Tre millantatori all’Opera – Il soprano ferrarese (Parte prima)

«Domani, ti andrebbe d’accompagnarmi a Ferrara dalla Barioni? Ha tempo per ascoltarmi…mi farebbe una specie di audizione, insomma».

Ed io chiesi a Rufo:

«Un’audizione? All’insaputa di Mantovani? È proprio il caso di farla? Sai com’è fatto…le cose prima o poi si vengono a sapere nell’ambiente dei cantanti».

Ero perplesso. Capivo a stento quale utilità potesse avere un’audizione con un soprano senza carriera su palcoscenico. Un soprano diplomatosi a trentacinque anni, per giunta, età in cui diversi cantanti si incamminano per la via dell’irreversibile declino.

«Sì è il caso di farla», rispose Rufo indispettito, come accadeva se qualcuno avesse avuto opinioni differenti dalle sue.

E proseguì:

«Perché dovrei dirglielo? Non necessariamente Mantovani deve essere messo a conoscenza di tutto, né lo verrà mai a sapere per strade traverse. E poi, non sto mica facendo chissà che, come un’audizione con un agente teatrale, o andando da chissà chi. La Barioni è una mia compagna fuori corso. Me l’ha proposto lei. Ha piacere di sentire la mia voce. Punto e a capo». Il viaggio era definitivamente deciso.

«Insomma, vieni a Ferrara o no?».

Rufo conobbe Carmencita Romana Barioni qualche anno prima, all’Accademia di Belle Arti.

I casi della vita che l’avevano riguardata erano stati faticosi. Messa al mondo la piccola Amina Gilda, si arrabattò ad insegnare per le scuole medie del Basso Polesine dopo che il marito se ne andò senza alcuna vera, apparente, ragione. Le disse dodici parole, non una di più né una di meno.

«Devo riprendere in mano la mia vita. È tutta colpa mia…Scusatemi», questo un giorno il marito Diego le disse piangendo, mentre Carmencita Romana allattava la bambina. E questo divenne pure lo scarno racconto del suo matrimonio che Carmencita Romana ripeteva a tutti, alla madre, al prete ed anche al giudice. Senz’altre aggiunte, senz’alcun affetto, senza ricordi, mai una parola in più.

Tornò ad abitare con la madre e, divenuta professoressa di disegno in città, Carmencita Romana decise di coltivare la passione messa da parte per diverso tempo. Ricominciò, allora, a studiare canto e pianoforte con tale caparbia dedizione da essere ammessa al Conservatorio, diplomandosi nella classe di canto come soprano.

Giungemmo a Ferrara nelle prime ore del pomeriggio.

Le automobili che attraversavano Corso Giovecca si contavano sulle  dita di una mano. Vedevamo solo lente biciclette. E silenziose. Ci saremmo sentiti come dentro ad una cartolina se non fosse stato per lo schioppettare dell’Opel Ascona di Rufo. Questi rumori di marmitta ci riportarono alla vita vera.

Feci un grande sforzo durante il viaggio per interessarmi alla conversazione con Rufo poiché non distolsi mai gli occhi dalle lancette del cruscotto impolverato e le orecchie dai brutti rumori prodotti da quel rosso rudere metallico.

Non so quale buona stella ci propiziò, però l’automobile non fece dei brutti scherzi. Avremmo poi avuto il problema del ritorno a Bologna. «Se quel catorcio non riparte, male che vada, prenderemo il treno».

Alla fine, avrei conosciuto questa benedetta Barioni di cui negli ultimi giorni Rufo aveva preso a parlare più volte!

«Tanto per evitare delle domande scontate…Sai che sia parente di Daniele Barioni?», il famoso tenore ferrarese che diventò uno dei tanti eredi di Enrico Caruso al Metropolitan.

«Sì gliel’ho chiesto e ha risposto che non c’entra nulla con lui. Chiamarsi Barioni a Ferrara è un po’ come chiamarsi Rossi in ogni altro luogo».

La Barioni viveva in una graziosa casetta ottocentesca a due piani tra la Certosa e il Corso Porta a Mare.

Suonato il campanello del bel portoncino verniciato di fresco, non ci aprì la Carmencita Romana.

Era un soprano. E tutti i soprani, famosi o sconosciuti, o volere o volare, fanno le primedonne. Perfino le pescivendole se cantano nel registro femminile più acuto, si trasformano in capricciose regine che fanno attendere. L’assenza nell’attesa, si sa, accresce l’aspettativa intorno all’artista, alla diva.

Una prima donna non potrà mai accogliere, fare accomodare gli ospiti, offrire loro un caffè. Dovrà necessariamente avere una segretaria, una cameriera, un servo che la serva e la riverisca.

Agli onori di casa disbrigò, quindi, la madre della Carmencita Romana, una donnina vispa sulla settantina, sorridente, vestita in grisaglia da provincia, linda e ben stirata, gradevolmente odorosa di bucato fresco e di Colonia Etrusca, acquistata alla Standa per poche lire.

«Carmencita Romana si sta preparando». Ci offrì il caffè e delle belle porzioni di zuppa inglese.

In attesa della diva, prese a parlare a ruota libera, del più e del meno, come faceva con le altre donne quand’era in attesa seduta nell’ambulatorio dal medico per farsi scrivere qualche ricetta.

Voi venite da Bologna? Che bella città! Mio fratello ha sposato proprio una bolognese. Ecco, ecco. Io invece ho sposato uno di qua. I bolognesi non dicono che i ferraresi sanno far tutto loro? A fag tot mi con ‘na man sòla. Ahahah. Ecco ecco. Il nome Carmencita Romana? Tutta farina uscita dal sacco di mio marito che dorme qui accanto. Alla Certosa. E che gli era venuto? Un colpo. Al bar mentre giocava. Non ha mica sofferto, lui. Era così bello, ma così bello durante il funerale. Pareva dormire. Meno male che almeno ho una pensione. Ecco, ecco.

Qualche istante di commozione, soffiò il naso e asciugò le lacrime con un moccichino che nascose in mezzo al seno con contegno.

«Insomma, mamma, non tediare i miei ospiti con la solita storia del babbo…son passati ormai vent’anni! Buon giorno miei cari…», irruppe nel tinello ‘la soprano’ in medias res– così Carmencita Romana diceva non per femminismo – vestita in gran pompa come per andare a un matrimonio o a un prima comunione. O forse come ‘una soprano’ da concerti in chiesa.

«Immaginati la Pagliughi, sia in volto che nel fisico… Antica, larga quanto alta, culo e tette lievitati in pochi anni come panettoni natalizi», così Rufo mi aveva già raffigurato la Barioni, durante il viaggio, con una sintesi di grande efficacia. E concluse:

«Non che prima fosse una gran bellezza…Qualunque sia stata la vera ragione per cui l’ha lasciata, potremmo concedere al marito ogni attenuante!».

«Sei stato da Codiluppi? Hai preso gli accordi per la tesi?» chiese Carmencita Romana a Rufo, con tono leggero e svagato da prima signora della città, essendosi incrociati qualche giorno prima in un corridoio dell’Accademia prima di entrare nello studiolo del professore.

«Sì, sì, l’ho visto. Progetterò le scene di un’opera…Le nozze di Figaro. Ho iniziato a buttare giù qualche schizzo. C’è tanto da fare, è un’opera complessa, tante scene, tanti personaggi, tanti costumi…».

«E lei…lei che mi racconta?», mi guardò Carmencita Romana.

«Studia canto? Vuole fare un’audizione con me?», non comprendendo appieno il motivo per cui ero lì.

«No,no, io sono solo un cantante da vasca del bagno», risposi con spirito.

«Non canta, ma è un grande amatore…», precisò Rufo.

Seguì un istante di silenzio e Carmencita Romana scoppiò in una franca risata cristallina.

«Ahaha, meglio grande amatore che grande cantante, allora…Ahaha»

E Rufo allora, compreso l’involontario doppio senso, aggiunse divertito:

«Ahaha…Volevo dire che non canta, ma conosce bene l’opera e quando una voce è buona…e ne capisce anche di tecnica!».

«Davvero? Allora lei non la racconta giusta. Si vede dalla faccia che lei è uno che ne sa…oltre ad essere un grande amatore», e accompagnò queste parole oscillando l’indice, tanto simile ad un salamino.

La soprano si rivolse quindi al tenore:

«Ruffi, suvvia, ora tocca a te, fammi sentire la voce. Che mi canti? Anzi, che ci canti?

«Lo chiama Ruffi come un barboncino da grembo? Si farà chiamare così anche in Accademia?», mi chiesi perplesso.

La scelta cadde sulla romanza di Macduff dal Macbeth verdiano.

«Sai? Non la conosco», confessò la Carmencita Romana, «ma qualunque romanza va bene per giudicare una voce…poi Verdi non si discute».

E pensai che troppo spesso i cantanti lirici pensano solamente alle loro poche note studiate, senza possedere una vera conoscenza della musica. È come pensare solo al particolare senza avere contezza del generale. Raramente si prova piacere nel parlare di musica con un cantante.

Ah, la paterna mano non vi fu scudo, o cari,

Dai perfidi sicari che a morte vi ferîr!

Terminata la romanza, Carmencita Romana esclamò con entusiasmo:

«Che bel timbro! Dolce e al contempo assai virile. La tua voce assomiglia a quella di quel tenore spagnolo…Aragall? Hai un’altra romanza da farmi sentire?»

La scelta cadde su Che gelida manina.

Ed io pensai:

«Sta’ a vedere che non conosce nemmeno la Manina!». Se fosse successo mi sarei scandalizzato.

La Barioni invece conosceva assai bene questa romanza, anche nei dettagli musicali.

«Bene, bene. Canti bene, però…devi sempre porre attenzione al legato. Scusami il bisticcio di parole: nel Belcanto, il canto deve essere bello. Il legato fa parte della bellezza. Non è questione di soli suoni fatti bene», disse al termine della Manina, sorridendo per la soddisfazione di aver detto dei grandi concetti.

L’espressione della Barioni lasciava intendere che aveva altre osservazioni. Al tenore svanì in fretta lo smagliante sorriso esibito in tutte le occasioni possibili.

«Ruffi con chi stai studiando?».

«Studio con Floriano Mantovani, un tenore comprimario del Comunale. A lui mi ha indirizzato la maestra di pianoforte», rispose Rufo.

«Sei senz’altro destinato ad una bella carriera…ma la qualità della voce non è tutto. Tecnica, tecnica, ci vuole tecnica. Con questo materiale vocale devi fare di più e meglio», disse ‘la soprano’.

Rufo ascoltò serio senza alcuna apparente reazione, senza replicare.

«Facciamo insieme dei vocalizzi?».

Mettendo insieme tutte le osservazioni che Carmencita Romana fece durante gli esercizi, mi parve di capire che Rufo dovesse rivedere molte cose.

«Perché spingi in basso? È proprio l’opposto di quanto si deve fare per cantare in maniera ortodossa. Così cantano quelli che affondano il suono, come Del Monaco…Qualche anno di palcoscenico, un po’ di soldi e dopo…addio che t’amavo! Ti troverai con la voce appesantita e ti spariranno gli acuti. Su avvicinati a me…».

Anziché spiegare a parole, cominciò a spingere sullo stomaco di Rufo con il pugno della mano destra e con l’altra saldamente lo tratteneva alle reni.

«Ora canta…In alto, in alto, devi ritrarre l’addome e spingere verso alto. Mi-a-a-a-a-a…Mi-a-a-a-a-a. Prova!».

Il poveretto provò e riprovò, costretto tra l’entusiasmo e il pugno di quella donna :

«Mi-a-a-a-a-a…Mi-a-a-a-a-a…Scusami, Carmencita Romana…Ho una gran confusione in testa. E’ come se avessi perso l’orientamento!».

E l’altra:

«Capisco che non è possibile cambiare strada da un giorno all’altro. Devi accompagnare il diaframma nel suo movimento verso l’alto. Così spiegano i belcantisti. Garcia diceva di fare rientrare la fontanella dello stomaco e spingere in alto. Tu stai facendo l’opposto! E dovrei dirti altre cose».

Rufo annuì con la testa, come se avesse voluto dire:

«Avanti, leggimi il verdetto».

Beh. Allora. I vocalizzi si basano sulla ‘i’ e sulle ‘e’. Ecco. Sono queste le vocali che mettono avanti la voce. Le vocali chiacchierine, come diciamo noi soprani. Ecco. Poi metterai le altre vocali. Prova! La ‘u’. Lasciala perdere. Guai mai guai mai. O meglio. Con cautela, serve per affondare. E la bocca? Non devi spalancarla. Guai mai, guai mai. Tienila come in un sorriso. Il suono deve sbattere contro i denti. Insomma, non deve interessare il torace. Guai mai!Guai mai!

Insomma, se Mantovani avesse detto nero, la Barioni avrebbe controbattuto dicendo bianco, e viceversa. Questa fu una palese dimostrazione di quanto il canto e i cantanti siano in balia del relativismo e dell’approssimazione. E di loro stessi.

(Continua)

Tre millantatori all’Opera – Transizioni

«Tutto è politica».

Pure io così dicevo per mettermi in riga con i tempi ed anche per compiacere certi professori.

Verso il 1972 mi iscrissi al PCI, perseguendo una blanda attività politica. Blanda perché passiva. Passiva perché il Centralismo Democratico era ancora in pieno vigore. Vigore che si dimenticava dei giovani. Giovani che non avevano idee allineate.

Io non pensavo da allineato, cioè pensavo da non allineato, sentendomi spesso più vicino al Movimento Studentesco e agli Indiani Metropolitani che non al PCI.

Al primo anno di Università conobbi un polemico romagnolo della riviera, un tipo alto, corpulento. Antonio Di Russo, un mio compagno di Liceo fuori dai cliché, gli diceva in faccia che assomigliava a un porcellino. Il mio collega di facoltà pareva aver poca fretta d’arrivare alla laurea, evidentemente poco assillato da problemi economici. Ogni volta che lo incrociavo mi diceva di lasciare quella politica, il PCI e la sezione universitaria comunista. La SUC.

Nacque tra di noi un’amicizia di strada. Significava che tornavamo insieme dalle lezioni fino in centro. Oppure, lo incontravo per caso alla Libreria Feltrinelli in Piazza Ravegnana. Oppure, saltavamo le nostre lezioni per ascoltare insieme quelle di Umberto Eco al DAMS in Strada Maggiore e di Logica matematica in Piazza di Porta San Donato. Oppure, bighellonando, prima o poi ci si incrociava da qualche parte.

Dal punto di vista politico non ci beccavamo. Lo ritenevo un qualunquista perché evitava accuratamente di schierarsi per qualsiasi ideologia, criticando sia il PCI che il Movimento Studentesco. Guai mai, in quei giorni, non dichiarare la propria appartenenza politica: automaticamente si sarebbe stati qualificati come fascisti o, appunto, qualunquisti. Quasi fossero sinonimi.

Angelo non perdeva mai l’occasione di incitarmi ad allontanarmi dal PCI con un sorrisino irritante stampato sulle labbra.

«Durante le vostre riunioni la ‘Nadiona’ vi interroga per verificare se avete studiato a memoria L’Unità?». Una domanda che Don Camillo avrebbe potuto fare a Peppone Bottazzi. La ’Nadiona’ era la ragazza di un ‘compagno’ della mia facoltà. Tutti iscritti alla SUC.

«Perché butti via il tempo distribuendo i volantini del PCI?»

Arrivava con puntualità la frase:

«Tu non fai politica, sei il galoppino dei compagni e della Nadiona».

E qui mi arrabbiavo.

Ma i tempi non erano ancora maturi per abbandonare la SUC.

Dopo gli scontri studenteschi e i carri armati del 1977 non vidi più questo romagnolo. Seppi che aveva cambiato facoltà e si era iscritto al DAMS.

Passò qualche anno.

All’ora di pranzo del 3 gennaio 1983 telefonò un’amica di mia madre:

«Hai conosciuto all’Università Angelo Fabbri?»

«Certamente. Era un mio compagno di corso» risposi io, «Ma come fa a sapere di lui?»

«Ho letto sul Carlino che l’ultimo dell’anno è stato trovato morto in Val di Zena, dopo San Lazzaro di Savena. Ucciso con undici coltellate e buttato giù per una scarpata».

Sentii i brividi addosso. Mi infilai il cappotto e uscii di furia per comprare il Resto del Carlino.

Vidi la fotografia sul giornale: era proprio quell’Angelo Fabbri conosciuto da me, quell’Angelo che mi innervosiva con le sue scomode verità.

Al DAMS, in quei pochi anni, era diventato il migliore allievo di Umberto Eco. Scusatemi se è poco. Ed io che lo avevo considerato un perdigiorno!

«Tutto è politica».

Negli anni ’70 questa semplice frase, soggetto con predicato nominale, pervadeva come un mantra ogni persona di sinistra. Intellettuali sì, ma impegnati.

Nella testa le mie passioni frullavano in maniera diversa libere da suggestioni politiche e sociologiche come puro piacere.

Ma lo tenevo per me.

Le mie passioni di allora? Sostanzialmente quelle di ora: filosofia, musica, letteratura e arte.

Assecondando l’egocentrismo giovanile, facevo il verso alle opere dei grandi uomini, scrittori, filosofi e musicisti, a mano a mano che ne venivo a conoscenza. Non mi tiravo indietro dinnanzi a nulla e, poiché ero lettore e ascoltatore di musica insaziabile, avevo un bel daffare.

Liquido con indulgenza, e sbrigativamente, quelle cose: ragazzate che costituirono la formazione di un adolescente un po’ fuori dai canoni. Furono i miei ‘anni di formazione’.

Conosciuto Tullio, nel giro di pochi mesi rinnovai la mia vita: feci tante nuove amicizie, modificando al contempo ciò che non mi soddisfaceva, ovvero sparì l’attività politica, da modesto attivista di sinistra mi limitai ad essere cittadino che votava a sinistra, e lasciai perdere i balocchi da intellettuale. Insomma, i due fari esistenziali cresciuti durante il tempo del Liceo.

Così pian piano finirono nel nulla pure alcuni compagni di liceo con cui avevo condiviso i miei anni di formazione. Il primo, Silvio Nocenti, essendo disposto a firmare patti sia con dio che con il diavolo pur di blandire il proprio ego, si dileguò in autonomia perché non avrebbe saputo come utilizzarmi per i suoi scopi, essendo io un ‘piccolo uomo’ di scarsa utilità per perseguire i suoi piani. Nemmeno Antonio Di Russo era rimasto alla mia portata perché il suo senno se ne volò per sempre sulla Luna e non trovò qualcuno che, a cavallo di un ippogrifo, glielo riportasse indietro.

Alla bislacca Corinna Strocchi, la sola tra i miei compagni di liceo che aveva condiviso le mie passioni musicali, una delle persone che mi trascinò nel PCI, permisi invece di avere accesso alla mia ‘rinascita’.

Non è curioso che delle cose da me ritenute sciocche come le «scantarellate» del sabato – come le chiamava Tullio – abbiano contribuito a rivoluzionare la mia vita? Con l’età matura ho capito che le «scantarellate» furono invece un modo gioioso per seguire una passione molto seria, contribuendo a levarmi di dosso la bella e pesante coltre di pedanteria degli anni passati.

Alle «scantarellate» si unirono altri giovani appassionati d’opera lirica. Qualcuno si prendeva perfino la briga di salire su di un treno a Firenze e a Genova per unirsi a cantare insieme con noi!

Per diversi mesi Tullio mi aveva rotto le scatole parlandomi di un tal Rufo che studiava canto con Floriano Mantovani, un comprimario del Teatro Comunale. A detta di Tullio, Rufo possedeva una voce fenomenale. Non solo. Avrebbe potuto cantare l’intero repertorio tenorile, dai ruoli lirico-leggeri fino a quelli drammatici. Da Elvino della Sonnambula fino ad Otello, tanto per intenderci. Con tutto quello che stava in mezzo. Un tenore ‘quattro stagioni’, come gli armadi che contengono gli abiti sia per il caldo che per il freddo. Insomma il tenore che avrebbe fatto quadrare il cerchio in qualsiasi teatro e destinato a una luminosa notorietà.

I due si erano conosciuti al Teatro Comunale durante una fila al botteghino per acquistare i biglietti del Così fan tutte, prima opera in cartellone. Tutti i melomani accorsero perché Fiordiligi aveva la voce e la carne di Lella Cuberli, soprano la cui bravura era sottolineata dagli articoli di Rodolfo Celletti, re tra i critici d’opera. E noi giovani eravamo sudditi di questo dispotico re che, con un articolo, mandava al patibolo i cantanti che, per una ragione o per l’altra, non apprezzava.

Un giorno Tullio mi chiamò sovreccitato: Rufo lo aveva invitato a casa sua e gli aveva cantato l’ Esultate e Che gelida manina. Otello e Boheme!

«Ha una voce enorme, ti fa rifrullare le orecchie. Sembra quella di Franco Corelli!»

Strinsi fortemente la lingua tra i denti:

«Sì, adesso abbiamo anche Franco Corelli…ti piacerebbe. Bella gioia» pensai «anche Evelina secondo te doveva essere una grande cantante degna del Metropolitan…».

Interpretai che Tullio avesse detto quelle parole eccessive con l’intento di farmi rabbia, visto che anch’io ambivo ad essere un tenore ‘quattro stagioni’. Mi infastidiva perfino il nome.

Dicevo tra me:

«E poi che nome è Rufo? Rufo sta per rufus, rosso. Avrà i capelli rossicci come Edmondo. Ma ‘sti genitori, allora, non potevano battezzarlo come Fulvio?»,

Per diverse settimane Tullio continuò a tormentarmi questo Rufo.

«Sai, Rufo ha detto…Rufo ha fatto…»

È facile capire quanto questo Godot mi stesse antipatico.

E arrivò la settimana santa del 1980. Decisi di organizzare per il lunedì dell’Angelo e un pranzo in casa mia con qualche amico dell’allegra brigata lirica, Evelina, Edmondo, Corinna, Tullio, e Teresa, una farmacista mia partner di scantarellate.

La vigilia di Pasqua Tullio mi telefonò e, imprevedibilmente, chiese:

«Cosa ne dici se venisse a mangiare anche Rufo, quello che studia da tenore? Sarebbe una buona occasione per farti sentire da lui, dopodiché potresti andare prendere delle lezioni di canto dal suo maestro».

Tullio in genere mi irritava per la sua invadenza, però quella volta non fu così: si può immaginare quanto fossi curioso di ascoltare questo Rufo! Curioso come una scimmia. Quindi non rilevai più di tanto il giudizio implicito, ovviamente negativo, verso la mia voce.

In pomeriggio, Tullio passò da me per accordarci sul menù del pranzo. E si portò dietro Rufo che, a sua volta, portò con sé un amico, Gabriele, anche lui tenore ed allievo dello stesso maestro. Estesi l’invito anche i due tenori.

Ed accettarono.

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