L’ombra della Rocchetta (3)

Perché la mia giovane mamma ed io ci recammo per due volte nella casa di Iris Boriani?
Il motivo era semplice ma, tutto sommato, non banale. La signora Boriani, probabilmente suggestionata dai misteri del Conte, telefonava assai spesso a mio babbo per parlare di esoterismo, spiriti e soprannaturali energie. Che c’entrava mio padre con queste cose? C’entrava molto, visto che era un mago famoso e potente. Non un mago alla Silvan, cioè un illusionista, un prestigiatore, e nemmeno un personaggio da baraccone alla Divino Otelma.
Mio padre era, invero, un mago in senso alto, un mago come Apollonio di Tiana, Merlino, Ruggero Bacone, John Dee, il Dottor Faust, Cagliostro, un uomo cioè capace di dominare forze invisibili dell’Universo ed asservire gli spiriti. L’ Ars Goetia. Un mago con una bacchetta di cristallo…però non ricordo più in quale angolo della casa io l’abbia riposta.
Ovviamente era anche chiromante, cartomante, necromante, toglieva il malocchio e segnava i malati.
Ed il babbo insegnò parte delle sue arti alla mamma.
Quanto a stranezza, i miei genitori non erano quindi da meno rispetto al Conte Mattei! E io? Nulla. Sono una persona assolutamente normale! Certi doni non si trasmettono per filiazione, a meno che, nascosti in una zona ancestrale del mio cervello, non si rivelino in futuro.
Cosicché accompagnai la mamma nella bellissima casa di Strada Maggiore appartenuta a Cesare Mattei per leggere le carte alla signora Boriani.
E venne il 1984.
In una mattina nebbiosa di un sabato novembrino, mio padre se n’era andato già da diciassette anni, trovai nella buchetta delle lettere un vaglia di cinquantamila lire. La mamma non attendeva denaro da alcuna persona ed il mittente era sconosciuto. Una donna.
Così mi recai immediatamente alla Posta per restituire la somma.
Qualche giorno dopo la donna nuovamente si palesò con una lettera in cui forniva la propria data di nascita, chiedendo aiuto a mia mamma per trovare un lavoro ed ottenere maggior fortuna. Angela Fiocchetti, così si firmava. Non avendo avuto risposta, questa donna fece le medesime richieste davanti alla soglia di casa nostra. La mamma, intuendo stranezze, non le permise di entrare e, per il lavoro, le rispose di andare all’Ufficio di Collocamento; quanto alla buona sorte, che avesse pregato e fatto buone azioni, perché queste le sarebbero ritornate indietro.
Disillusa, scontentata dalle risposte della mamma, la Fiocchetti non desistette.
Il telefono diventò l’arma della Fiocchetti contro la mamma.
E cominciò a pretendere, con toni via via più alterati, che la mamma restituisse alcune fotografie della propria famiglia, in particolare una fotografia ritraente la sorella Iolanda.
Non avevamo, ovviamente, queste fotografie.
Ben presto la Fiocchetti aggiunse anche un’accusa: qualche anno prima, con quella fotografia, mia mamma aveva «ucciso con il pendolo» la sorella Iolanda! Parole deliranti.
Queste folli accuse e le pretese sulle fotografie venivano ripetute ogni giorno. La voce inespressiva, uniforme, inquietante, della Fiocchetti diventò per la mamma un’ossessione.
Spesso anch’io prendevo la cornetta in mano e in qualche maniera tentavo invano di convincere Angela Fiocchetti che le sue accuse erano assolute fantasie:
«Voglio le fotografie! Sua madre è un’assassina!».
Chiaro e lapidario.
La mamma divenne preda dello sconforto perché, a parte l’incredibile accusa di omicidio, si rese conto che Angela Fiocchetti era una malata di mente da cui non si sarebbe liberata in fretta, tant’è che la soprannominò la Mâta, la matta. Io, invece, percepii la gravità di quella situazione con ritardo rispetto alla mamma perché, più superficialmente, pensavo che sarei stato in grado di riportarla alla ragione.
I fatti seguirono le pessimistiche previsioni della mamma.
La pazzia di Angela Fiocchetti esplose interamente il 2 gennaio 1985. Avevamo a pranzo una mia vecchia amica. Una telefonata ci interruppe: era la matta. Curiosamente l’accusa principale, più forte, più importante, sembrava ora costituita dal fatto che la mamma detenesse le fotografie della famiglia e della sorella mentre quella di presunto omicidio passò in secondo piano, quasi fosse una mera conseguenza della prima.
Da quel momento ci tamburò con il telefono. Abbandonai i tortellini e, chiedendo scusa all’amica basita, mi misi di buzzo buono per farle fare il maggior numero di telefonate possibile. Ad ogni squillo io alzavo la cornetta e poi riagganciavo immediatamente. Speravo che la Mâta non abitasse da sola e che in tal maniera qualcuno, in casa sua, si accorgesse di quello che stava combinando. Dall’ora di pranzo, il telefono squillò senza tregua per quasi duecento volte fino alla sera verso alle diciannove.
Mentre perdevo il tempo a fare ammattire la Mâta, ma forse con le mie azioni nemmeno io dimostravo tanta sanità di mente, mi sovvenne che la Mâta, sul vaglia e sulla lettera, aveva scritto l’indirizzo della propria abitazione: Via Frassinago, una strada del centro. Ricordai pure che dieci anni prima, due sorelle venivano a farsi leggere le carte da mia mamma per questioni sentimentali e sia perché amavano partecipare alle sedute spiritiche con il tavolino a tre piedi. Una si chiamava Carla, l’altra Iolanda, ma non ne conoscevamo il cognome. E se ci fosse stato qualche legame tra queste sorelle, di cui non sapevamo più alcunché da svariati anni, con la Mâta?
La mamma controllò una vecchia agenda trovando un numero telefonico che aveva indicato ‘Carla-Iolanda’. Così telefonò.
Il mio sbiadito ricordo, rigurgito della memoria, stupida e casuale associazione della strada alle balordaggini della Mâta, costituì il bandolo della matassa.

(Continua)

Buon compleanno, Nani!

Oggi è il mio compleanno. Nato il 20 gennaio 1956, ormai sono tecnicamente un anziano.
Fino all’anno scorso, appena mi svegliavo, la mamma era pronta a farmi gli auguri. Probabilmente non aveva dormito per la fregola di darmi il dono. Voleva,  doveva  essere la prima perché riteneva che i suoi auguri – gli auguri della mamma – fossero particolarmente benauguranti e perché voleva che il suo dono si distinguesse rispetto a quello di tutti gli altri, il dono della mamma.
E così il mio 20 gennaio iniziava seguendo un brevissimo copione:
«Buon compleanno, Nani», con due baci sulle guance.
«Grazie, Mami».
Ci siamo chiamati Nani e Mami per un’intera vita. I suoi regali non assecondavano miei desideri, non mi chiedeva nulla, erano imprevedibili. La mamma voleva sorprendermi, generare la sorpresa per manifestarmi il suo grande affetto, per sottolineare, una volta in più, quanto io fossi importante per lei. La mamma nella sua vita ha incontrato molte difficoltà e mi ha sempre considerato come la sua cosa più bella. La sua fortuna.
Trovato il regalo che la soddisfaceva, lo intrufolava nel suo armadio settimane prima.
Ricordo con inteso affetto ed emozione quando compii i trent’anni . Il dono mi generò una forte emozione. La mamma aveva partecipato di nascosto a un’asta televisiva aggiudicandosi un magnifico orologio da taschino del diciottesimo secolo in argento ed oro rosa; nel meccanismo c’erano rubini veri e la cipolla veniva caricata dal quadrante mediante una strana chiavetta d’argento. Ma questo non le bastò. Prese con sé la cipolla e si recò da Serrazanetti, un famoso orefice del centro che commerciava oggetti preziosi d’antiquariato, ed acquistò una pesante, grossa, catena in argento di foggia assolutamente originale.
Cosa successe quando aprii il cofanetto?
Mi commossi, ovviamente, sia per la bellezza del dono e sia, soprattutto, per quello che esso rappresentava. Era l’amore della mamma diventato reale tra le mie mani. I suoi pensieri che si erano materializzati in un magnifico oggetto. I veri doni hanno sempre dietro un qualcosa che proviene dal profondo dell’anima.
Diciotto anni fa successe, però, che la mamma il 20 gennaio non riuscisse a seguire i suoi piani per intero. Contro la sua volontà, ovviamente, perché il compleanno fu calato in un contesto di avvenimenti particolare: ero all’Ospedale Sant’Orsola.
Avevo chiesto due giorni di ferie per festeggiare in tranquillità, il venerdì e il lunedì, quest’ultimo era il giorno del compleanno. Mi alzai, portai il mio bulldog Platone a fare la passeggiata mattutina. Ritornato a casa, mia madre era uscita, accusai degli spasmi fortissimi all’addome da non potere stare in piedi. Quando la mamma ritornò a casa, chiamai un taxi e, insieme, andammo al Pronto Soccorso. Al triage il mio caso non parve che dovesse essere valutato con urgenza, i dolori erano scomparsi, e mi diedero il codice verde.
Passarono cinque ore e, finalmente, venne il mio turno. La temperatura corporea nel frattempo era salita a quasi quaranta gradi inoltre gamba e piede destro si erano molto gonfiati con un colore scarlatto.
Non riuscivo a muovermi e gli infermieri dalla sedia a rotelle mi misero sul lettino. Il medico vide la gamba, mi auscultò e poi seguì un elettrocardiogramma. Di peso mi portarono a fare una radiografia toracica. Appoggiato alla macchina dei raggi X, mi abbandonarono per effettuare l’esame. E vidi il mondo allontanarsi, sentii che la vita mi stava abbandonando.
«Sto morendo», pensai, «ma non è una cosa brutta perché non sento paura».
Delle voci lontane urlarono:
«Oh, oh, sta svenendo! Presto! Andate a prenderlo».
Non svenni né, ancor più, morii.
Fui collocato su una lettiga a rotelle e passai di fronte alla mamma. Ricordo bene il volto sbiancato e lo sguardo tutt’ a un tratto terrorizzato.
Mi condussero in una stanza della medicina d’urgenza, seguirono ben presto delle flebo e delle iniezioni all’addome.
Comparve un mio amico medico insieme alla mamma:
«Pensano che sia una tromboflebite».
«Quindi dovrò fare i fluidificanti per sempre»?
«Sì, probabilmente»
«Una bella prospettiva a quarantasette anni».
E mi lasciarono con i miei pensieri.
Era un venerdì 17.
La mattina successiva fui sottoposto all’ Ecodoppler della gamba. Non rilevarono alcun trombo, il sangue fluiva libero.
Il radiologo mi chiese:
«Per caso ha qualche scalfittura, qualche abrasione»?
«Certamente, eccola qua», mostrandogli una bella crosta sul tallone. Dieci giorni prima era caduta la neve e mi misi degli scarponi molto duri che mi procurano una vescica. Poiché in quel giorno lavoravo in pomeriggio, così rimasi per tutto il giorno senza togliermi lo scarpone e non mi disinfettai il piede. Causai un’infezione.
Il radiologo smadonnò:
«E’ incredibile che al Pronto Soccorso non distinguano un’erisipela da una troboflebite»!
L’erisipela è un’infezione profonda della pelle da stafilococco o streptococco che genera forte rossore e gonfiore.
La diagnosi mi diede un bel sollievo.
E fui trasferito nel reparto di dermatologia, con cure di antibiotici e interminabili bagni al piede a base di ittiolo.
Così trascorsi il giorno del mio compleanno in ospedale, senza che la mamma potesse festeggiarmi come voleva lei.
Da quel giorno, per scaramanzia, il giorno del compleanno l’ho trascorso sempre lavorando.
Oggi, invece, è un compleanno triste perché la mamma non abita più con me ma si trova in una casa di riposo, prigioniera della sua salute, prigioniera dell’emiplegia e dell’afasia.
Dopo un mese e mezzo, ieri mattina mi hanno dato il permesso di vedere la mamma attraverso la vetrata che s’affaccia sul giardino. Questo è stato il tempo necessario per la negativizzazione dal Covid 19 di tutti le persone residenti nella struttura, degli operatori, e per la sanificazione degli ambienti.
Mi sono recato alla casa di riposo con il batticuore.
Compatibilmente con la sua severa patologia, l’ho trovata abbastanza bene. La mamma è stata la prima a negativizzarsi al virus senza evidenziare sintomi ed anche la vaccinazione è andata via liscia.
Questa visita tanto desiderata è stato il grande regalo di compleanno che la mamma quest’anno mi ha fatto. Lei non sa che questo è stato un regalo. Non le ho detto che oggi sarebbe stato il mio compleanno per non farla piangere. Le ricorrenze possono generare sofferenza.
Il regalo della mamma mi è arrivato ma mi mancano i due baci sulle guance e l’augurio di sempre.
Però…ora io sono anche l’amministratore di sostegno della mamma e posso sostituirmi a lei. Conosco le sue intenzioni, interpreto i suoi pensieri.
In virtù di questo potere, dico quindi a me stesso, come se queste parole provenissero direttamente dalle labbra della mia amata mamma:
«Buon compleanno, Nani»!

You cannot copy content of this page