L’ombra della Rocchetta (9)

Un pomeriggio, la Mâta si attaccò al citofono, suonando ossessivamente per la restituzione delle fotografie. Quindi si infilò nell’androne, salì le scale e prese a suonare il campanello del cancello d’entrata. In quel momento mi trovavo ignaro nella palestra di fronte. La mamma, non potendo mettersi in contatto con me, telefonò all’avvocato per avere aiuto. Questi chiese a sua volta l’intervento dei Carabinieri.
La Mâta proseguì a suonare per svariati minuti e poi se ne andò allorché la dirimpettaia, chiamata dalla mamma, si affacciò alla finestra proprio di fronte alla nostra porta.
L’avvocato, accompagnato dalla moglie, lui piccolo e mingherlino sovrastato da lei grande e corpulenta, venne in palestra per avvertirmi che la mamma non si sentiva bene, aggiornandomi sulla nuova bravata della Mâta. Corsi in casa senza nemmeno cambiarmi e, poiché trovai la pressione sanguigna piuttosto alterata, somministrai alla mamma i soliti medicinali con l’aggiunta di qualche goccia di ansiolitico. E così si riprese giusto in tempo per raccontare i fatti appena avvenuti ai Carabinieri, guidata dall’avvocato.
La Mâta non aveva cessato di mandarci l’inquietante pubblicità modificata con pronostici astrologici e mortifere parole. Su una busta ricevuta da poco, contenente un catalogo di vendita per corrispondenza, aveva cancellato destinatario e indirizzo con un pennarello nero. Però, osservando la busta di sghimbescio sotto una luce, tutto poteva essere letto agevolmente. Ebbene, la pubblicità era stata inviata proprio alla Mâta e così scoprimmo che abitava in un edificio comunale dalle parti di Via San Donato. Un dormitorio.
L’avvocato fece allora partire un’altra querela contro la Mâta. Il nostro obiettivo, l’ottenimento della terza condanna non sospendibile, pian piano si avvicinava, salvo la sorpresa, per noi amara, di un eventuale condono giudiziario.
Un sabato mattina verso le nove e trenta, ero in casa, qualcuno suonò il campanello dal portone d’entrata in maniera assai sgarbata. Chiesi innervosito al citofono chi fosse. Come risposta ebbi un’altra suonata. Intuii chi fosse e scesi per averne conferma.
Incontrai un vicino rumeno sulle scale e gli chiesi se avesse visto una donna al citofono. Sì, c’era una donna grassa dalla faccia mongoloide e spiritata, con in mano un bel randello.
Rientrai in casa di corsa e, mentre la Mâta suonava ossessivamente, chiamai la Polizia.
Il rumeno, un cinico impiccione, quindi testimone perfetto, ritornò sotto il portico per godersi lo spettacolo.
La Mâta non pareva avere intenzione d’andarsene. Dopo aver suonato per qualche minuto, ci raccontò il vicino, prendeva a camminare avanti e indietro per il portico come una belva in gabbia, impugnando il randello. Sperava di incontrare la mamma oppure me, presi dall’esasperazione, ed affrontarci in strada. Fortunatamente i poliziotti arrivarono in fretta e, indirizzati dal solerte vicino, fermarono la Mâta. Tenendo un oggetto contundente, un’arma, i poliziotti le intimarono di consegnare il bastone. E questa che fece? S’incamminò per un’imprevedibile strada del destino: la Mâta s’imbizzarrì brandendo per bene il bastone sulle teste dei poliziotti. Fu presto disarmata e la rinchiusero in automobile mentre due di loro salirono in casa nostra per avere dei comprensibili chiarimenti. Raccontammo i fatti di quella mattina e mostrammo tutte le scartoffie giudiziarie accumulate contro la Mâta per dimostrare l’entità delle molestie che avevamo subito per quindici anni. La mamma scoppiò in un pianto disperato. I poliziotti, raccolta la deposizione, ci informarono di quanto era accaduto in strada.
Dopodiché portarono la Mâta in Questura.
«La Fiocchetti è nei guai», disse lapidariamente l’avvocato. «Ho ripetuto più volte all’Ispettore di Polizia che le bastonate non erano destinate ai poliziotti ma ad una signora di sessantasette anni. E se, uno di questi giorni, ho chiesto all’ispettore, la Fiocchetti riuscisse nel proposito di sfondare la testa alla signora, su chi ricadrebbe la responsabilità della mancata prevenzione dell’azione? Ho fornito l’indirizzo che si legge di sbieco da quella lettera intimidatoria; abbiamo visto che effettivamente dorme in una struttura comunale e che la Fiocchetti è già stata seguita dagli assistenti sociali. Ora dovremo pretendere che intervenga anche uno psichiatra».
«La Matta dunque non andrà in galera?», chiese la mamma delusa.
«Per ora no. Le faranno una perizia psichiatrica, si parla di non irrilevanti disturbi mentali… psicosi, schizofrenia, deficienza. Probabilmente otterrà un’infermità di mente per cui verrà seguita sia da medici che da assistenti sociali. Insomma sarà controllata perché non possa più nuocere».
«Quassta, bòja d un giùda, a n péga mâi, riesce sempre a farla franca!», sbottò mia madre piccata, desiderosa di vendetta.
«Per come si sono messe le cose, sarà molto difficile che vada in carcere. Ma, a questo punto, la partita si è trasformata con la comparsa attiva di nuovi soggetti che la devono tenere d’occhio. Qualunque cosa succeda, sapremo ora con chi prendercela».
Per innumerevoli giorni discussi con la mamma che quella soluzione era da considerarsi benedetta: la Mâta era di fatto una matta ed avrebbe continuato a infastidirci chissà per quanto tempo ancora, avremmo dovuto presentare nuove querele, affrontare nuovi processi e sborsare altro denaro e… Fino a quel momento, avevamo speso ben quattordici milioni di lire senza ottenere il nostro vero obiettivo, la tranquillità.
Riscontrammo con piacere che le molestie cessarono ben presto. Ogni tanto trovavamo nella buchetta postale qualche lettera astrologicamente modificata oppure ricevevamo qualche scampanellata dal portone in strani orari, forse qualche burlone ma io, in realtà, pensavo che fosse stato l’indice della Mâta. Inezie.
Fu avvistata nei pressi di Via Frassinago da un testimone nel grande processo. E iniziammo a incontrarla pure noi, al supermercato con la sorella gemella, a guardare nel vuoto seduta sulle panche del Burger King di Via Ugo Bassi. Mai ci riconobbe.
E in una mattina del 2001 ci fu l’ultimo incontro ravvicinato con la Mâta. Mi trovavo a casa in ferie per cui la mamma non si trovò ad affrontare una curiosa situazione.
Il parroco di una chiesa non distante da casa nostra suonò al portone chiedendo di parlare con la mamma per trovare un lavoro alla Mâta.
Risposi di attendere e scesi le scale di corsa. La Mâta era con lui.
Il parroco mi chiese, con mitezza, perché la mamma non intendesse aiutare la donna. Perché non fare una buona azione, un’opera caritatevole, se avesse potuto? Risposi con concetti che non esprimevano cristiana carità ma guerra, eventualmente anche contro di lui. Spiegai per sommi capi la situazione e, con tono alterato, dissi che se non fossero andati via immediatamente avrei chiamato i carabinieri. Per fare capire le mie intenzioni, mostrai per bene il telefono cellulare stretto in mano.
Il parroco allora mi salutò in fretta e furia strattonando la Mâta per portarla via con sé.
Così terminarono le prodezze di Angiolina Fiocchetti, la Mâta.
L’animo della mamma ritrovò definitivamente la serenità.

(Continua)

L’ombra della Rocchetta (8)

La sentenza fu sfavorevole alla Mâta. Il Codice Penale puniva le molestie con il carcere fino a sei mesi. La pena fu comminata al massimo previsto dalla legge ma la Mâta non dovette scontare alcuna detenzione perché, condannata per la prima volta a meno di quattro anni di carcere, avrebbe beneficiato della sospensione condizionale. La sentenza imponeva anche il pagamento di due milioni di lire che comprendevano sia le spese processuali che il risarcimento. Non un granché. Avevamo sostenuto costi ben superiori per il legale mentre il valore del disturbo certamente non poteva essere certamente ripagato con una somma di denaro talmente modesta.
«E non farà nemmeno un giorno di galera. È una presa per il culo bella e buona!», sbottò la mamma fuori dal Tribunale.
«Signora ha ragione, ma il Giudice ha fatto le cose in scienza e coscienza. Abbiamo ottenuto il massimo previsto dalla Legge. Non si può andare oltre la Legge. Per mandare in galera la Fiocchetti occorrono altre condanne per lo stesso reato», rispose l’avvocato per frenare la rabbia della mamma delusa nonché fugare il pensiero di una scarsa adeguatezza della propria prestazione. Sarebbero occorsi nuovi colpi di testa, altre molestie, per fare pagare alla Mâta il conto con la Giustizia e con noi. Perseverando nei suoi folli intenti, prospettò l’avvocato, l’avremmo nuovamente querelata e portata davanti al Giudice. Solo con la terza condanna, oppure se la somma delle pene comminate nei primi due processi avesse superato i due anni, la Máta sarebbe andata in gattabuia. Però, oltre a sopportarla ancora, avremmo dovuto vincere nuovi processi e far fronte a nuove spese legali.
Trascorsero non molte settimane che arrivarono delle novità: la Mâta aveva fatto ricorso contro la sentenza di primo grado. L’ennesima mossa imprevedibile di questa donna malefica. E per noi nuovi costi.
Le molestie telefoniche intanto si diradarono non tanto per effetto del processo, ma perché, nel frattempo, l’avvocato era riuscito a farci avere, per la casa dove abitavamo, un nuovo numero telefonico privato, cioè senza che comparisse sull’elenco telefonico oppure senza che venisse comunicato telefonando al numero 12 della SIP. Rimase invece attivo il numero telefonico per la vecchia casa, ove la mamma continuava a ricevere i suoi clienti, filtrato ora da una segreteria telefonica che registrava tutte le chiamate, comprese quelle della Mâta. Trovandosi a sfogare il suo odio contro un dispositivo elettronico, prese a fare lunghi monologhi, ripetitive farneticazioni; faceva domande a cui rispondeva da sé, rideva sovreccitata. E divenne minacciosa. Non aveva capito che s’era messa in moto la macchina giudiziaria contro di lei.
La mamma spesso ascoltava accanto al telefono piangendo per lo sconforto e per la paura. Temeva per la propria incolumità.
«Qualora tu incontrassi la Mâta per strada non devi affrontarla, bisogna fregarla, urla, richiama gente, chiedi aiuto, buttati a terra come se ti avesse colpito».
Con il numero di telefono privato, c’era la speranza che la mamma riuscisse a stare in pace almeno nella nuova abitazione e, invece, la Mâta riuscì a scovarci.
Una mattina si aggirava sul pianerottolo davanti alla porta di casa. La mamma si trovava da sola ma reagì prontamente urlando, con tutto il fiato possibile, che qualcuno chiamasse la forza pubblica. Tutti i vicini si affacciarono alla tromba delle scale. La Mâta, presa alla sprovvista da questa vivace reazione, corse via a gambe levate.
Questa vicenda ovviamente ci inquietò molto. Aveva seguito la mamma per strada? Era stata aiutata involontariamente da qualche superficiale impiegato dell’anagrafe di Bologna? O un demone la guidò?
E poi continuava ad inviarci le buste di pubblicità che modificava con i suoi arzigogoli astrologici conditi da vaneggiamenti menagramo.
L’avvocato ritenne di avere elementi sufficienti per la presentazione di una nuova querela a cui allegammo nuove registrazioni e nuove lettere malevole.
Il processo d’appello si tenne dopo poco più di un anno da quello di primo grado. Fu assai più breve, solo qualche domande alla Mâta a cui rispose con i consueti vaneggiamenti. La pena venne quindi confermata.
La Mâta dopo l’appello se ne andò in fretta e furia, ma il suo avvocato ci attese. Comunicò che non avrebbe più difeso la Mâta perché il giovedì pomeriggio non voleva più trovarsela tra i coglioni. Volendosi liberare immediatamente di quella causa, prese fuori dal portafoglio un proprio blocchetto d’assegni, ne firmò uno a mio nome per la somma di due milioni pari alla pena pecuniaria inflitta alla Mâta.
E, uscito da Tribunale, scambiai immediatamente l’assegno per non correre il rischio che l’avvocato ci ripensasse.
La Mâta, forse perché dal proprio legale, non s’arrischiò nel ricorrere alla di Corte Cassazione, possibilità temuta fino all’ultimo giorno del termine previsto. I costi per l’ultimo grado di giudizio sarebbero stati elevati poiché, oltre ad una parcella più salata, avremmo dovuto pagare all’avvocato cassazionista, e il nostro lo era, viaggio, vitto e pernottamento a Roma.
La sentenza del primo processo diventò finalmente definitiva. Evviva!
Giunse per posta la notificazione del decreto penale di condanna contro la Mâta conseguente alla querela più recente, comminata senza la gran pompa del processo in Tribunale. Un processo senza la presenza dell’imputato, della parte lesa e degli avvocati? Sì. Ne venimmo a conoscenza dell’esistenza in quell’occasione. Per i reati punibili con una detenzione non superiore a sei mesi, come le molestie, qualora sia possibile applicare soltanto una pena pecuniaria anche in sostituzione di una pena detentiva, viene emesso contro l’imputato un decreto penale di condanna senza processo. I giorni di galera furono convertiti nel pagamento di due milioni e cinquecento mila lire.
Finalmente avevamo conquistato una seconda condanna penale per lo stesso reato!
«Non perda la fiducia, signora», disse l’avvocato dopo una scarica di tic facciali con pernacchiette laterali, «otterremo anche la terza condanna e, a quel punto, la pettineremo per bene: la Fiocchetti finirà dritta in galera». E così uscimmo dallo studio dell’avvocato con una piccola euforia. Si poteva intravvedere la fine di quella terribile faccenda che si stava protraendo da troppo tempo.
Era ormai il 1999.

(Continua)

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