L’ombra della Rocchetta (8)

La sentenza fu sfavorevole alla Mâta. Il Codice Penale puniva le molestie con il carcere fino a sei mesi. La pena fu comminata al massimo previsto dalla legge ma la Mâta non dovette scontare alcuna detenzione perché, condannata per la prima volta a meno di quattro anni di carcere, avrebbe beneficiato della sospensione condizionale. La sentenza imponeva anche il pagamento di due milioni di lire che comprendevano sia le spese processuali che il risarcimento. Non un granché. Avevamo sostenuto costi ben superiori per il legale mentre il valore del disturbo certamente non poteva essere certamente ripagato con una somma di denaro talmente modesta.
«E non farà nemmeno un giorno di galera. È una presa per il culo bella e buona!», sbottò la mamma fuori dal Tribunale.
«Signora ha ragione, ma il Giudice ha fatto le cose in scienza e coscienza. Abbiamo ottenuto il massimo previsto dalla Legge. Non si può andare oltre la Legge. Per mandare in galera la Fiocchetti occorrono altre condanne per lo stesso reato», rispose l’avvocato per frenare la rabbia della mamma delusa nonché fugare il pensiero di una scarsa adeguatezza della propria prestazione. Sarebbero occorsi nuovi colpi di testa, altre molestie, per fare pagare alla Mâta il conto con la Giustizia e con noi. Perseverando nei suoi folli intenti, prospettò l’avvocato, l’avremmo nuovamente querelata e portata davanti al Giudice. Solo con la terza condanna, oppure se la somma delle pene comminate nei primi due processi avesse superato i due anni, la Máta sarebbe andata in gattabuia. Però, oltre a sopportarla ancora, avremmo dovuto vincere nuovi processi e far fronte a nuove spese legali.
Trascorsero non molte settimane che arrivarono delle novità: la Mâta aveva fatto ricorso contro la sentenza di primo grado. L’ennesima mossa imprevedibile di questa donna malefica. E per noi nuovi costi.
Le molestie telefoniche intanto si diradarono non tanto per effetto del processo, ma perché, nel frattempo, l’avvocato era riuscito a farci avere, per la casa dove abitavamo, un nuovo numero telefonico privato, cioè senza che comparisse sull’elenco telefonico oppure senza che venisse comunicato telefonando al numero 12 della SIP. Rimase invece attivo il numero telefonico per la vecchia casa, ove la mamma continuava a ricevere i suoi clienti, filtrato ora da una segreteria telefonica che registrava tutte le chiamate, comprese quelle della Mâta. Trovandosi a sfogare il suo odio contro un dispositivo elettronico, prese a fare lunghi monologhi, ripetitive farneticazioni; faceva domande a cui rispondeva da sé, rideva sovreccitata. E divenne minacciosa. Non aveva capito che s’era messa in moto la macchina giudiziaria contro di lei.
La mamma spesso ascoltava accanto al telefono piangendo per lo sconforto e per la paura. Temeva per la propria incolumità.
«Qualora tu incontrassi la Mâta per strada non devi affrontarla, bisogna fregarla, urla, richiama gente, chiedi aiuto, buttati a terra come se ti avesse colpito».
Con il numero di telefono privato, c’era la speranza che la mamma riuscisse a stare in pace almeno nella nuova abitazione e, invece, la Mâta riuscì a scovarci.
Una mattina si aggirava sul pianerottolo davanti alla porta di casa. La mamma si trovava da sola ma reagì prontamente urlando, con tutto il fiato possibile, che qualcuno chiamasse la forza pubblica. Tutti i vicini si affacciarono alla tromba delle scale. La Mâta, presa alla sprovvista da questa vivace reazione, corse via a gambe levate.
Questa vicenda ovviamente ci inquietò molto. Aveva seguito la mamma per strada? Era stata aiutata involontariamente da qualche superficiale impiegato dell’anagrafe di Bologna? O un demone la guidò?
E poi continuava ad inviarci le buste di pubblicità che modificava con i suoi arzigogoli astrologici conditi da vaneggiamenti menagramo.
L’avvocato ritenne di avere elementi sufficienti per la presentazione di una nuova querela a cui allegammo nuove registrazioni e nuove lettere malevole.
Il processo d’appello si tenne dopo poco più di un anno da quello di primo grado. Fu assai più breve, solo qualche domande alla Mâta a cui rispose con i consueti vaneggiamenti. La pena venne quindi confermata.
La Mâta dopo l’appello se ne andò in fretta e furia, ma il suo avvocato ci attese. Comunicò che non avrebbe più difeso la Mâta perché il giovedì pomeriggio non voleva più trovarsela tra i coglioni. Volendosi liberare immediatamente di quella causa, prese fuori dal portafoglio un proprio blocchetto d’assegni, ne firmò uno a mio nome per la somma di due milioni pari alla pena pecuniaria inflitta alla Mâta.
E, uscito da Tribunale, scambiai immediatamente l’assegno per non correre il rischio che l’avvocato ci ripensasse.
La Mâta, forse perché dal proprio legale, non s’arrischiò nel ricorrere alla di Corte Cassazione, possibilità temuta fino all’ultimo giorno del termine previsto. I costi per l’ultimo grado di giudizio sarebbero stati elevati poiché, oltre ad una parcella più salata, avremmo dovuto pagare all’avvocato cassazionista, e il nostro lo era, viaggio, vitto e pernottamento a Roma.
La sentenza del primo processo diventò finalmente definitiva. Evviva!
Giunse per posta la notificazione del decreto penale di condanna contro la Mâta conseguente alla querela più recente, comminata senza la gran pompa del processo in Tribunale. Un processo senza la presenza dell’imputato, della parte lesa e degli avvocati? Sì. Ne venimmo a conoscenza dell’esistenza in quell’occasione. Per i reati punibili con una detenzione non superiore a sei mesi, come le molestie, qualora sia possibile applicare soltanto una pena pecuniaria anche in sostituzione di una pena detentiva, viene emesso contro l’imputato un decreto penale di condanna senza processo. I giorni di galera furono convertiti nel pagamento di due milioni e cinquecento mila lire.
Finalmente avevamo conquistato una seconda condanna penale per lo stesso reato!
«Non perda la fiducia, signora», disse l’avvocato dopo una scarica di tic facciali con pernacchiette laterali, «otterremo anche la terza condanna e, a quel punto, la pettineremo per bene: la Fiocchetti finirà dritta in galera». E così uscimmo dallo studio dell’avvocato con una piccola euforia. Si poteva intravvedere la fine di quella terribile faccenda che si stava protraendo da troppo tempo.
Era ormai il 1999.

(Continua)

L’ombra della Rocchetta (7)

Giunse finalmente il giorno del processo. Avevamo tanti testimoni, come un processone da film americano, insieme ad amici semplicemente curiosi di vedere il grugno della Mâta.
La Mâta, sola, era difesa in gratuito patrocinio da un famoso legale appartenente ad una illustre dinastia di azzeccagarbugli. Ogni cittadino ha il diritto di difendersi.
Il nostro avvocato stabilì un copione preciso. Avrei cioè deposto per primo dinanzi al giudice perché più controllato e razionale, esponendo con ordine i fatti. Il compito della mamma sarebbe stato quello di confermare le mie parole, rispondere in breve alle domande del giudice e, soprattutto, piangere, piangere e ancora piangere. Le lacrime avrebbero rafforzato la verità. Dovevamo convincere il giudice a tutti i costi, anche con qualche crudeltà a scapito della mamma.
E rispettammo puntualmente il copione.
Venne il momento di sentire l’imputata Fiocchetti Angiolina.
La Mâta indossava abiti semplici ma decorosi – cappotto in vellutino marrone, pantaloni plumbei, sciarpa di lana bianca fatta a mano e borsetta nera a tracolla -. La figura era tozza, senza fianchi, senza collo. Fronte bassa, aveva capelli ondulati non folti, sbiaditamente castani; poiché erano stati lavati di fresco, dalla scriminatura centrale cadevano a ventaglio sulle spalle. La pappagorgia inghiottiva mento e boccuccia, mentre i grossi zigomi avevano a loro volta inghiottito gli occhi quasi privi di sopracciglia. Lo sguardo era privo di espressione ed anima.
Aveva ascoltato la mia deposizione e quella della mamma con indifferenza, come se nulla la riguardasse.
La Mâta confermò interamente le nostre dichiarazioni di parte lesa: sì, telefonava perché la mamma era responsabile della morte della sorella Iolanda, perché possedeva le fotografie e non intendeva restituirle.
Rispondeva al giudice con tono monocorde, da beghina che recita il rosario, guardando il pavimento, all’apparenza una persona timida, come aveva detto la sorella Carla.
«E in che modo morì la signora Iolanda Fiocchetti?», domandò il giudice.
«Per un incidente stradale causato da quella donna».
«Come avrebbe causato l’incidente, visto che la signora qui presente non guida l’automobile?».
«Mia sorella è morta con il pendolo manovrato sulle fotografie da quella donna».
«Intende un orologio a pendolo…sarebbe morta con un orologio a pendolo?»
«No, no, intendo a causa di questo pendolo».
E la Mâta, di fronte al proprio avvocato, basito e impotente, porse al giudice, tardo nel capire, un rotocalco: una copia stropicciata di Cronaca Vera.
Il giudice lesse con attenzione come si fa con un documento di particolare importanza. E riprese a interrogare la Mâta.
«Dunque sua sorella Iolanda Fiocchetti sarebbe morta per malocchio o per incidente stradale?».
«Per malocchio».
«Ma non morì per incidente stradale?».
«Sì, ma l’incidente è stato causato da quella là che ha fatto il malocchio a mia sorella con il pendolo e le fotografie in suo possesso. È un’assassina!!!», urlando. Finalmente alzò gli occhi e puntò il tozzo indice contro la mamma, aggrottando ridicolmente la fronte rubizza per esprimerle odio.
A questo gesto la mamma reagì con veemenza e, come se non si fosse trovata nell’aula di un tribunale, ringhiò contro la Mâta:
«Bušèeedra, t î bušèeedraaa!». E scoppiò in un pianto dirotto. L’avvocato s’alzò prontamente per calmare e rassicurare la mamma poi la fece sedere vicino a sé, portandola a braccetto. Le cose stavano seguendo la sottile regia: le lacrime incontrollabili, impulsive, disperate, descrivevano meglio di qualsiasi racconto la persecuzione subita per anni e palesavano il disastro prodotto dalla Mâta nell’animo della mamma. Anche durante il processo la mamma era la vittima di questa donna, vivendo la sofferenza dinanzi al giudice.
Il nostro avvocato chiese di ammettere, tra le prove del processo, le registrazioni. Il giudice assentì. Avevo portato un registratore e quindi fui richiamato per fare ascoltare qualche telefonata farneticante.
Il giudice chiese alla Mâta se riconoscesse la propria voce. E confermò che era la sua. La registrazione, d’altra parte, era piuttosto buona; sarebbe stato arduo riuscire a sostenere il contrario. Furono ascoltati altri nastri presi a caso e ci imbattemmo anche in Salvatore, il palermitano, di cui la Mâta non seppe fornire chiarimenti adeguati. Forse non sapeva nemmeno chi fosse veramente.
Pareva che la Mâta fosse guidata da uno spiccato autolesionismo giacché riconosceva costantemente la veridicità dei fatti a lei contestati.
L’avvocato della Mâta mal tollerava la propria assistita, anzi ne era evidentemente infastidito, come aveva confessato in occasione di telefonata informale che era intercorsa con il nostro avvocato. Tra legali di parte opposta spesso intercorrono contatti sottotraccia. Questa complicità professionale deriva dal fatto che due medesimi avvocati si possono scambiare i ruoli di accusatore e difensore, a seconda dei processi.
Avevamo in tal modo saputo che, ogni giovedì, la Mata si presentava nello studio del malcapitato difensore senza appuntamento e, soprattutto, senza che ve ne fosse bisogno. In sala d’attesa non rimaneva spaparanzata sul divano ma ne spostava i cuscini, muoveva i quadri alle pareti per vedere il retro, frugava tra le foglie delle piante, alzava i tappeti. Quindi spargeva qui e là delle misteriose polverine facendo strani gesti. L’avvocato sperava di chiudere in tutta fretta la partita con la Mâta.
Il nostro avvocato quindi chiamò i testimoni. Deposero per ultimi i due che videro la Mâta vagare sulle scale di casa mia nel 1987, l’anziana signora che s’affacciò dalla soglia di casa e l’amico venuto in mio aiuto, il cui racconto delle circostanze fu decisivo. La Mâta, infatti, lo riconobbe e ne confermò ogni parola.
Fulmineamente l’avvocato della Mâta s’imbestialì sbattendo i pugni sul tavolo:
«Insomma, stia zitta!».
Le uniche parole che spese a difesa dell’imputata.

(Continua)

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