Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte quarantreesima

La morte fu più benigna della malattia avendo concesso alla mamma la possibilità, per tanto tempo dispersa, di esprimere appieno i propri pensieri: i miei muscoli diventarono la sua bocca, le contrazioni erano voce viva, forte, chiara, ricca di timbro, in cui ritrovavo i suoi toni. Come avviene nelle trascrizioni per solo pianoforte di una sinfonia composta per orchestra in cui il timbro degli strumenti viene perduto ma il discorso musicale e il senso della partitura originale è completamente intelligibile, così nelle conversazione ritrovavo l’essenza della mamma, ovvero la sua coscienza. Vi era il limite della lentezza nel formare le parole attraverso il mio braccio che, però, veniva compensata dalla mia collaborativa intuizione. Le contrazioni muscolari assai decise, forti, spettacolari, perfino impressionanti per chi avesse assistito alle conversazioni con la mamma, avevano probabilmente lo scopo di farmi intendere che la causa non stava in me ma esterna a me ed erano tali per contrastare la mia necessità di spiegare, dileguare, ogni semplice stato d’animo appena titubante e accettare l’evidenza della realtà. E se talvolta mi comparivano dei pensieri inaspettati che anticipavano le risposte la mamma prontamente ripeteva le parole con mioclonie potenti perché mi fosse chiaro da chi provenivano. Alla domanda se avessi potuto dialogare attraverso la scrittura ottenni la risposta netta che le contrazioni muscolari sarebbero state il solo modo di comunicare con l’Aldilà e tale sarebbe permaso anche in futuro essendo la scrittura, come il pensiero, troppo connessa alla persona, ingenerando il dubbio di essere io stesso a guidare la mano. Dovevo prendere uno dei maggiori eventi della mia vita così com’era, senza volere spiegare nulla: la mia mano e il braccio erano guidati dalla persona che più avevo amato. La madre aveva rincontrato il figlio e questo l’aveva riconosciuta. Dovevo credere. L’amica che mi aveva suggerito di pregare durante il ricovero al Bellaria, avendo visto le mioclonie durante e dopo il funerale, descrisse quanto mi stava accadendo a una psichiatra di sua conoscenza: «Se il tuo amico sta bene non deve fare nulla» concluse questa escludendo con decisione l’ipotesi del contatto ultraterreno. Le mioclonie sarebbero state conseguenza, secondo la dottoressa, di un mio conflitto interiore per la mancata accettazione della permanenza nella casa di riposo; gli scuotimenti non erano dovuti alla mamma o, comunque, a un’entità immateriale ma a una mia reazione sia al difficile passato che al percorso nell’elaborazione del lutto non ancora completato. La mia psiche avrebbe convertito quindi dolore e conflitto in una mamma ricreata dalla mia mente e questa, per dare consistenza alla mia illusione, inviato impulsi al mio braccio permettendomi di intrecciare conversazioni tra il mio io cosciente e un’altra parte dissociata di esso che inconsapevolmente avrebbe operato nel ruolo di una persona morta; e secondo la psichiatra, poiché non soffrivo di alcun disagio o disturbo, avrei potuto convivere con questa dissociazione per sempre. Sarebbe stata, dunque, una particolare modalità di lutto con la quale, anziché proseguire per un nuovo cammino da solo, continuavo a camminare su una vecchia strada ricreando in me un compagno di viaggio scomparso: la mamma incorporea. Mi parve, rispetto alla semplicità di quanto stava accadendo, una spiegazione macchinosa che escludeva, tra l’altro, non conoscendola, la mia stuporosa vita trascorsa insieme ai miei genitori. Nell’elaborare il lutto iniziai a vagare disordinatamente in differenti stati d’animo; compiuto un passo avanti ritornavo indietro disorientato perché talora mi sentivo nella stessa contrizione in cui mi trovavo poco prima della morte della mamma. Le persone veramente importanti generano una ferita che non necessariamente guarisce e, se questo avviene, rimane una cicatrice interiore. Lontano dai momenti di tristezza mi domandavo: «Ma che razza di lutto è mai questo se posso parlare con la mamma?» Se la mamma non era stata ma era ancora avrei dovuto cessare di provare dolore perché una mamma incorporea, ma vera, mi parlava in un’altra maniera e sempre mi accompagnava, anzi avrei dovuto ritenere questo una grande fortuna desiderabile da molte persone, inducendomi a considerare l’elaborazione del lutto definitivamente conclusa. Non era così: la nuova presenza incorporea della mamma attraverso le mioclonie, se da un lato mi rasserenava, dall’altro, allorché vedevo la sua poltrona vuota oppure avvertivo il desiderio di ascoltare la sua vera voce, non era sufficiente per scavalcare le mestizie del lutto. Mi mancava la presenza fisica. Avevo la memoria e l’abitudine dei sensi quali nemici. L’invisibile e il visibile, estranei per loro natura, paiono toccarsi rivelandosi il primo nel secondo in varie maniere inaspettate non rilevanti d’acchito, epifanie che non dimostrano alcunché ma sono certezza valida per il nostro animo. Al ritorno da una visita alla mamma in casa di riposo, ebbi la strana percezione di non essere solo in automobile, che il sedile accanto a me fosse occupato. A causa del vicino Mercato della Piazzola, non possedendo un’autorimessa, pareva arduo trovare un posto libero nei pressi di casa mia. Trovai, invece, un posto vuoto proprio davanti al portone del mio palazzo. Mi venne spontaneo dire sorridendo «Grazie, mamma!» e subito rammentare una specie di suo rito scaramantico, ogni volta per la stessa situazione, consistente nel lamentarsi che tutti venivano in centro con l’automobile e parcheggiavano sottraendo posti ai residenti. E come il senno di Orlando fuggì sulla Luna, non molto diversamente mi rappresentai che un’aura vitale e psichica fosse fluita dall’ingiuria occorsa al cervello della mamma raggiungendo il suo luogo naturale, cioè quello accanto a me, il più consono a lei, e avesse pronunciato le frasi facilitatrici. Dopo la morte della mamma, la piccola circostanza di trovare parcheggio al momento giusto si inverò numerose volte trasformandosi in una ricorrente e ripetuta coincidenza rivelatrice: mi piacque pensare che non erano coincidenze prive di significato perché esse richiamavano costantemente le medesime, precise, situazioni passate e che proseguivano nel presente; inoltre la ripetuta sincronicità tra la liberazione del parcheggio pochi istanti prima di ogni mio passaggio sembrava voler affermare «Io ci sono.»

(Continua)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte tredicesima

Bruna si recava ogni settimana al sanatorio Pizzardi per visitare la madre; il venerdì partiva dalla stazione ferroviaria di Vergato con il primo treno della giornata fino a Bologna, poi correva per prendere la corriera che la conduceva nei pressi del sanatorio. Raccontava a Caterina le cose accadute; la madre a sua volta dava disposizioni su tutto, elargiva predicozzi e sermoni, le faceva mangiare una parte del suo pranzo poiché non era infettiva, tanto le porzioni del sanatorio erano abbondanti. E dopo seguiva il viaggio di ritorno, in tempo per preparare la cena. A un banco di stoffe al Mercato della Piazzola, Bruna trovò un giorno quel che faceva al caso suo, una bella pezza di stoffa dal colore del cielo sull’imbrunire. Se la fece mostrare, era di rayon ma pareva seta lucida e cangiante, sufficiente per cucire un abito intero con la gonna a ruota sotto il ginocchio come quelli delle attrici. Non costava molto così Bruna comprò anche la stoffa per il sottogonna e la fodera. La mattina successiva corse con le stoffe dalla zia Teresa, nel negozio della sarta presso cui lavorava, dove anche Bruna faceva qualche ora. Cercarono fra diversi cartamodelli e idearono quello che Bruna aveva in mente: un abito come le dive cinematografiche da spianare al ballo, per la festa del paese, all’Albergo del Montone, il giorno della Domenica in Albis. Bruna voleva essere la più bella e prendersi una rivincita sul passato. Qualche settimana dopo portò con sé l’abito ancora da rifinire in una valigia per mostrarlo a Caterina. Lo indossò nei bagni del sanatorio davanti alla madre e ad altre donne in cura, sfilando come una mannequin delle Sorelle Fontana o di Maria Venturi quando proiettavano La Settimana Incom. «Così mi sembri una principessa. Ci vorrebbe una collana…mettiti le mie ingranate… e anche i miei orecchini.» Caterina la sosteneva poiché la figlia si avvicinava ai vent’anni e il matrimonio era un traguardo che nemmeno si intravvedeva. Si commosse pensando al passato, alla miseria, alla sfortuna che non la abbandonava e all’impossibilità di dare un buon futuro ai figli. E pensò a quella zingara che, davanti a casa, le mise una mano sulla schiena, non avendo voluto allungare delle monete, e dopo i polmoni si ammalarono. Caterina la strinse fortemente tra le braccia commuovendosi e, pian piano, attraversando i ballatoi del sanatorio all’aria aperta, l’accompagnò all’uscita. Tornando dall’ospedale Bruna si fermò davanti ad un negozio di calzature che esponeva delle scarpette rosse con la punta aperta. Il prezzo le fece accelerare il cuore perché era più dei risparmi nel borsellino. Ma che importava? Gli occhi esprimevano il desiderio di averle: erano perfette per l’abito. Ottenne uno sconto e così se le portò con sé a Vergato. Finalmente arrivò la Domenica in Albis. Alle otto in punto della sera, Bruna, Maria e il padre entrarono nella sala dell’Albergo Montone. Aristide indossava l’abito buono scuro, di stoffa pesante, una camicia bianca con il solino chiuso, la catena della cipolla d’acciaio che penzolava come un piccolo festone tra i bottoni e la piccola tasca del gilet. Si alzava, cavandosi il cappello in feltro con un gesto ampio, per salutare, aggiungendo un piccolo inchino. Pure Maria era nel suo abito delle grandi occasioni, bianco a pois blu con la gonna plissettata e con gli orecchini della nonna Margherita. Si sedettero in prima fila attorno a un tavolino non distante dall’orchestra. Un organetto bolognese, un clarinetto, una chitarra e un contrabbasso aprirono con un valzer veloce alla filuzzi dalla melodia banale. La pista in pochi minuti, una coppia dopo l’altra, si riempì di vita. I balli erano iniziati eppure Bruna stava seduta con il cappotto addosso dando le spalle alla pista, quasi non volesse esser vista dalla gente. Sentiva una grande agitazione: troppi sogni ad occhi aperti prima della festa, ora temeva la gente, gli sguardi invidiosi, le male parole. Le gambe pesavano come il piombo sentiva che non sarebbe mai riuscita a mettere un piede dopo l’altro sul ritmo della musica. Un momento di pausa, le coppie rimasero ferme, e quindi l’orchestra attaccò un secondo valzer. Aristide alzandosi dalla sedia si tolse allora il cappello, si inchinò davanti ad Bruna e la condusse per mano in mezzo alla sala. Accennando un inchino di galanteria con il capo, diventò il suo primo cavaliere. Eeeee ùun-duè-tre, ùun-duè-tre,ùun-duè-tre…Padre e figlia iniziarono a ruotare nel valzer. Finalmente la gente poté vedere la radiosa bellezza della ragazza. Il vestito le stava da dio. La zia Teresa guardava in mezzo alla gente: «Bruna sei bella…Se-i bel-la!», scandì portando le mani alla bocca a mo’ di megafono per farsi sentire bene. «Aristide hai fatto proprio una bella figlia!», urlò un uomo e gli altri applaudirono. Le piroette al ritmo della musica schiudevano le pieghe della gonna come un fiordaliso sotto il sole del mattino, l’aderente corpetto smanicato terminava in basso con punta, spiccavano cinque bottoni di madreperla bianchi e si chiudeva sotto il collo con un fiocchetto annodato che formava un sottile spiraglio da cui si intravvedeva il décolleté. Il blu cangiante dell’abito faceva contrasto con il vivace cremisi delle scarpe e della borsetta in raso tenuta al polso destro. Bruna era ora un’attrice del cinema come aveva sognato, solo le ingranate sbrilluccicanti di Caterina, i gioielli dei poveri, ne tradivano le origini montanare. Al termine della musica, ben quattro cavalieri l’aspettavano per una polka; Bruna essendosi rinfrancata nell’animo, disse loro, con sorridente civetteria, che con pazienza avrebbe danzato con tutti e stabilì il turno. Aristide si tolse di mezzo e, ritornato al tavolino, prese per mano Maria, non ancora invitata da alcun cavaliere, mostrando quanto gli altri uomini avrebbero dovuto fare con le donne sedute. Bruna, terminati i cavalieri, pensò di riposarsi per il tempo di un ballo. Sentì una voce da dietro: «Ci conosciamo ancora?»

(Continua)

Translator

 

You cannot copy content of this page-Non puoi copiare il testo di questo articolo