Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte quarta

«E ora che mi racconta di lei?», chiese il Professore a Riccardo.

Questi gli rispose con sfrontatezza: «Perché dovrei raccontarle i fatti miei? Ci siamo appena conosciuti.»

«Lei prova diffidenza per me e ha ragione. Io sono apparso dal nulla in maniera assai inconsueta e quindi spettano a me tutte le spiegazioni del caso. Posso farle una domanda non troppo personale?», mescendo un facile lambrusco nei bicchieri sul rinascimentale tavolaccio di legno, addentarono una spoletta al latte imbottita per metà con fette di mortadella, per metà di salame, acquistati nella salumeria innanzi all’entrata. «Ha sentito parlare di spiritismo…di magia?»

«Si, certamente. Qualche tempo fa al Teatro Contavalli si è esibito un mago che parlava con un fantasma. Si vedeva una forma biancastra di fumo o di vapore. Il pubblico faceva delle domande e lo spirito rispondeva con una voce che sembrava provenire dall’oltretomba. Il mago era un francese…»

«Si chiamava Vatry», rispose prontamente il professore «C’ero anch’io. Un bello spettacolo, molto divertente, ma quello non è un vero mago; solo un abile illusionista. Un’arte nobilissima che imita altre ancor più nobili… non è spiritismo e tanto meno magia. Ha mai partecipato a una seduta spiritica con un tavolino a tre piedi? Ha mai interrogato l’anima di un trapassato? Non si stupisca se sta ricevendo queste domande da uno sconosciuto, ma dietro a esse c’è la ragione per cui l’ho avvicinata.»

«E quale sarebbe?»

«Quando l’ho incrociata per strada, subito ho percepito che lei possedeva doti speciali…insomma, non quelle per fare divertire la gente, cosa di per sé assai meritevole, ma per diventare un vero mago. Sento che lei ha le forze per diventare dominatore delle forze luminose e oscure presenti nel Cosmo. Un continuatore di Cornelio Agrippa, di Paracelso, di Alberto Magno, di John Dee, di Eliphas Lévi…»

«Chi sono questi?»

«I più grandi maghi del passato. Ha sentito parlare di Mago Merlino?»

«Suvvia, Professore non mi burli», rispose Riccardo sorridendo.

«Lei pensa che stia scherzando, fors’anche che non abbia tutte le rotelle a posto. Potrei perfino scherzare sulla mia patria, mai di certo su queste cose poiché tengo a esse più della mia passata professione…Mai!», fece l’altro seccamente. «E non sono nemmeno pazzo. Io vorrei applicare le mie conoscenze per trasformarla in un Mago…lo consideri un insegnamento molto speciale. Tutto qui.»

«Tutto qui, dice lei? Non sono proposte da poco. Queste proposte sono molto strane. Vorrei sapere quante persone al mondo le abbiano mai ricevute e, se questo sia mai avvenuto, quante persone potrebbero aver loro dato credito. Se non sta scherzando, se non è ubriaco – forse stiamo bevendo troppo vino – lei potrebbe essere un folle. Oppure l’ incarnazione di un diavolo!»

«Crede dunque al Diavolo? Questo è un buon principio. Io potrei allora essere Mephysto e lei Faust. Conosce la leggenda di Faust?»

«Ma sì, qualcosa…ho ascoltato l’opera  lirica e ho visto un dramma al cinematografo»

Riccardo fu colpito dal fascino intellettuale, eppure semplice, del Professore; non aveva mai incontrato una persona simile.

«Io studio approfonditamente astrologia, alchimia, cabala, teurgia e goezia. Conosce qualcosa di queste scienze dell’anima?» Aveva sentito parlare di astrologia. Chi non conosce gli oroscopi?

«Ora faccia ciò che dico io», disse il Professore con decisione e distese sul tavolo un foglio di carta velina recante il disegno di una mano con attorno delle linee tratteggiate equidistanti e numerate, come per misurare qualcosa. Tolse dall’astuccino d’alluminio un pendolo di vetro, contenente una bella goccia di mercurio rilucente, che appese a un leggero supporto d’ottone. «Questo è il miglior strumento per rivelare i flussi di energia vitale. Appoggi la mano sinistra su questa sagoma con il palmo verso l’alto». Il pendolo dapprima iniziò a oscillare sulla mano avanti e indietro, poi descrisse i raggi di una stella, quindi un’energica traiettoria circolare oltre l’ultima linea della sagoma disegnata.

Il Professore osservava ammirato.

«Vede? È lei che muove il pendolo con una forza al di sopra delle mie aspettative», disse con entusiasmo.

(Continua)

 

L’ombra della Rocchetta (3)

Perché la mia giovane mamma ed io ci recammo per due volte nella casa di Iris Boriani?
Il motivo era semplice ma, tutto sommato, non banale. La signora Boriani, probabilmente suggestionata dai misteri del Conte, telefonava assai spesso a mio babbo per parlare di esoterismo, spiriti e soprannaturali energie. Che c’entrava mio padre con queste cose? C’entrava molto, visto che era un mago famoso e potente. Non un mago alla Silvan, cioè un illusionista, un prestigiatore, e nemmeno un personaggio da baraccone alla Divino Otelma.
Mio padre era, invero, un mago in senso alto, un mago come Apollonio di Tiana, Merlino, Ruggero Bacone, John Dee, il Dottor Faust, Cagliostro, un uomo cioè capace di dominare forze invisibili dell’Universo ed asservire gli spiriti. L’ Ars Goetia. Un mago con una bacchetta di cristallo…però non ricordo più in quale angolo della casa io l’abbia riposta.
Ovviamente era anche chiromante, cartomante, necromante, toglieva il malocchio e segnava i malati.
Ed il babbo insegnò parte delle sue arti alla mamma.
Quanto a stranezza, i miei genitori non erano quindi da meno rispetto al Conte Mattei! E io? Nulla. Sono una persona assolutamente normale! Certi doni non si trasmettono per filiazione, a meno che, nascosti in una zona ancestrale del mio cervello, non si rivelino in futuro.
Cosicché accompagnai la mamma nella bellissima casa di Strada Maggiore appartenuta a Cesare Mattei per leggere le carte alla signora Boriani.
E venne il 1984.
In una mattina nebbiosa di un sabato novembrino, mio padre se n’era andato già da diciassette anni, trovai nella buchetta delle lettere un vaglia di cinquantamila lire. La mamma non attendeva denaro da alcuna persona ed il mittente era sconosciuto. Una donna.
Così mi recai immediatamente alla Posta per restituire la somma.
Qualche giorno dopo la donna nuovamente si palesò con una lettera in cui forniva la propria data di nascita, chiedendo aiuto a mia mamma per trovare un lavoro ed ottenere maggior fortuna. Angela Fiocchetti, così si firmava. Non avendo avuto risposta, questa donna fece le medesime richieste davanti alla soglia di casa nostra. La mamma, intuendo stranezze, non le permise di entrare e, per il lavoro, le rispose di andare all’Ufficio di Collocamento; quanto alla buona sorte, che avesse pregato e fatto buone azioni, perché queste le sarebbero ritornate indietro.
Disillusa, scontentata dalle risposte della mamma, la Fiocchetti non desistette.
Il telefono diventò l’arma della Fiocchetti contro la mamma.
E cominciò a pretendere, con toni via via più alterati, che la mamma restituisse alcune fotografie della propria famiglia, in particolare una fotografia ritraente la sorella Iolanda.
Non avevamo, ovviamente, queste fotografie.
Ben presto la Fiocchetti aggiunse anche un’accusa: qualche anno prima, con quella fotografia, mia mamma aveva «ucciso con il pendolo» la sorella Iolanda! Parole deliranti.
Queste folli accuse e le pretese sulle fotografie venivano ripetute ogni giorno. La voce inespressiva, uniforme, inquietante, della Fiocchetti diventò per la mamma un’ossessione.
Spesso anch’io prendevo la cornetta in mano e in qualche maniera tentavo invano di convincere Angela Fiocchetti che le sue accuse erano assolute fantasie:
«Voglio le fotografie! Sua madre è un’assassina!».
Chiaro e lapidario.
La mamma divenne preda dello sconforto perché, a parte l’incredibile accusa di omicidio, si rese conto che Angela Fiocchetti era una malata di mente da cui non si sarebbe liberata in fretta, tant’è che la soprannominò la Mâta, la matta. Io, invece, percepii la gravità di quella situazione con ritardo rispetto alla mamma perché, più superficialmente, pensavo che sarei stato in grado di riportarla alla ragione.
I fatti seguirono le pessimistiche previsioni della mamma.
La pazzia di Angela Fiocchetti esplose interamente il 2 gennaio 1985. Avevamo a pranzo una mia vecchia amica. Una telefonata ci interruppe: era la matta. Curiosamente l’accusa principale, più forte, più importante, sembrava ora costituita dal fatto che la mamma detenesse le fotografie della famiglia e della sorella mentre quella di presunto omicidio passò in secondo piano, quasi fosse una mera conseguenza della prima.
Da quel momento ci tamburò con il telefono. Abbandonai i tortellini e, chiedendo scusa all’amica basita, mi misi di buzzo buono per farle fare il maggior numero di telefonate possibile. Ad ogni squillo io alzavo la cornetta e poi riagganciavo immediatamente. Speravo che la Mâta non abitasse da sola e che in tal maniera qualcuno, in casa sua, si accorgesse di quello che stava combinando. Dall’ora di pranzo, il telefono squillò senza tregua per quasi duecento volte fino alla sera verso alle diciannove.
Mentre perdevo il tempo a fare ammattire la Mâta, ma forse con le mie azioni nemmeno io dimostravo tanta sanità di mente, mi sovvenne che la Mâta, sul vaglia e sulla lettera, aveva scritto l’indirizzo della propria abitazione: Via Frassinago, una strada del centro. Ricordai pure che dieci anni prima, due sorelle venivano a farsi leggere le carte da mia mamma per questioni sentimentali e sia perché amavano partecipare alle sedute spiritiche con il tavolino a tre piedi. Una si chiamava Carla, l’altra Iolanda, ma non ne conoscevamo il cognome. E se ci fosse stato qualche legame tra queste sorelle, di cui non sapevamo più alcunché da svariati anni, con la Mâta?
La mamma controllò una vecchia agenda trovando un numero telefonico che aveva indicato ‘Carla-Iolanda’. Così telefonò.
Il mio sbiadito ricordo, rigurgito della memoria, stupida e casuale associazione della strada alle balordaggini della Mâta, costituì il bandolo della matassa.

(Continua)

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