Confiteor

Per la Chiesa Cattolica si può peccare anche con un semplice pensiero. Il Confiteor, preghiera penitenziale, è chiaro: «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa. E supplico la beata sempre vergine Maria, gli angeli, i santi e voi, fratelli e sorelle, di pregare per me il Signore Dio nostro ». Bisognerebbe parlare con chi ne sa di più, con un confessore. Io, con laico senso critico, penso che, per la classificazione di certi peccati, un confessore fornirebbe solo una personale interpretazione, per lo più una giustificazione Dove si trova la verità? Qualcuno la detiene? Chissà se la verità esiste.
Racconterò ora i non bei pensieri che mi apparvero in circostanze difficili.
Furono peccati?
Il ventiquattro aprile dell’anno passato la mamma risultò positiva al coronavirus. Questa grave infezione si assommava ad una situazione cerebrale disastrosa, poiché fu preceduta, una cinquantina di giorni prima, da un ictus ischemico e poi da un raro ascesso cerebrale. All’Ospedale Maggiore le avevano dato uno, due mesi di vita o, se fosse stata fortunata, sempreché non avesse contratto infezioni, un anno di vita.
Nel tardo pomeriggio di quel terribile venerdì, la dottoressa dell’ospedale di lungodegenza, donna priva di alcun tatto e anaffettiva, forse nemmeno troppo competente in scienza medica, mi comunicò distaccatamente che la mamma sarebbe stata trasferita all’Ospedale Bellaria entro la serata.
Confesso che abbozzai senza reazioni, inebetito. Senza capire. Era come se intendessi vedere rotondo un quadrato.
In serata riuscii a mettermi in contatto telefonicamente con il Padiglione G del Bellaria, interamente convertito in reparto Covid 19. Il medico, probabilmente un infettivologo, disse con gravità che la Covid 19 era per la mamma il problema minore assicurandomi che, nonostante l’avanzata età, non si sarebbero limitati a governare un viaggio verso la fine, ma avrebbero fatto di tutto per salvarla.
Non intubata, forse perché il rischio della sedazione sopravanzava quello derivante dall’infezione, si strappava continuamente i tubi che aveva da ogni parte, necessari per le fleboclisi, per alimentarla artificialmente e per somministrarle grandi quantità di ossigeno. Tubi necessari per tenerla viva.
Dalle parole sentite nei giorni successivi la mamma pareva aggrappata con deboli mani al bordo di un abisso.
Confesso che sperai in un obiettivo minimo: se la mamma avesse lasciato la presa e fosse precipitata nel vuoto dopo il tre maggio, sarebbe stato almeno possibile salutarla per un’ultima volta. E fui esaudito, ma le condizioni generali però peggiorarono.
In quei giorni, solo in casa, temevo il buio della notte: le brutte notizie sono incubi che prendono sempre materia quando le persone sono più fragili o indifesi.
Confesso: sperai allora, se il destino aveva proprio stabilito per la mamma un breve domani, che l’exitus fosse avvenuto il più presto possibile e senza tribolazioni. Di fronte al nulla, poche ore, pochi giorni non cambiano un granché, non consolano.
E invece la mia anziana mamma, debole, semi immobile, afasica, tenne ben stretta la presa.
La mamma volle vivere.
Forse per rivederci almeno una volta ancora.
La neurologa, dopo il primo tampone negativo al coronavirus, testualmente disse che stavano assistendo a un miracolo.
Avevo deciso di lasciarla libera, in balia di quel che doveva essere, ma lei no, invece, donna caparbia, fece di testa sua, come sempre.
Confesso che ebbi una gioia sofferente, non piena, perché la mamma era solamente guarita dalla Covid 19, ma rimaneva tutto il resto: l’infermità e i danni cognitivi irreversibili. E io avrei dovuto rassegnarmi a questo destino e la rassegnazione ha sempre per me un costo altissimo. Sarebbe stata una sottomissione ad uno spaventevole futuro.
La mamma, il venticinque maggio, fu quindi trasferita in un ospedale privato per un mese e mezzo di riabilitazione perché secondo la neurologa c’era un margine di miglioramento. E invece la fisiatra, il giorno successivo, mi informò che quello della mamma era un stato irrecuperabile, sia per l’emiplegia, sia per l’afasia. Mi esortò, inoltre, a industriarmi per trovare un posto in una casa di riposo ospedalizzata. E così seguii quelle tristi indicazioni.
Trascorse le due settimane di isolamento previsti per ogni nuova ospedalizzazione in tempi di Covid 19, tre giorni prima del trasferimento nella nuova sistemazione, potei incontrare la mamma. Un incontro indimenticabile poiché ebbi l’inquietante impressione che non fosse lei. Forse più bella rispetto a quando fu ricoverata al Bellaria, qualcosa sembrava però cambiato: vedevo bocca e occhi più grandi, i lineamenti si erano induriti, come se fossero intagliati nel legno oppure rappresentati da un pittore di antiche icone russe.
La incontrai nel giardino dell’ospedale per venti minuti. Aveva ancora il sondino nasogastrico tenuto fermo con un cerotto.
Vedendomi, si mise subito a piangere disperatamente, dimenando sulla sedia a rotelle, con grande forza, il capo e la metà del corpo in grado di muoversi.
Pareva incapace di controllarsi.
Pareva posseduta da un demone.
Lunghi istanti difficili, drammatici.
Confesso che mi rivolsi a mio padre perché, con un atto d’amore, facesse terminare per sempre quei tormenti. E innanzi a me.
Ma io credetti che fosse veramente il bene, la cosa giusta per la mamma, oppure fu paura davanti al futuro, anzi egoistico pensiero e ipocrisia? La crudele strada per me più semplice?
Confesso che ora provo vergogna per avere avuto questo pensiero. Ma fu l’ultima volta.
La mia professoressa di Lettere al Liceo non mi consolò dicendomi che mi avrebbero atteso tempi difficili, una cottura per me lunga e lenta mentre alla morte invece, evento netto, definitivo, ci si rassegna prima perché fa parte delle cose.
Ha avuto ragione la professoressa: non accettando la casa di riposo, non accettando il passato, mi sto cuocendo con rimorsi, scrupoli, inquietudini e malinconie. Poi nel declino delle madri si rispecchiano sempre i figli.
Ora non ho più avuto brutti pensieri, puntualmente sopravviene la speranza per la durata di appena un giorno che, all’indomani, si rinnova, un cammino senza meta. Vorrei congelare gli attimi attuali. E l’affetto per la mamma si è trasformato perché ora sono figlio e genitore.
Sono rimaste poche tessere che richiamano il disegno del lontano mosaico.
Seppur fragile come un sottile cristallo, la mamma ancora c’è.
Ma guai a chi tocca la mia mamma bambina!

A occhi aperti

I racconti della mamma hanno aggiunto tante cose ai ricordi di quand’ero bambino, così ho compreso appieno quanto il matrimonio dei miei genitori sia stato particolare.
La mamma iniziava ogni aggiunta alle storie lontane con una domanda semplice, generica, come se niente fosse, per lo più durante una passeggiata, oppure mentre eravamo in automobile:
«Ma te l’ho mai detto che il babbo…?».
E man mano che fluiva il racconto, la guardavo senza parole strabuzzando gli occhi per lo stupore, oppure dovevo tenere ben stretto il volante per non sbandare. Dopo aver ascoltato, facevo qualche chiosa su certi aspetti del babbo, uomo difficile, seguita da un’inutile filippica sulla grande differenza d’età che intercorreva tra di loro.
La mamma prendeva male le mie parole verso il babbo e chiudeva in fretta la questione:
«Oooh, insomma… Smettila mo’ di mancare di rispetto a tuo padre! Io l’ho amato e se potessi ritornare indietro lo risposerei… E se proprio lo vuoi sapere io ero una bamboccia di vent’anni che non sapeva nulla della vita: tuo padre mi ha fatto diventare donna!». Grandi parole, parole che pesano.
Il matrimonio durò appena dodici anni, ma in pratica mai cessò. Anche dopo il trapasso, la mamma ha sempre ritenuto mio padre come guida imprescindibile. Parlava con lui. Lo incontrava in sogno. E nel tempo, questo strano rapporto nel tempo si è intensificato. Per la mamma il babbo non è mai morto.
L’anno scorso, dopo le dimissioni dall’Ospedale Maggiore la mamma – nel giro di poche settimane fu colpita da un ictus ischemico e da un raro ascesso cerebrale – venne ricoverata in lungodegenza presso un ospedale privato. Era il tre di aprile. Colpiva, in cima all’entrata del reparto in cui fu messa la mamma, un cartello che portava la scarsamente rassicurante dicitura Vegetativi, un eufemismo per evitare di scrivere Anticamera del cimitero.
La mamma era diventata emiplegica alla parte destra e totalmente afasica. Immobile per metà e muta. Con la mano sinistra si strappava i tubi, comunicava solo con sguardi e lacrime. Nonostante il verdetto dei medici, non riuscivo a rendermi conto della gravità perché quando si è nel pieno della tempesta l’unico pensiero è quello di governare il veliero. Non volevo accettare il repentino, disastroso, cambiamento della persona che amo di più. Non mi chiedevo che cosa ci sarebbe stato dopo. E poi ci sarebbe stato un dopo?
La sera successiva al ricovero in lungodegenza, un sabato, dopo avere somministrato la cena, mi trovai praticamente solo con lei, poiché la compagna di stanza era totalmente incosciente.
Abbassai le luci e le domandai:
«Mamma, hai sognato il babbo…? Il babbo ti ha parlato?».
Trascorse un breve istante quindi la mamma mosse la testa prima verso la finestra a destra, poi verso di me mosse le labbra:
«Io voglio che tu che io…», sussurrò malamente con flebile voce rauca. La frase proseguì ma riuscii a comprendere solo queste parole. La mamma però riusciva, in qualche maniera, ancora a parlare! Sapevo che il ricordo del babbo avrebbe generato qualcosa di inaspettato.
Provai un’emozione indescrivibile accentuata dall’atmosfera raccolta e intima. Fu un turbamento di rara intensità, quasi un’esperienza spirituale.
Non avendo capito, chiesi alla mamma di ripetere la frase. E lei così fece, senza che riuscissi a comprendere il senso perché evidenziava un’insormontabile difficoltà nell’articolare chiaramente le parole. Aveva in testa un pensiero ben preciso che non riusciva a dire. Questo disturbo del linguaggio si chiama disartria.
Tenevo come non mai a comprendere il tesoro nascosto dietro a quei suoni non casuali. Potevano essere raccomandazioni materne oppure estreme volontà oppure…
Così iniziai a suggerirle il significato andando un po’ a tentoni e un po’ per logica. Nulla. La mamma denegava con un cenno del capo, si innervosiva oppure si commuoveva. Preso emotivamente da questo rebus, persi la cognizione del tempo cosicché uscii ben oltre la chiusura dell’ospedale e dovetti cercare un infermiere per farmi aprire il cancello.
Nei giorni successivi non demorsi. Seduta in carrozzina nel soggiorno del reparto Vegetativi, dopo il pranzo la rassettavo, rimanevo accanto a lei, le parlavo, le mostravo fotografie del passato, dei gatti, perché non s’infrangesse il tenue ponte con il mondo di fuori… E poi, più volte, per diversi giorni, le chiesi:
«Mamma…so che hai delle cose da dirmi. Ti ricordi? Mi ripeti quello che il babbo ti ha detto?». E obbedendo sempre come una dolcissima bambina, rammentava bene il discorso da farmi:
«Io voglio che tu che io…», parole stentate, sillabe sconosciute, dette piano piano.
Si rendeva conto della frattura che ora ci divideva e per questo ogni tanto piangeva.
Togliendole le parole, il destino è stato veramente cattivo con la mamma, come se a Paganini un accidente avesse distrutto il suo miglior violino. La mamma era una chiacchierona, aveva vissuto sulle parole, con esse mi ha cresciuto e fatto studiare. E dalla sua bocca, terminata l’Università, sono uscite le più belle parole mai udite in vita mia, tutte per me: «Marco, a te piace tanto studiare…se vuoi farò ancora sacrifici perché tu possa prendere un’altra laurea». Mia mamma sapeva sorprendermi. Le sono ancora grato per questo, ma non approfittai dell’opportunità che mi offrì.
Il dodici marzo, sempre dopo aver mangiato, decisi di filmare le risposte per ascoltarle a casa con calma. Non c’erano persone che ci potessero disturbare, solo rumori distanti provenienti dalle camere e dalla sala degli infermieri.
«Mamma, dimmi che ti ha detto il babbo. Hai sognato il babbo?». E avviai l’iPad per riprenderla.
Aveva gli occhi ben vigili, seppure di persona ammalata.
Non mi rispose, dapprima sbuffò, fece no con il capo, socchiuse gli occhi. Accennò ad un sorriso facendo uno strano gesto con la mano sinistra quindi lo sguardo fu attratto da un punto davanti a sé. Strinse appena palpebre, un nuovo no, corrugò le sopracciglia… Poi fissando un punto, incominciò dapprima a parlare come se stesse leggendo delle parole scritte nell’aria davanti a sé.
Si interruppe per un istante.
Riprese senza più leggere parole invisibili, e da quel momento assistetti ad un dialogo intimo, da cui ero totalmente escluso, tra la mamma che aveva perso la parola con un qualcuno fatto di nulla, etereo.
E durante il colloquio rise, s’arrabbiò e pianse…
Quando riguardo questo video mi piace tanto pensare che la mamma abbia fatto a occhi aperti il sogno da lei più amato.

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