Una strana domanda (Fine)

E molti individui pongono particolare attenzione alle coincidenze, cioè agli incontri, alla consequenzialità di almeno due avvenimenti ai quali viene attribuita una particolare rilevanza. È possibile che a Tizio venga d’improvviso in mente Caio senza alcuna ragione intrinseca, primo avvenimento, persona cara non vista da tanto, rimasta lontana senza un vero motivo, per la semplice complessità del vivere quotidiano, e che contemporaneamente Tizio, in quell’istante, incontri proprio Caio, secondo avvenimento. L’affetto di Caio verso l’amico, sentimento accantonato ma ora rianimato dall’incontro, attribuirà alla situazione un particolare significato; Caio penserà che si è trattata di una bella coincidenza, un’opportunità per rinfocolare l’amicizia, e all’altro racconterà la curiosa simultaneità dei due avvenimenti, cioè il pensiero e il loro incontro. Oppure può avvenire che un intralcio sulla strada per l’aeroporto ritardi il taxi, primo avvenimento, e che faccia perdere a Mevio il volo, secondo avvenimento in coincidenza, scampando a un rovinoso incidente aereo. Alle concatenazioni capaci di cambiare il corso della vita, sia dall’esito definitivo fausto che nefasto, i più come Sempronio individuano un disegno sotteso, la realizzazione del destino se non la dimostrazione della sua esistenza, mentre altri come Calpurnio ragionano in termini matematici, cioè di maggiore o minore probabilità che dal caso, da eventi disconnessi, esca qualcosa munito di un preciso significato esistenziale.
E se una certa coincidenza si ripetesse periodicamente secondo circostanze e modi ben individuati Genunzio potrebbe ipotizzare, proprio per questa ricorrenza, la sussistenza di un motore invisibile come l’anima di una persona scomparsa o uno spirito, in grado di togliere la coincidenza dall’ambito dell’aleatorietà. Gionandro, invece, non avrebbe alcuna ragione di modificare il proprio pensiero: nessuna entità invisibile, nessun filo rosso soprannaturale collegherebbe la sequenza di medesime coincidenze, egli penserebbe che si tratta dell’inverarsi di una coincidenza a sua volta costituita dalle svariate coincidenze tra loro simili; secondo Quinto, perseguendo il ragionamento statistico, la coincidenza di coincidenze sarebbe un complesso aggregato aleatorio estremamente improbabile, ma non impossibile e, quindi, Primo darebbe semplicemente senso a qualcosa che senso non ha. In realtà le coincidenze sono ipotesi, interpretazioni che acquistano fattualità grazie alla coscienza e all’emotività individuali o collettive. È l’anima che colma di senso la realtà. Tutta la realtà risiede dentro di noi.
E osservo anche che l’astrologia trova fondamento su una complessità di coincidenze celesti che, a loro volta, sono in coincidenza con il singolare avvenimento della nascita. In ogni civiltà antica e moderna, dai lontani sumeri e babilonesi fino ai giorni della scienza più avanzata, moltitudini attribuiscono particolare credito a questa arte speculativa che mette in relazione l’Io di un soggetto, la sua evoluzione, le sue fortune con oscure coincidenze tra astri, cioè gli aspetti che si formano durante il tragitto di alcuni corpi celesti, rappresentabili su un foglio di carta attraverso il tema natale. L’astrologia ha in sé le qualità di una interpretazione di coincidenze, questa reale principalmente perché è altro, il nostro bisogno di certezze, l’ansia per il futuro, a conferirle sostanza. Analogamente alle maree, secondo molti la traiettoria lunare intorno alla Terra agirebbe su tutti gli umori corporei; in particolare il parto dovrebbe avvenire per una massima marea interna in coincidenza con la Luna Piena o durante la Luna Nuova. Le lunazioni sono state tenute in gran conto, da tempi di cui non si serba memoria, per tutti quei lavori connessi al nascita, al cambiamento e alla crescita.
Ritornando al mio collega, mi chiedo se l’inconsueta domanda davanti al distributore del caffè fu solo una stravaganza di una persona piuttosto normale, semplice, lineare, oppure fu una singolare coincidenza, oppure un inconsapevole presagio, visto che dopo qualche tempo cadde per le scale dell’ufficio, senza avere mai saputo se questo sia per distrazione o per una causa organica. L’orologio del tempo vitale a sua disposizione fu benevolo perché non si fermò e dopo momenti di grande angustia il mio amico riuscì, per fortunata, a ristabilire, ma senza recuperare interamente, il suo  stato precedente.

(Fine)

Una strana domanda (Parte prima)

Un collega, un amico, diversi anni fa, alle otto del mattino davanti al distributore del caffè mi fece questa domanda:
« Ti piacerebbe conoscere il giorno in cui morirai?» È verità.
Io sgranai gli occhi senza prenderlo sul serio e risposi nella maniera più prevedibile, come risponderebbe la maggiore parte delle persone, risposta prevedibilmente ripetuta da tutte le persone a cui ripropose la domande. Guardate un po’ quali sono i discorsi che si fanno in un anonimo ufficio statale!
Sento lontano lo sconcerto che mi causò e alla luce dei cambiamenti nella mia vita – la pensione, la malattia della mia mamma, la sua scomparsa, la pandemia e il trovarmi in età matura – mi sono preso la briga di ripensare a quella domanda.
Ho pensato che se ognuno conoscesse il momento della morte, la data dovrebbe essere indicata esattamente sul documento di identità, passaporti e su tutti gli atti ufficiali con una seguente frase neutra come questa:
Il signor Tal dei Tali dispone per sé di X giorni, Y ore, Z minuti, contati sul calendario gregoriano e con riferimento all’ora universale.
Il tempo trascorso tra il nulla primordiale e il cosmo attuale, osservato con telescopi, o quello impiegato dai viventi per evolversi è troppo imponente per essere compreso come esperienza reale, enorme macigno di pietra che nessuno può scalfire, così pure la durata della vita individuale appare rappresentabile dalla mente con difficoltà; espressa in giorni, ore e minuti diventerebbe un’idea assai più familiare perché, rientrando nell’ambito dell’ordinaria esperienza, tali sono i giorni, le ore e i minuti: dire ventinove mila duecento venti giorni e quarantotto minuti, significa un’esistenza che si protrae per ottanta anni, ma questo numero, seppur grande, appartiene all’ambito della umana capacità di pensare e concepire.
Rendendo costantemente presente agli uomini l’idea di finitudine sino dalla nascita o, perlomeno, dal momento in cui possono bene intendere – quasi un memento mori recitato in unica soluzione così lentamente da durare per l’intera vita, un mantra profondo e ancestrale intrecciato agli echi impalpabili dell’Universo – la paura dell’Omega, altrimenti estrema e incommensurabile, svanirebbe: la morte non sarebbe più la fine della vita, cioè l’evento più tragico da immaginarsi, ma ne rappresenterebbe un necessario aspetto; significherebbe, cioè, che la quantità di tempo assegnata da chissà chi, forse da colui che ha creato anche il destino, ha un termine, così come termina ogni cosa, come termina, inebriandosi con un certo numero di sorsi, il vino inebriante e purpureo in un coppa di cristallo. Il corpo vivente parrebbe un breve rigurgito del nulla, impermanente, irrilevante rispetto al senza fine del non essere; questa consapevolezza cadenzerebbe, fin dalla venuta al mondo, dall’Alfa del tempo individuale, ogni azione senza scialare alcun istante, amministrando con giudizio la dote di tempo concessa a ognuno all’atto della nascita. Ogni momento si inanellerebbe con quello successivo per cui l’essere al momento della morte sarebbe saturo di sé stesso e sazio di tempo, senza rimpianti per ciò che non è stato. Dall’immanente consapevolezza della finitudine gli individui trarrebbero forza infinita, trarrebbero energia dal non essere.
Né si potrebbe prefigurare alcuna violazione del destino. Il tempo se, da un lato, diventerebbe la vera forza motrice dell’individuo permettendogli di seguire i propri percorsi, le proprie ambizioni, i propri desideri, la propria volontà, non verrebbe cioè intaccato il libero arbitrio, dall’altro, se gli uomini possono essere paragonati ad automezzi, solo la massima durata del viaggio, quindi la distanza percorribile, parrebbe predeterminata. La conseguenza sarebbe un’esistenza prevalentemente nel presente, uomini meno umani, meno sapiens sapiens abiterebbero città quasi alveari o formicai; ritornerebbe in superficie la natura animalesca, apparentemente nascosta dal pollice opponibile e dalla tecnica. Conoscendo esattamente il quando del momento finale, ogni uomo vivrebbe senza accumulare ricchezze per sé, per i propri discendenti, per altri eredi o per altri ancora; il capitalismo quindi crollerebbe. Ma soprattutto la religione consolatoria, quella basata sulla paura per la morte, verrebbe a cessare. Pregare per ingraziarsi ipocritamente questo o quel dio, costituirebbe un’azione priva di senso, ammettendo anche un celeste fattore infinitamente buono dispensatore di vita, perché il termine che egli assegnerebbe sarebbe immodificabile.
Tutto questo, invero, mai apparterrà alla natura e ai destini delle cose umane; la scienza, nonostante le sue grandi conquiste moderne, continuerà a rispondere solo in termini probabilistici parlando genericamente di rischi, pertanto nemmeno il migliore dei medici sarà in grado di dire quando un ammalato morirà anche se la sola possibile diagnosi fosse, appunto, quella più sfavorevole. Nemmeno arti speculative possono approssimarsi alla determinazione del momento finale; lo studio degli influssi astrali, la lettura dei segni della mano, la numerologia, il misticismo cabalistico, oppure i medium più capaci e segni soprannaturali, tutti egualmente falliranno, con la risata crassa dei vari dii attualmente in carica, che non mostrano certamente interesse perché cambi l’antifona. Se effettuassero questa piccola riforma, proverrebbero troppe grane dal mondo, troppe lamentele di tenore ideologico, se non politico: perché non assegnare un’uguale durata di vita a tutti anziché lacerti temporali di variabile durata senza un apparente criterio? E se esistesse un criterio occorrerebbe anch’esso discuterlo con i rappresentanti dell’umanità intera. Meglio trattare con chi genera il male che ricevere certe richieste egualitarie, anzi meglio non cambiare la vecchia antifona. Gli dii sono assai simili al sentire degli uomini.

(Continua)

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