Tre millantatori all’Opera – Il soprano ferrarese (Parte prima)

«Domani, ti andrebbe d’accompagnarmi a Ferrara dalla Barioni? Ha tempo per ascoltarmi…mi farebbe una specie di audizione, insomma».

Ed io chiesi a Rufo:

«Un’audizione? All’insaputa di Mantovani? È proprio il caso di farla? Sai com’è fatto…le cose prima o poi si vengono a sapere nell’ambiente dei cantanti».

Ero perplesso. Capivo a stento quale utilità potesse avere un’audizione con un soprano senza carriera su palcoscenico. Un soprano diplomatosi a trentacinque anni, per giunta, età in cui diversi cantanti si incamminano per la via dell’irreversibile declino.

«Sì è il caso di farla», rispose Rufo indispettito, come accadeva se qualcuno avesse avuto opinioni differenti dalle sue.

E proseguì:

«Perché dovrei dirglielo? Non necessariamente Mantovani deve essere messo a conoscenza di tutto, né lo verrà mai a sapere per strade traverse. E poi, non sto mica facendo chissà che, come un’audizione con un agente teatrale, o andando da chissà chi. La Barioni è una mia compagna fuori corso. Me l’ha proposto lei. Ha piacere di sentire la mia voce. Punto e a capo». Il viaggio era definitivamente deciso.

«Insomma, vieni a Ferrara o no?».

Rufo conobbe Carmencita Romana Barioni qualche anno prima, all’Accademia di Belle Arti.

I casi della vita che l’avevano riguardata erano stati faticosi. Messa al mondo la piccola Amina Gilda, si arrabattò ad insegnare per le scuole medie del Basso Polesine dopo che il marito se ne andò senza alcuna vera, apparente, ragione. Le disse dodici parole, non una di più né una di meno.

«Devo riprendere in mano la mia vita. È tutta colpa mia…Scusatemi», questo un giorno il marito Diego le disse piangendo, mentre Carmencita Romana allattava la bambina. E questo divenne pure lo scarno racconto del suo matrimonio che Carmencita Romana ripeteva a tutti, alla madre, al prete ed anche al giudice. Senz’altre aggiunte, senz’alcun affetto, senza ricordi, mai una parola in più.

Tornò ad abitare con la madre e, divenuta professoressa di disegno in città, Carmencita Romana decise di coltivare la passione messa da parte per diverso tempo. Ricominciò, allora, a studiare canto e pianoforte con tale caparbia dedizione da essere ammessa al Conservatorio, diplomandosi nella classe di canto come soprano.

Giungemmo a Ferrara nelle prime ore del pomeriggio.

Le automobili che attraversavano Corso Giovecca si contavano sulle  dita di una mano. Vedevamo solo lente biciclette. E silenziose. Ci saremmo sentiti come dentro ad una cartolina se non fosse stato per lo schioppettare dell’Opel Ascona di Rufo. Questi rumori di marmitta ci riportarono alla vita vera.

Feci un grande sforzo durante il viaggio per interessarmi alla conversazione con Rufo poiché non distolsi mai gli occhi dalle lancette del cruscotto impolverato e le orecchie dai brutti rumori prodotti da quel rosso rudere metallico.

Non so quale buona stella ci propiziò, però l’automobile non fece dei brutti scherzi. Avremmo poi avuto il problema del ritorno a Bologna. «Se quel catorcio non riparte, male che vada, prenderemo il treno».

Alla fine, avrei conosciuto questa benedetta Barioni di cui negli ultimi giorni Rufo aveva preso a parlare più volte!

«Tanto per evitare delle domande scontate…Sai che sia parente di Daniele Barioni?», il famoso tenore ferrarese che diventò uno dei tanti eredi di Enrico Caruso al Metropolitan.

«Sì gliel’ho chiesto e ha risposto che non c’entra nulla con lui. Chiamarsi Barioni a Ferrara è un po’ come chiamarsi Rossi in ogni altro luogo».

La Barioni viveva in una graziosa casetta ottocentesca a due piani tra la Certosa e il Corso Porta a Mare.

Suonato il campanello del bel portoncino verniciato di fresco, non ci aprì la Carmencita Romana.

Era un soprano. E tutti i soprani, famosi o sconosciuti, o volere o volare, fanno le primedonne. Perfino le pescivendole se cantano nel registro femminile più acuto, si trasformano in capricciose regine che fanno attendere. L’assenza nell’attesa, si sa, accresce l’aspettativa intorno all’artista, alla diva.

Una prima donna non potrà mai accogliere, fare accomodare gli ospiti, offrire loro un caffè. Dovrà necessariamente avere una segretaria, una cameriera, un servo che la serva e la riverisca.

Agli onori di casa disbrigò, quindi, la madre della Carmencita Romana, una donnina vispa sulla settantina, sorridente, vestita in grisaglia da provincia, linda e ben stirata, gradevolmente odorosa di bucato fresco e di Colonia Etrusca, acquistata alla Standa per poche lire.

«Carmencita Romana si sta preparando». Ci offrì il caffè e delle belle porzioni di zuppa inglese.

In attesa della diva, prese a parlare a ruota libera, del più e del meno, come faceva con le altre donne quand’era in attesa seduta nell’ambulatorio dal medico per farsi scrivere qualche ricetta.

Voi venite da Bologna? Che bella città! Mio fratello ha sposato proprio una bolognese. Ecco, ecco. Io invece ho sposato uno di qua. I bolognesi non dicono che i ferraresi sanno far tutto loro? A fag tot mi con ‘na man sòla. Ahahah. Ecco ecco. Il nome Carmencita Romana? Tutta farina uscita dal sacco di mio marito che dorme qui accanto. Alla Certosa. E che gli era venuto? Un colpo. Al bar mentre giocava. Non ha mica sofferto, lui. Era così bello, ma così bello durante il funerale. Pareva dormire. Meno male che almeno ho una pensione. Ecco, ecco.

Qualche istante di commozione, soffiò il naso e asciugò le lacrime con un moccichino che nascose in mezzo al seno con contegno.

«Insomma, mamma, non tediare i miei ospiti con la solita storia del babbo…son passati ormai vent’anni! Buon giorno miei cari…», irruppe nel tinello ‘la soprano’ in medias res– così Carmencita Romana diceva non per femminismo – vestita in gran pompa come per andare a un matrimonio o a un prima comunione. O forse come ‘una soprano’ da concerti in chiesa.

«Immaginati la Pagliughi, sia in volto che nel fisico… Antica, larga quanto alta, culo e tette lievitati in pochi anni come panettoni natalizi», così Rufo mi aveva già raffigurato la Barioni, durante il viaggio, con una sintesi di grande efficacia. E concluse:

«Non che prima fosse una gran bellezza…Qualunque sia stata la vera ragione per cui l’ha lasciata, potremmo concedere al marito ogni attenuante!».

«Sei stato da Codiluppi? Hai preso gli accordi per la tesi?» chiese Carmencita Romana a Rufo, con tono leggero e svagato da prima signora della città, essendosi incrociati qualche giorno prima in un corridoio dell’Accademia prima di entrare nello studiolo del professore.

«Sì, sì, l’ho visto. Progetterò le scene di un’opera…Le nozze di Figaro. Ho iniziato a buttare giù qualche schizzo. C’è tanto da fare, è un’opera complessa, tante scene, tanti personaggi, tanti costumi…».

«E lei…lei che mi racconta?», mi guardò Carmencita Romana.

«Studia canto? Vuole fare un’audizione con me?», non comprendendo appieno il motivo per cui ero lì.

«No,no, io sono solo un cantante da vasca del bagno», risposi con spirito.

«Non canta, ma è un grande amatore…», precisò Rufo.

Seguì un istante di silenzio e Carmencita Romana scoppiò in una franca risata cristallina.

«Ahaha, meglio grande amatore che grande cantante, allora…Ahaha»

E Rufo allora, compreso l’involontario doppio senso, aggiunse divertito:

«Ahaha…Volevo dire che non canta, ma conosce bene l’opera e quando una voce è buona…e ne capisce anche di tecnica!».

«Davvero? Allora lei non la racconta giusta. Si vede dalla faccia che lei è uno che ne sa…oltre ad essere un grande amatore», e accompagnò queste parole oscillando l’indice, tanto simile ad un salamino.

La soprano si rivolse quindi al tenore:

«Ruffi, suvvia, ora tocca a te, fammi sentire la voce. Che mi canti? Anzi, che ci canti?

«Lo chiama Ruffi come un barboncino da grembo? Si farà chiamare così anche in Accademia?», mi chiesi perplesso.

La scelta cadde sulla romanza di Macduff dal Macbeth verdiano.

«Sai? Non la conosco», confessò la Carmencita Romana, «ma qualunque romanza va bene per giudicare una voce…poi Verdi non si discute».

E pensai che troppo spesso i cantanti lirici pensano solamente alle loro poche note studiate, senza possedere una vera conoscenza della musica. È come pensare solo al particolare senza avere contezza del generale. Raramente si prova piacere nel parlare di musica con un cantante.

Ah, la paterna mano non vi fu scudo, o cari,

Dai perfidi sicari che a morte vi ferîr!

Terminata la romanza, Carmencita Romana esclamò con entusiasmo:

«Che bel timbro! Dolce e al contempo assai virile. La tua voce assomiglia a quella di quel tenore spagnolo…Aragall? Hai un’altra romanza da farmi sentire?»

La scelta cadde su Che gelida manina.

Ed io pensai:

«Sta’ a vedere che non conosce nemmeno la Manina!». Se fosse successo mi sarei scandalizzato.

La Barioni invece conosceva assai bene questa romanza, anche nei dettagli musicali.

«Bene, bene. Canti bene, però…devi sempre porre attenzione al legato. Scusami il bisticcio di parole: nel Belcanto, il canto deve essere bello. Il legato fa parte della bellezza. Non è questione di soli suoni fatti bene», disse al termine della Manina, sorridendo per la soddisfazione di aver detto dei grandi concetti.

L’espressione della Barioni lasciava intendere che aveva altre osservazioni. Al tenore svanì in fretta lo smagliante sorriso esibito in tutte le occasioni possibili.

«Ruffi con chi stai studiando?».

«Studio con Floriano Mantovani, un tenore comprimario del Comunale. A lui mi ha indirizzato la maestra di pianoforte», rispose Rufo.

«Sei senz’altro destinato ad una bella carriera…ma la qualità della voce non è tutto. Tecnica, tecnica, ci vuole tecnica. Con questo materiale vocale devi fare di più e meglio», disse ‘la soprano’.

Rufo ascoltò serio senza alcuna apparente reazione, senza replicare.

«Facciamo insieme dei vocalizzi?».

Mettendo insieme tutte le osservazioni che Carmencita Romana fece durante gli esercizi, mi parve di capire che Rufo dovesse rivedere molte cose.

«Perché spingi in basso? È proprio l’opposto di quanto si deve fare per cantare in maniera ortodossa. Così cantano quelli che affondano il suono, come Del Monaco…Qualche anno di palcoscenico, un po’ di soldi e dopo…addio che t’amavo! Ti troverai con la voce appesantita e ti spariranno gli acuti. Su avvicinati a me…».

Anziché spiegare a parole, cominciò a spingere sullo stomaco di Rufo con il pugno della mano destra e con l’altra saldamente lo tratteneva alle reni.

«Ora canta…In alto, in alto, devi ritrarre l’addome e spingere verso alto. Mi-a-a-a-a-a…Mi-a-a-a-a-a. Prova!».

Il poveretto provò e riprovò, costretto tra l’entusiasmo e il pugno di quella donna :

«Mi-a-a-a-a-a…Mi-a-a-a-a-a…Scusami, Carmencita Romana…Ho una gran confusione in testa. E’ come se avessi perso l’orientamento!».

E l’altra:

«Capisco che non è possibile cambiare strada da un giorno all’altro. Devi accompagnare il diaframma nel suo movimento verso l’alto. Così spiegano i belcantisti. Garcia diceva di fare rientrare la fontanella dello stomaco e spingere in alto. Tu stai facendo l’opposto! E dovrei dirti altre cose».

Rufo annuì con la testa, come se avesse voluto dire:

«Avanti, leggimi il verdetto».

Beh. Allora. I vocalizzi si basano sulla ‘i’ e sulle ‘e’. Ecco. Sono queste le vocali che mettono avanti la voce. Le vocali chiacchierine, come diciamo noi soprani. Ecco. Poi metterai le altre vocali. Prova! La ‘u’. Lasciala perdere. Guai mai guai mai. O meglio. Con cautela, serve per affondare. E la bocca? Non devi spalancarla. Guai mai, guai mai. Tienila come in un sorriso. Il suono deve sbattere contro i denti. Insomma, non deve interessare il torace. Guai mai!Guai mai!

Insomma, se Mantovani avesse detto nero, la Barioni avrebbe controbattuto dicendo bianco, e viceversa. Questa fu una palese dimostrazione di quanto il canto e i cantanti siano in balia del relativismo e dell’approssimazione. E di loro stessi.

(Continua)

Voci nel Giorno della Memoria

Auschwitz. Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche scoprirono gli orrori del campo di concentramento e sterminio. Pochi sopravvissuti. Tra gli italiani, Primo Levi, Liliana Segre, Piero Terracina e Sami Modiano.

Lì morì un numero imprecisato di esseri umani. Forse un milione. Forse un milione e mezzo.

Cosa significa eliminare quasi un milione e mezzo di persone? Significa trasformare in deserto una città come Milano.
A cosa corrisponde uccidere quindici, venti milioni di persone? Potrebbe corrispondere allo svuotamento di tutte le principali città italiane, le più popolose.

E quest’ultimo numero sarebbe una stima aggiornata di quanti uomini, donne, vecchi, bambini,  furono uccisi dal governo nazista e dai suoi governi fantoccio.
Ebrei, oppositori politici, omosessuali, rom, sinti, testimoni di Geova, persone con problemi fisici, mentali, e tutti gli indesiderabili.

La Shoah.

Le leggi razziali.

Sessant’ anni dopo, nel 2005, le Nazioni Unite designarono che, il 27 gennaio, i Paesi dovessero commemorare le vittime dell’Olocausto.

Il Giorno della Memoria.

Ricorrenza di grande importanza: da una parte, occasione per ricordare un orribile passato, dall’altra parte, giorno dedicato alla riflessione su di un futuro che si profila sempre più incerto.
Per gli uomini e le donne che professano la religione ebraica gli eventi di quegli anni terribili sono scritti indelebilmente nel profondo del cuore.
Per tutti gli altri non è sempre così. La memoria collettiva degli uomini si mostra assai breve e labile.
Il Giorno della Memoria sembra essere, perciò, più importante per chi non professa la religione ebraica che per gli ebrei.
Appare necessario continuare a rappresentare lo sterminio nazista in tutto il suo orrore affinché le anime di chi non è ebreo non perdano la sensibilità nei confronti di queste atrocità. Per fustigare l’indifferenza. Per combattere quella pericolosa tendenza attuale rappresentata dal cosiddetto revisionismo storico.

Per evitare che la Storia si ripeta.

Penso che carnefice non fu solamente chi impartì gli ordini, chi eseguì materialmente quei crimini feroci, chi sostenne manifestamente regimi nazisti e fascisti.
Tra la gente comune stavano tanti piccoli-grandi correi, una moltitudine di gente apparentemente senza colpa che qualcosa sapeva. Che lasciò fare.
La testa bassa e il consenso – la paura – furono complementari a quei crimini.

Tenendo la schiena dritta, con il contributo di ogni individuo, la Storia avrebbe imboccato un’altra strada.

Narrerò ora di alcuni artisti lirici che, non ebrei, né vittime dei nazisti, tentarono di tenere la schiena dritta, oppure furono dissidenti nei confronti dei governi nazisti, filo nazisti e fascisti, o artisti che mai collaborarono con la propaganda di regime.

Narrerò, infine, di chi semplicemente aiutò persone in bisogno o in pericolo di morte.

Piccole storie, poche cose.

In Italia ricordiamo tre cantanti, il tenore Luigi Fort, e i due grandi soprani leggeri Toti Dal Monte e Lina Pagliughi.

Luigi Fort

Luigi Fort  (1907-1976), torinese, cantava come tenore lirico-leggero. Si ritirò dal palcoscenico allorché l’Italia cadde sotto il controllo dei tedeschi, e combatté con i Partigiani.
Lasciò definitivamente le scene agli inizi degli anni sessanta. Morì a Milano.

Toti Dal Monte

Chi non conosce Toti Dal Monte (1893-1975), almeno di nome? Il suo vero nome era Antonietta Meneghel e nacque a Mogliano Veneto. E’ meno noto che aveva uno zio di religione ebraica, Renzo Sacerdoti, quasi coetaneo. I nazisti lo catturarono. Si dice che la celebre cantante si adoperasse per salvarlo chiedendo, invano, aiuto a Claretta Petacci.

Avvenne però che, nel 1944, la Toti si esibisse davanti a Hitler e questi volle congratularsi con lei per l’esecuzione del concerto. La Toti non perse l’occasione di chiedere al Führer la liberazione dello zio. Passò poco tempo e l’artista ricevette dalla Segreteria del dittatore la comunicazione che, con rincrescimento, Renzo era morto ad Auschwitz. Il soprano nascose la fine dello zio. Solo dopo quasi tre anni Toti dal Monte trovò il coraggio di mostrare quella tragica lettera alla moglie di Renzo Sacerdoti.

Nel 1945 si ritirò dalla vita lirica e continuò come attrice goldoniana nella compagnia del grande Cesco Baseggio. Fece anche dei film, uno per tutti Anonimo Veneziano di Enrico Maria Salerno.

Lina Pagliughi

Essendo nata negli Stati Uniti, a New York, la corpulenta Lina Pagliughi  (1907-1980) non era benvista dal regime  fascista. E non volle mai cantare per i tedeschi.
Sfuggì, quindi, alle retate naziste nascondendosi nelle campagne romagnole.

Dopo la Guerra, a quarant’anni, si ritirò dalle scene dedicandosi alle esecuzioni in forma di concerto, per abbandonare definitivamente l’attività lirica nel 1956. Morì a Gatteo a Mare.

Frida Leider

In Germania, Frida Leider (1888-1975), splendido e celebre hochdramatischer Sopran berlinese, sposò il violinista ebreo Rudolf Deman. Ebbe forti pressioni affinché  si separasse dal marito. Ma si rifiutò. A lei, wagneriana di gran rango, fu impedito di cantare in tutti i teatri tedeschi.

Ritornò a Berlino dopo la Guerra, dove finì i suoi giorni.

Lotte Lehmann

Lotte Lehmann (1888-1976), soprano di storica caratura, pure lei tedesca, decise di emigrare negli Stati Uniti nel 1938. Al Covent Garden dovette rinunciare ad una produzione di Der Rosenkavalier, pur essendo la Marescialla per eccellenza (cantò, però, anche il ruolo di Oktavian), perché alcuni colleghi tedeschi di fede nazista  ebbero un comportamento intollerabile nei suoi confronti. Diventò cittadina americana.

Terminata la Guerra, Lotte Lehmann ritornò  a cantare in Europa solo per l’inaugurazione dell’Opera di Vienna, su invito del governo austriaco. Si spense a Santa Barbara, in California.

Tra i suoi allievi ricordiamo Grace Bumbry, Marilyn Horne e Carol Neblett.

Delia Reinhardt

Delia Reinhardt, (1892-1974), soprano tedesco, fece una bella carriera internazionale. Fu allontanata dai teatri sia perché aveva sposato un ebreo, sia per questioni politiche. Cadde in disgrazia. Nel 1943 la sua casa di Berlino cadde sotto i bombardamenti. Di lei si interessò Wlhelm Furtwängler e così poté cantare nei concerti ma non in opera. Solo nel dopoguerra attraverso l’interessamento di Bruno Walter le sue precarie condizioni economiche poterono migliorare. Morì vicino a Basilea.

Fernand Ansseau

Il grande tenore vallone Fernand Ansseau  (1890-1972) si ritirò dalle scene allorché i nazisti invasero il Belgio, rifiutandosi di cantare per loro.

Dal 1942 al 1944 insegnò al conservatorio di Bruxelles, per poi dedicarsi definitivamente alle sue passioni: la pesca e il giardinaggio.

Era celebre per il suo Werther. Morì nel paese natale, a Boussu-Bois.

Herbert Janssen

Il baritono Herbert Janssen  (1892-1965) nacque a Colonia. Fuggì dalla Germania perché le sue idee politiche erano assai distanti da quelle naziste. Durante una recita di Otello, nelle vesti di Jago, ebbe  un atteggiamento molto provocatorio nei confronti addirittura di Hermann Göring ed Emma Sonnemann. Il cantante si spense a New York.

Kerstin Thorborg

Il mezzosoprano svedese Kerstin Thorborg (1896-1970) troncò il suo contratto con il Teatro dell’Opera di Vienna nel 1938, dopo una recita di Tannhäuser, per dimostrare solidarietà con i perseguitati. Continuò una fulgida carriera al Covent Garden e al Metropolitan. Nel 1930 era stata notata da Bruno Walter. Essenzialmente wagneriana, cantò anche in Aida, Il trovatore, Un ballo in maschera, Samson et Dalila. Morì in Svezia.

Aksel Schiøtz

Il tenore danese Aksel Schiøtz (1906-1975) rifiutò di esibirsi in pubblico durante l’occupazione della Danimarca e cantò in concerti segreti per raccogliere fondi a favore della Resistenza. Diventò un simbolo della Resistenza danese.

Nel 1946 subì l’asportazione di un tumore all’orecchio che lo aveva paralizzato al volto e al collo. Con il sostegno di amici e parenti, soprattutto della moglie, si rimise a studiare canto diventando baritono. Morì a Copenhagen.

Max Hirzel

Seppur svizzero, il tenore  Max Hirzel (1888-1975) cantò essenzialmente in Germania. Nel 1936 dovette lasciare il teatro di Dresda e il suolo nazista in quanto era un noto oppositore politico del regime. Morì a Zurigo.

Martial Singher

Il baritono francese Martial Singher (1904-1990), divenne cognato del direttore d’orchestra Fritz Busch. Il cantante abbandonò la Francia per mettere in salvo la moglie Margareta, essendo figlia di un oppositore del regime nazista.

Dopo guai con le autorità americane, dal 1943 fece parte della Golden Age del Metropolitan. Morì a Santa Barbara, in California.

Emmy Bettendorf
Emmy Bettendorf

Il soprano tedesco Emmy Bettendorf (1895-1963) si ritirò dalle scene nel 1931 per motivi di salute. Rimase vedova nel 1938 ed ebbe difficoltà finanziarie. Per riprendere a cantare, però, le fu chiesto di iscriversi al partito nazista, ma rifiutò. La Bettendorf accettò solo il compromesso di cantare per i soldati in Polonia, Russia, Grecia ed Albania. Durante il conflitto condusse a Garmisch anche un albergo.

Nel 1947 divenne insegnante di canto al Conservatorio di Berlino e qui morì.

Anni Frind

Anni Frind (1900-1987), soprano boemo, rifiutò la tessera del partito nazista e dovette abbandonare le scene. Favorì la fuga clandestina di molti ebrei e fu interrogata più volte dalla Gestapo nonostante non esistessero prove contro di lei. Venne così messa di fronte ad un aut-aut: o cantare per i militari al fronte o essere internata in un campo di concentramento. Scelse la prima strada, cantò per qualche tempo per le  truppe, poi ritornò in patria come infermiera del padre che svolgeva l’attività di chirurgo.

Nel 1951 emigrò a New Orleans, li insegnò e morì.

Cantante di grande popolarità, espresse la sua arte sia nell’opera che nell’operetta.

Lauritz Melchior

Il celeberrimo  Lauritz Melchior  (1890-1973), danese, debuttò come baritono per diventare l’heldentenor di riferimento, forse il più grande. Le opere wagneriane costituirono il suo repertorio principale ma non disdegnò di cantare i ruoli di Otello, Samson, Radames, Canto e Turiddu.

Rifiutò ogni offerta di cantare nella Germania nazista, nonostante il diretto interessamento di Hermann Göring.

Dopo il 1933, cantò principalmente al Metropolitan di New York.

Nel 1950 lasciò questo teatro per via di grosse incomprensioni con Rudolf Bing, il famoso direttore artistico di origine austriaca ed ebraica. Melchior dimostrò belle capacità anche come attore brillante in film musicali, radio e televisione. Diventò cittadino americano nel 1947.

L’ultima apparizione in pubblico avvenne a San Francisco nel 1966, dirigendo delle musiche di Johann Strauss. Morì a Santa Monica ma riposa a Copenhagen.

Jarmila Novotna

Altro soprano fermamente antinazista fu la cecoslovacca Jarmila Novotna (1907-1994). Nacque a Praga. Donna di fascinosa bellezza, partecipò a diversi film.

Troncò ogni contratto con i teatri tedeschi fin dal 1933, e cantò in Austria fino al 1938. Invitata da Toscanini nel 1939 a cantare La Traviata negli Stati Uniti, riuscì, da lontano, a salvare l’intera sua famiglia poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Per commemorare le vittime del massacro di Lidice, villaggio raso al suolo in rappresaglia all’uccisione di Reinhard Heydrich, noto come il «boia di Praga», la Novotna incise una raccolta di canti popolari boemi. Il pianista fu un altro profugo, Jan Masaryk. Il soprano morì a New York.

Consola sapere che, in quei tempi veramente difficili ed estremi, anche nel dorato mondo dell’opera, sempre molto vicino ai potenti e ai vincenti, ci furono persone che seguirono degli ideali di libertà e umanitari.
Non tantissimi.
Ma ci furono.

 

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