un tumore all’orecchio che lo aveva paralizzato al volto e al collo. Con il sostegno di amici e parenti, soprattutto della moglie, si rimise a studiare canto diventando baritono. Morì a Copenhagen.

Max Hirzel

Seppur svizzero, il tenore  Max Hirzel (1888-1975) cantò essenzialmente in Germania. Nel 1936 dovette lasciare il teatro di Dresda e il suolo nazista in quanto era un noto oppositore politico del regime. Morì a Zurigo.

Martial Singher

Il baritono francese Martial Singher (1904-1990), divenne cognato del direttore d’orchestra Fritz Busch. Il cantante abbandonò la Francia per mettere in salvo la moglie Margareta, essendo figlia di un oppositore del regime nazista.

Dopo guai con le autorità americane, dal 1943 fece parte della Golden Age del Metropolitan. Morì a Santa Barbara, in California.

Emmy Bettendorf
Emmy Bettendorf

Il soprano tedesco Emmy Bettendorf (1895-1963) si ritirò dalle scene nel 1931 per motivi di salute. Rimase vedova nel 1938 ed ebbe difficoltà finanziarie. Per riprendere a cantare, però, le fu chiesto di iscriversi al partito nazista, ma rifiutò. La Bettendorf accettò solo il compromesso di cantare per i soldati in Polonia, Russia, Grecia ed Albania. Durante il conflitto condusse a Garmisch anche un albergo.

Nel 1947 divenne insegnante di canto al Conservatorio di Berlino e qui morì.

Anni Frind

Anni Frind (1900-1987), soprano boemo, rifiutò la tessera del partito nazista e dovette abbandonare le scene. Favorì la fuga clandestina di molti ebrei e fu interrogata più volte dalla Gestapo nonostante non esistessero prove contro di lei. Venne così messa di fronte ad un aut-aut: o cantare per i militari al fronte o essere internata in un campo di concentramento. Scelse la prima strada, cantò per qualche tempo per le  truppe, poi ritornò in patria come infermiera del padre che svolgeva l’attività di chirurgo.

Nel 1951 emigrò a New Orleans, li insegnò e morì.

Cantante di grande popolarità, espresse la sua arte sia nell’opera che nell’operetta.

Lauritz Melchior

Il celeberrimo  Lauritz Melchior  (1890-1973), danese, debuttò come baritono per diventare l’heldentenor di riferimento, forse il più grande. Le opere wagneriane costituirono il suo repertorio principale ma non disdegnò di cantare i ruoli di Otello, Samson, Radames, Canto e Turiddu.

Rifiutò ogni offerta di cantare nella Germania nazista, nonostante il diretto interessamento di Hermann Göring.

Dopo il 1933, cantò principalmente al Metropolitan di New York.

Nel 1950 lasciò questo teatro per via di grosse incomprensioni con Rudolf Bing, il famoso direttore artistico di origine austriaca ed ebraica. Melchior dimostrò belle capacità anche come attore brillante in film musicali, radio e televisione. Diventò cittadino americano nel 1947.

L’ultima apparizione in pubblico avvenne a San Francisco nel 1966, dirigendo delle musiche di Johann Strauss. Morì a Santa Monica ma riposa a Copenhagen.

Jarmila Novotna

Altro soprano fermamente antinazista fu la cecoslovacca Jarmila Novotna (1907-1994). Nacque a Praga. Donna di fascinosa bellezza, partecipò a diversi film.

Troncò ogni contratto con i teatri tedeschi fin dal 1933, e cantò in Austria fino al 1938. Invitata da Toscanini nel 1939 a cantare La Traviata negli Stati Uniti, riuscì, da lontano, a salvare l’intera sua famiglia poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Per commemorare le vittime del massacro di Lidice, villaggio raso al suolo in rappresaglia all’uccisione di Reinhard Heydrich, noto come il «boia di Praga», la Novotna incise una raccolta di canti popolari boemi. Il pianista fu un altro profugo, Jan Masaryk. Il soprano morì a New York.

Consola sapere che, in quei tempi veramente difficili ed estremi, anche nel dorato mondo dell’opera, sempre molto vicino ai potenti e ai vincenti, ci furono persone che seguirono degli ideali di libertà e umanitari.
Non tantissimi.
Ma ci furono.

 

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