ll Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte trentanovesima

Non mi era stato possibile visitare la casa di riposo anzitempo ma, vedendola, l’idea che fosse un luogo di privazione della libertà diventò meno dura, essendo contigua a ciò che riteniamo essere vita normale: essa stava in un grande edifico semicircolare su una collinetta, a sua volta situata sotto una verde collina ripida, insieme ad abitazioni, un supermercato, la biblioteca comunale e un ambulatorio sanitario e, dall’altra parte della strada, c’era una scuola; il soggiorno della struttura dava su un giardino separato con una staccionata in legno da un piazzale circolare con intorno delle tribune, ove giocavano i bambini e, talvolta, era luogo di feste e rappresentazioni.
Essendo alla stregua di una bambina dipendente da altri, mi imposi di non provare gelosia quando la mamma principiò a porgere affettuosamente la mano sinistra per avere la stretta di qualche infermiere e di qualche operatore sanitario oppure quando si sporgeva dalla carrozzina per dare loro un bacio sulla guancia. Necessitava di avere e dare affetto. La vita in una casa di riposo, come in ogni comunità chiusa, è ripetitiva e limitata, ma per questo rassicurante; i piccoli gesti di un anziano non autosufficiente sono immensi, un passo corrisponde a cento, un frustolo di tempo corrisponde a una giornata, ogni lieve sfumatura si trasforma in un colore pieno, ogni piccolo evento diventa grande: un universo in miniatura. La mamma durante le visite, da una mezz’ora settimanale ero riuscito a ottenere visite bisettimanali che io trascinavo fino a due ore, spesso piangeva forse come effetto secondario dei farmaci ma anche perché la mia persona rappresentava ciò che rimaneva del suo vissuto rimasto fuori da quei muri. Le portavo delle cose buone dal supermercato accanto; le mangiavamo insieme facendo questo quale memoria di come eravamo stati. Smisi di parlarle di cose lontane perché sembrava ricordarle malvolentieri; mostrando le fotografie in cui era giovane, bella, volgeva lo sguardo altrove e con la mano le allontanava. Il passato sa addolorare. Il corpo si stava prosciugando a differenza dal volto che, con il trascorrere dei mesi, riapparì nobile, disteso, con dolci occhi grandi dallo sguardo espressivo, profondo, e anche la bocca carnosa ritornò ben disegnata: l’invidia per la bellezza da parte della malattia non osò oltrepassare l’ovale del suo volto. Riusciva a pronunciare solo cinque parole comprensibili, altrimenti erano suoni disarticolati impossibili da capire, echi di una lingua sconosciuta: Io, con, te, casa, cantare messe insieme a due o a tre, esse portavano in superficie i sensi di colpa che tentavo di occultare. Ritornando dalla casa di riposo guidavo l’automobile e piangevo perché, pur rendendomi conto delle condizione fisiche, e il senso della realtà avrebbe dovuto prevalere sul cuore, sentivo di non avere fatto tutto il possibile per lei; sentivo di avere scaricato su altri quello che solo io avrei dovuto fare: un prova dura per lei, una facilitazione per me. Per annullare tali pensieri ripercorrevo le vicende che in poche settimane avevano indotto a quella scelta finale e, a casa, rileggevo le cartelle cliniche per trovarne la giustificazione oggettiva oppure richiamavo le parole della geriatra dell’Ospedale Maggiore all’atto delle dimissioni agli inizi di aprile, dopo il secondo ricovero per l’ascesso cerebrale al lobo sinistro: «Ci sono diverse cose in movimento. È per questo che trasferiamo sua mamma in lungodegenza.» La frase mi parve sibillina potendo essere interpretata in due modi opposti. «Quanto tempo ancora?», feci io. «Un mese, due mese…un anno se la mamma non contrae infezioni.» La mamma, dopo la prima infezione da Covid con polmonite bilaterale, risultò positiva al virus per altre tre volte e per tre volte si negativizzò e, dopo ventotto mesi, nemmeno se ne andò a causa di questo. Fu dimessa dall’Ospedale Maggiore completamente muta e semiparalizzata ma, avendo preso coscienza del suo stato, questo le comportò sofferenza interiore, depressione, senza ancora la disperazione che si sarebbe aggiunta dopo l’isolamento al Bellaria per la polmonite da Covid. Nella clinica di lungodegenza fu ricoverata in un reparto all’ultimo piano sul cui accesso d’entrata stava un cartello su cui era scritto Reparto Vegetativi, una sorta di anticamera dell’aldilà. E dopo essere stata sistemata nella stanza, con la mano sinistra capace di muoversi prese la mia e mi guardò con occhi colmi di infinita, dolcissima, tristezza, poi afferrò la cannula della fleboclisi, la ritorse e la strinse per impedire il flusso del liquido. «No, mamma, che fai? Questa è la medicina!» Sottrassi la cannula della flebo dalla sicura stretta, ma la mamma ripeté il gesto ostile verso le cure. Chiamai gli infermieri e provai il dolore di assentire che quella mano pienamente vitale, comandata dalla sua lucida coscienza, venisse legata alla sponda del letto. Al secondo giorno, nella stanza ci trovammo pressoché soli perché l’altra degente, in quel momento senza assistenza dei parenti, era profondamente assopita. Con uno sguardo ben vigile, pur senza parole, la mamma appariva ben in contatto con il mondo esterno, soprattutto con me. Parlavo e lei seguiva con cenni del capo. «E se…»: un guizzo, un pensiero. «Mamma, hai sognato il babbo? Il babbo ti ha detto qualcosa?» Trascorse qualche secondo, lei voltò il capo verso un punto indistinto, poi mi fissò e mosse le labbra. E principiò a parlare in maniera confusa, strascicata, sfuggente. Compresi solo poche parole: «Io voglio che tu che io…» E nei giorni seguenti continuava a ripetere Io voglio che tu che io, senza che io riuscissi a comprendere il senso delle tante parole rimanenti. Evidentemente aveva in mente un preciso pensiero, cose da dirmi forse importanti come quelle di una persona in sofferenza, come le parole di una persona stanca di soffrire. Ma un pomeriggio, dopo avere somministrato il pasto cremoso nel soggiorno deserto della clinica, pulito mani e volto, dopo averla pettinata, mi sedetti accanto alla mamma sistemata su una carrozzina per farle compagnia illudendoci che quanto stava capitando fosse transitorio, a dispetto dei medici che la ritenevano, in termini poco medici, una mina vagante prossima a un urto distruttivo di sé stessa. Speravo di strappare all’incomprensibilità le parole incomprese. «Mamma, che cosa ti ha detto il babbo? Devi dirmi qualcosa?», chiesi con voce calma e carezzevole per rendere più attraente il rispondere perché talvolta mostrava svogliatezza. Seguì un silenzio prolungato; lo sguardo, dapprima disinteressato, divenne attento e via via più concentrato, corrugando le sopracciglia, verso un angolo del soffitto: fissava un punto. Era serena, sembrava vedere qualcosa o qualcuno che non la intimoriva, comunque piacevole e familiare. Fece una smorfia di dubbio, poi delle veloci rotazioni della mano sinistra, e nuovamente l’espressione dubbiosa. Nuovamente le chiesi dando per scontato che stavo interpretando veridicamente la causa di quelle reazioni: «Mamma, cosa ti dice il babbo?» A questa domanda nuovamente non rispose come se fosse stata disattenta; guardando verso quel punto, accennò un no con il capo, e corrugò nuovamente le sopracciglia. E iniziò quindi a parlare sottovoce non rivolgendosi a me ma verso quel punto con suoni disarticolati oppure con il suo linguaggio. Fissando, ascoltava, domandava, sorrideva, si commuoveva, si stupiva, si arrabbiava. E la mamma ben presto prese a peggiorare, appariva sempre più debole, respirava con maggior fatica parlando con un filo di voce. La dottoressa responsabile del reparto, indifferente alla mia preoccupazione, mi rispose: «I figli vedono ciò che il medico non vede.» Trascorsi tre giorni, la mamma si trovò nella terapia intensiva per il Covid dell’Ospedale Bellaria dove vinse la grande battaglia individuale contro la Natura che stava terrorizzando il mondo.

(Continua)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte trentottesima

I neurochirurghi del Bellaria avevano rivalutato ed escluso l’opportunità di un intervento al cervello; la mamma sarebbe quindi uscita dall’ospedale profondamente invalidata: epilettica, emiplegica alla parte destra del corpo, nutrita con un sondino naso-gastrico, afasica, aprassica e incapace di interpretare una parte del campo visivo. Come poter gioire per il presente prefigurando il futuro che la mamma e io, di riflesso, avremmo dovuto affrontare? E quanto futuro? Trascorsero pochi giorni dalla negativizzazione della Covid, le norme per il contenimento della pandemia erano state allentate permettendomi di fare interminabili camminate sui colli, dentro e intorno la città per dissipare l’energia ansiosa continuamente prodotta, che incontrai davanti alle Sette Chiese un soprano russo di nostra conoscenza assai credente: «Sono state le preghiere del figlio ad avere salvato la madre», commentò con commossa partecipazione, parole assai semplici, e al contempo particolari, dette senza sapere se fossi religioso oppure quanto lo fossi, senza sapere se fossi uso a pregare e, ancor più, senza nulla conoscere dell’esorcismo per la mamma. Mi emozionai pensando alla coincidenza dell’esorcismo con la remissione della Covid. Non potevo negare la coincidenza ma non volli supporre una sequenza di causa ed effetto tra l’esorcismo e la guarigione: il raziocinio mi impediva di farlo però il mio pragmatismo disse altra cosa e, insieme al mio cuore, mi obbligarono a ripetere l’esorcismo ogni giorno, senza più riflettervi. E solo al penultimo giorno della mamma mancai di eseguirlo. Fu dimessa dall’Ospedale Bellaria alla fine di maggio. Secondo la neurologa aveva senso e poteva sostenere una riabilitazione ma i medici e i fisioterapisti della clinica specializzata, invece, subito non intravvidero alcuna possibilità di recupero né motorio né verbale e, proprio per questo motivo, aggiunsero che mi dovevo industriare a trovare una casa di riposo perché la degenza sarebbe stata assicurata solamente per trenta giorni, non avendo senso i sessanta suggeriti dal Bellaria. Accettare l’idea della mamma fuori dalla sua casa accudita da persone che non avevano con lei alcun legame fu uno scoglio subito rifiutato, nonostante le parole di medici, parenti, amici capaci di valutare i fatti in maniera più distaccata: volendole restituire una parte di quanto mi aveva donato non ragionavo secondo il senso della necessità. Le soluzioni domiciliari per l’assistenza che avevo prefigurato vennero cancellate quando, trascorse le obbligatorie due settimane di quarantena, potei incontrare la mamma per una sola mezz’ora nel giardino della casa di cura, dopo cinquantaquattro giorni di lontananza. Vedendomi, si mise subito a piangere disperatamente, a urlare senza parole; dimenava con grande forza il capo e la metà sinistra del corpo capace di muoversi trascinando la metà inerte. E aveva il sondino naso-gastrico alla narice tenuto fermo da un cerotto. Tentai di calmarla senza risultato: pareva posseduta da un demone. Una pena. Sulla carrozzina stava mia mamma e al contempo non era lei. Riconoscevo solo il giubbino rosa con un cuore ricamato sulla sinistra e la parola love. La Covid l’aveva riplasmata: il volto era, nonostante tutte le malattie, bello, quasi ringiovanito, ma i lineamenti apparivano più duri, più affilati, la bocca e l’arco dentale, forse per il dimagrimento, sembravano più grandi di come li avevo sempre visti, i capelli, seppure diradati, s’erano scuriti. Lo sguardo filtrava con difficoltà attraverso le palpebre tenute strette da un pianto senza lacrime. Sfuggiva il mio sguardo, come se su di me ricadesse la colpa del suo stato e del ricovero. Chissà che cosa aveva vissuto? La Medicina è vessatoria se prolunga la vita senza ridare salute. Confesso che mi rivolsi a mio padre perché, con un atto d’amore, facesse terminare per sempre, in quel momento e innanzi a me, la sofferenza. Altre volte, più tardi, ripetei questo pensiero in pesante conflitto con il mio sentimento. Mi convinsi che le parole degli altri, l’impossibilità di assistere la mamma a casa, non erano contro il mio poco lungimirante egoismo ma, piuttosto, per il bene di lei. I giorni della Covid obbligavano in uno stretto vicolo da cui non era possibile arrivare ad alcuna meta: le case di riposo ancora non potevano accogliere nuovi ospiti, come ancora prevedeva il protocollo nazionale per il contenimento della pandemia; la mamma, già iscritta nella graduatoria cittadina per l’accesso alle case di riposo convenzionate con il Comune, era al trentaduesimo posto; questo avrebbe comportato, alla riapertura delle case di riposo, l’attesa di almeno un mese prima di potere essere accolta. E con un colpo di fortuna riuscii invece a prenotare una sistemazione in una casa di riposo a pagamento come soluzione transitoria, a Rastignano, sui colli cittadini. Al ritorno dalla casa di cura per la riabilitazione, informai l’assistente sociale che, dopo due settimane, sarebbe stata dimessa e questa esercitò la facoltà, concessa dalla commissione comunale, di aggiungere l’urgenza alla posizione nella graduatoria per accedere alle case protette convenzionate; il giorno successivo, dopo l’aggiornamento, la mamma era diventata seconda nella graduatoria. La coordinatrice della casa di riposo, con cui avevo preso accordi per un posto a pagamento, annullò la mia prenotazione in attesa che i servizi sociali comunali effettuassero l’assegnazione dei nuovi posti. E trascorsero appena meno di dieci minuti che squillò il telefono: era la coordinatrice salutata poco prima che, con tono lieto, mi informava della riapertura alle case di riposo aggiungendo: «Tra tre giorni possiamo accogliere sua mamma nella nostra struttura.» La mamma, durante l’attesa dell’ambulanza che l’avrebbe condotta nella nuova, definitiva, dimora, prese a disperarsi assai più di qualche giorno prima. Troppi volti estranei, troppi rumori, troppi cambiamenti, capacità ridotta di interpretare quella situazione. E troppo lontana dalla sua casa, la sua cara tana. Basta, lasciatemi in pace, non ne posso più, sembrava supplicare. Stavo tradendo la mamma. Seguendo l’ambulanza in automobile lungo i viali di circonvallazione fino a Rastignano la mente riandò agli ultimi avvenimenti, a come si erano, in pochi giorni, sviluppati incastrandosi perfettamente, come se i pezzi sulla scacchiera del destino fossero mossi da un potente giocatore, alla cui strategia non era possibile sottrarsi; la vittoria finale era un evento giusto ma anche causa di ulteriore sofferenza, una buona sorte per la quale non riuscivo a provare gratitudine verso quell’abile scacchista sentendomi io l’effettivo esecutore di una pena. Il trasferimento nella casa di riposo fu per la mamma l’inizio di una ingiusta afflizione, per me la rescissione definitiva del cordone che univa il presente al mio primo istante di vita.

(Continua)

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