Tutte le volte che ho ascoltato Umberto Grilli

E Umberto Grilli purtroppo se n’è andato.
E’ stato un tenore che ho amato molto.
Voglio fargli omaggio ricordando le opere in cui ho avuto il piacere di ascoltarlo. La prima volta avvenne in occasione della , per me, mitica Donna del lago del 1974 al Comunale di Bologna con Angeles Gulin. Mi ricordo la stupefacente facilità con cui  Grilli s’inerpicava sugli acuti, il loro volume e spessore. Per questo, con un mia compagna di liceo, lo avevamo soprannominato il Tenore Trombetta tanto per fare capire l’effetto che aveva la sua voce in teatro. E se aggiungiamo la voce di Angeles Gulin i decibel nella sala del Bibbiena veramente si sprecavano. Sembrava impossibile che tanto  suono potesse provenire da due esseri umani. Completavano il cartellone i bravi Pietro Bottazzo, senza stupire come Grilli, e Paolo Montarsolo. Scarsa la Jane Berbié.
Nel 1976 Grilli ricomparve in un bella Maria Stuarda da me tanto attesa perché insieme a lui cantavano le mie due beniamine, Angeles Gulin e Viorica Cortez. Allestimento molto cupo e ricordo l’impressionante maquillage della Cortez quale Elisabetta.
Nel 1977 nuovamente Gulin, Cortez e Grilli si trovarono riuniti nell’ Oberto Conte di San Bonifacio di Giuseppe Verdi. Vista la sua rarità, questa opera costituì un avvenimento, presi perfino un biglietto in platea per la prima rappresentazione, e poi andai anche a qualche replica. Ascoltai un grande Grilli non solo per la voce anche per via del fraseggio scolpito, schiettamente verdiano. Mi ricordo che la Gulin, in una cadenza del finale dell’opera, steccò clamorosamente. Seguì il brusio del pubblico. Il soprano spagnolo sorrise con espressione sicura – sembrava voler dire «ed ora vi faccio vedere io» – e fece cenno a Zoltan Pesko, il direttore d’orchestra, di riprendere qualche battuta prima della stecca. Rifece la cadenza con suoni che avevano del miracoloso e il teatro esplose in un incredibile applauso con ovazioni. Riuscire a trionfare grazie ad una stecca gigantesca fu un colpo di teatro. Benissimo la Cortez. Mi ricordo invece che il basso Simon Estes era quasi inascoltabile.
Nel 1979 andò  in scena, al Teatro Comunale, l’Anna Bolena. Lo considero tutt’ora uno spettacolo storico non tanto per l’allestimento, tutto sommato modesto – a quel tempo ancora non esisteva la dittatura dei registi e degli scenografi – ma per via della qualità del canto. Sia Katia Ricciarelli che Bruna Baglioni erano in forma straordinaria, voci belle, ampie timbrate così come fecero ottima figura Elena Zilio e Dimiter Petkov ma Umberto Grilli… fu a dir poco memorabile! Si provava la sensazione di una pressione sul volto generata dalla voce di Grilli; camminando sul palcoscenico, oppure allorché girava su se stesso, il Tenore Trombetta dava l’impressione del potente fascio luminoso di un faro, quasi si poteva vedere. E in più Grilli sapeva cantare: morbido, legava bene ed aveva delle belle mezze voci. Insomma, una prestazione d’altissimo livello.
Nel 1981, Grilli cantò nella Lakmé con Luciana Serra, l’unica volta in cui il famoso soprano genovese mi ha convinto veramente. Grilli fu bravo ma si sentirono le prime avvisaglie dell’imminente declino: ogni tanto l’intonazione era calante e divenne il suo tallone d’Achille.
Da quel momento le cose non furono più come qualche anno prima.
Poco dopo, nello stesso anno, ascoltai Grilli a Rovigo nel Guglielmo Tell. Fu bravo, sicuro, anche se vennero confermate le avvisaglie di cui dicevo prima. Gli altri cantanti erano Elia Padovan, Gina Longorbardo Fiordaliso, genericamente buoni, entrambi freschi del primo Concorso Callas, ed il bravo Aldo Bertolo, grande beniamino di Rodolfo Celletti.
In quell’anno seguì un’altra trasferta, a Modena, per ascoltare Grilli. Cantava in un Don Pasquale già visto a Bologna. Un cartellone di lusso con Fiorella Pediconi, vera moglie del tenore, Carlo Desderi ed Enzo Dara. Tutti cantarono bene però forse l’opera buffa per temperamento non si addiceva alle corde di Grilli.
Nel 1982 e 1983 lo ascoltai nuovamente al Teatro Comunale di Bologna, la Tosca con Sylvia Sass, brava ed interprete molto originale, e Garbis Boyagian, dalla voce timbricamente abbastanza modesta. Anche nella Tosca, Grilli fu scarsamente convincente: la sua voce era costruita per il grande melodramma ottocentesco, certamente non per Puccini.
Nel 1985, alla Rocca Brancaleone di Ravenna, Grilli fu chiamato per un Rigoletto con Juan Pons e Luciana Serra. Scene veramente brutte di Gae Aulenti: cartine geografiche da tutte le parti. Erano scene uniche, cioè le medesime cartine geografiche che venivano utilizzata anche per altre tre opere: La fanciulla del West, Cavalleria Rusticana e I pagliacci.
L’ultima volta che ascoltai Grilli fu a Ferrara nel 1987, nuovamente in Anna Bolena; se la cavò abbastanza bene ma certamente non uguagliò quella strepitosa di qualche anno prima, a Bologna. C’era una buona Carla Basto, Simone Alaimo, altro beniamino di Rodolfo Celletti, mai entrato completamente nelle mie grazie per questioni timbriche, ed una corretta Adriana Cicogna. Direi che questa Anna Bolena mi interessò essenzialmente per l’amico Fulvio Massa nel ruolo di Harvey.
Umberto Grilli avrebbe meritato una carriera sempre ai massimi livelli. Se questo non sempre avvenne fu colpa solo del destino, sicuramente non per la sua indimenticabile voce.

Tre millantatori all’Opera – Gnocco fritto e vecchi merletti

«Dov’è andato mai a rifinire? E pure era qui…non so, non so micca. Quando si cerca, la roba non salta mai fuori!»

Mantovani borbottava stizzito mentre scartabellava con affanno in una pila di spartiti messa sul pianoforte.

Rimestando le arie da opera, ribaltava le bamboline come se fossero birilli e, a mano a mano, rimetteva in piedi le sue ‘bambine’ nella loro immutabile posizione come i pezzi sulla scacchiera, con affettuosa acribia maniacale.

Trovato il foglio di musica in mezzo ad un altro, potei infine cantare La Fleur que tu m’avais jetée dalla Carmen di Georges Bizet, una delle più belle romanze per tenore. Scelsi quest’aria senza un motivo particolare, non perché avessi pensato di figurare meglio. Forse per l’amore sconfinato che ho per quest’opera. La metterei tra i sei capolavori da salvare in previsione del Diluvio Universale.

Non essendo pianista, Mantovani con l’indice destro faceva il tastino, cioè suonava la melodia che stavo cantando per controllare l’intonazione, mentre con l’indice sinistro mi dirigeva, dandomi gli attacchi, il legato e l’espressione.

Tutto questo inutilmente.

Seguivo me stesso.

Terminai la romanza e Mantovani si rivolse a Rufo:

«Sì…C’è da lavorare un po’, ma il materiale vocale non manca…» confermò, sembrando riferirsi a un discorso iniziato con Rufo prima del mio arrivo. E quindi mi guardò in faccia:

«Mi raccomando, quando canti fa’ attenzione…ci vogliono le ‘erre’. Specialmente all’inizio ed alla fine delle delle parole devono suonare per bene. Quarantamila ‘erre’…la ‘erre’ mette avanti il suono».

Intendeva che nel canto la ‘erre’ deve uscire sempre ben arrotata essendo una consonante che induce ad emettere la voce correttamente. Arrotando la ‘erre’, il suono apparirà più presente e meglio proiettato verso chi ascolta, sarà particolarmente grato all’orecchio e, talora, anche più espressivo. Nelle parole tronche la ‘erre’ deve prolungare il suono come un’eco mentre le ‘erre’ poste all’inizio anticipano il suono cantato sulla vocale. Tutti i grandi cantanti seguono questa regola.

Le mie ‘erre’, invece, stanno ben rintanate in un mondo astruso, fantastico, insieme all’ippogrifo, la manticora e il liocorno: insomma, non riesco a pronunciare questa consonante nemmeno se qualcuno mi pagasse profumatamente. Sono completamente bleso. La mia povera lingua non riesce a vibrare contro i denti, rimanendo ferma, inerte, rigida come un insipido pezzo di bollito senza salsa verde. Sostituisco questa bellissima consonante con una sorta di masticazione del vuoto. Il risultato? Un suono liquido, sfuggente. Sordo.

Quali difficoltà incontro nel pronunciare, per esempio, ‘carro armato’!

Nè il francese giova ai blesi totali come me.

E nei versi della Romanza del fiore appena cantati, messi in bocca a Don José da Henri Meilhac e Ludovic Halévy, le ‘erre’ abbondano!

A ben pensare, ora mi rendo conto quale retrogusto da profetico sillogismo avessero le parole di Mantovani. Esprimevano che avrei dovuto raggiungere una meta per me irraggiungibile, possedendo un difetto di pronunzia senza cura. Non sarei mai potuto diventare, insomma, un buon cantante.

A parte le ‘erre’, eseguii dunque l’Aria del fiore senza troppi traballoni. Voglio dire: né meglio né peggio del solito. Tullio avrebbe senz’altro espresso, con tono fermo, ben altro parere, cioè che ero stato inascoltabile.

Mantovani non delineò, invece, alcuna catastrofe. Se, da un lato, non mostrò entusiasmo per l’esecuzione della romanza, dall’altro, nemmeno la disapprovò apertamente. La mia voce forse non lo aveva colpito, forse non gli aveva suscitato tante sorprese essendo stata preceduta dall’accurata presentazione e dalle premurose raccomandazioni di Rufo affinché Mantovani mi prendesse a lezione. Mi aveva considerato suo allievo di canto prima di ascoltarmi, prima che suonassi alla porta? Fu un’audizione pro forma?

Gli domandai quale fosse il suo compenso. Cinquemila lire a lezione. Una richiesta modesta, ragionevole. Adeguata all’aleatorietà che caratterizza la buona riuscita nell’apprendimento del canto. Pur ancora studente, era una spesa che potevo permettermi. Mantovani, allora, prese l’agenda e concordammo il giorno della prima lezione.

Dalla cucina s’udì un’agitata voce femminile, dal timbro altisonante di una semidivinità della tragedia greca. Esibiva un forte accento modenese e questo ne ridimensionava il carattere di personaggio tragico:

«Florianooo, dove vai? Mi fai la puntura prima d’andare a cena?»

Mantovani si imbarazzò per questa intrusione indesiderata e rispose per traverso, sbuffando:

«Mamma, sono le sei e quaranta, dove vuoi che vadi?». Quando gli capitava di parlar forte, Mantovani impostava la voce come se dovesse cantare.

Si rivolse a noi con lieve imbarazzo spiegando quello che già avevamo capito:

«È Donna Fernanda, la mammetta. Devo farci un’iniezione…aspettate un momento».

E continuò pacatamente:

«Mamma, vieni qua che ti presento il mio nuovo allievo»

«C’hai un nuovo pirolino a lezione, Floriano? Non me lo avevi micca detto», osservò la mammetta invisibile, al di là della porta.

E lui, con poca pazienza:

«Ma che ragionate fai, mamma! Come potevo dirtelo se Rufo me lo ha presentato solo poco fa!»

«Aaaaah…Floriano, l’ha portato il scior Rufo?»

«Sì mamma, vieni che te lo presento…è un letterato!», alzando gli occhi al cielo.

Alla fine di questo dialogo a distanza, ci venne incontro Donna Fernanda ciabattando lentamente. Teneva una mano sulla schiena e l’altra contro il muro per non sbandare poiché soffriva di vertigini. Salvo il colore e l’acconciatura delle parrucche, madre e figlio sembravano due pere raccolte dallo stesso albero, solo che una era più matura dell’altra.

Il volto di Donna Fernanda luccicava per la Leocrema, liscio come quello di un bambolotto in celluloide. Non aveva una ruga. Le sopracciglia venivano suggerite da una linea sbiadita di matita marrone, mentre gli occhi erano fissi, capaci di due sole espressioni: spalancati o chiusi. Vegliare o dormire.

«Aaaaah? Ma Floriano, hai fatto gli onori di casa? Ci hai offerto un bicchiere di qualcosa a questi tuoi pirolini

«No grazie, signora Fernanda, è tardi, ora dobbiamo andare», rispose Rufo anche per me, mal frenando il riso.

«Floriano di’ bene che non faccino mica dei complimenti…avete sete, gradite un bicchier d’acqua, un vermutino, un cinzanino? Sa, sior Rufo, che l’acqua da sola a me mi fa male? Mi si blocca nello stomaco. Vero Floriano? Per digerirla devo sporcarla con un mezzo dito di vino rosso!».

Donna Fernanda e il figliolo cantante avevano strani stomaci e strane consuetudini alimentari. Seguivano un regime pernicioso per la maggior parte degli esseri umani. Si vantavano di preparare, ad esempio, un eccellente gnocco fritto, come dicevano essendo modenesi. Anzi il gnocchino.

Una pasta simile a quella del pane, fritta, che accompagna delle belle fette, sottili per esaltarne il profumo, di prosciutto, mortadella, salame, coppa, pancetta, formaggi molli e stagionati. Si mangia tutto con le mani. In allegria. Guai mai le posate!

Il nome bolognese di questa deliziosa pietanza è, invece, ‘crescentine fritte’.

Intorno alla declinazione dello gnocco fritto strologata da Mantovani e dalla sua mammetta si sarebbe potuto perfino girare un film dal titolo ‘Gnocco fritto e vecchi merletti’. Quasi una pozione velenosa, era una roba da mangiare degna di Mitridate, esiziale per i dispeptici e soggetti fegatosi, soprattutto perché, secondo l’uso in casa Mantovani, costituiva il nucleo della cena.

Il gnocchino ovvero le crescentine, dischi di pasta di pane setosa, grandi come un piattino da dessert e distese con il matterello, erano fatte con poco, acqua, farina, un po’ di latte e olio, lievito, un nulla di sale. I due irrobustivano vivacemente l’impasto con qualche cucchiata di strutto. La cottura, fritte in altro abbondante strutto, avveniva in una padella di ferro pulita solamente con la carta gialla. Pareva un oggetto pervenuto da generazioni remote, forse appartenuta a qualche alchimista modenese, tant’ era annerita.

Cotte le crescentine, dorate, apparentemente alleggerite da bolle e rigonfiamenti, i Mantovani passavano a preparare un esiziale e indigeribile companatico. L’ampia varietà di salumi e formaggi delle terre emiliane non soddisfacevano per intero i rustici gusti dei due.

Occorrevano delle uova strapazzate nello strutto avanzato dalla frittura degli gnocchini.

Ma anche questo non pareva sufficiente per placare l’appetito dei due moloch modenesi.

Nella padella di ferro veniva rosolato, con un mezzo dito di strutto, del lardo a striscette sottili. Con questo lordo liquido grasso, vischioso, abbrunato, finale trasmutazione di nobili elementi, veniva condita una terrina di radicchi verdi. Inoffensivi doni della natura, diventavano indigeribili macchine da guerra contro i succhi gastrici.

Affrontare una cena a base di gnocco fritto in casa dei Mantovani, innaffiata abbondantemente con lambrusco, costituiva una vera sfida all’apparato digerente e al buon sonno notturno. Chi arrivava vittorioso alla mattina successiva senza ausilio di canarini e turbe notturne, dava prova di incontestabile efficienza fisica.

Avvenne però che, molti anni prima dei fatti qui narrati, quando né la mammetta né Floriano ancora si abbellivano con parrucche e toupet, entrambi ebbero una severa infiammazione alle mucose della bocca. La lingua si era talmente gonfiata e coperta di tagli e afte che riuscivano a parlare malamente.

Non ci volle una grande anamnesi per trovare il bandolo del mistero: i due confessarono al medico incredulo d’aver cenato per un mese intero, ogni sera, con il gnocchino fritto nella loro mitridatica versione!

Come il volto della signora Fernanda durante il giorno era immutabile anche la voce non pareva da meno: il tono grave, monocorde e olimpico trovava nelle pause tra una frase e l’altra le uniche variazioni d’espressione. Alla fine dava l’impressione di rivolgersi ad un robot parlante con la parrucca bionda.

Donna Fernanda diede un saggio consiglio mentre il solerte tenore l’accompagnava in cucina a braccetto:

«Eeeeeh, sior Rufo sentisse quanti cric crac mi fanno le ossa…Non diventi micca mai vecchio. Sa?».

Come dare torto a Donna Fernanda ?

Io e Rufo avevamo le lacrime agli occhi. Stavamo reprimendo troppe risate.

E Mantovani, ritornato dalla cucina, si rivolse a me:

«Secondo te, quanti anni c’ha la mia mammetta

Solo gli sprovveduti fanno domande sull’età, partendo sempre dalla convinzione che gli anni siano portati egregiamente.

In questi casi, prudentemente, è sempre meglio esprimerne un numero assai minore rispetto a quanto par di vedere.

«Mah…penso che ne abbia un’ottantina!», risposi pensando di stare scarso.

E Mantovani fece un’espressione compiaciuta:

«Ne ha ottantuno! Li porta bene! Vero?», rispose lui con gli occhi pieni d’amore.

«Sì, sì, molto bene», annuimmo io e Rufo all’unisono.

In preda alle convulsioni, scendemmo le scale di corsa per ridere liberamente in strada, senza essere visti dal nostro maestro.

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