Non mi era stato possibile visitare la casa di riposo anzitempo ma, vedendola, l’idea che fosse un luogo di privazione della libertà diventò meno dura, essendo contigua a ciò che riteniamo essere vita normale: essa stava in un grande edifico semicircolare su una collinetta, a sua volta situata sotto una verde collina ripida, insieme ad abitazioni, un supermercato, la biblioteca comunale e un ambulatorio sanitario e, dall’altra parte della strada, c’era una scuola; il soggiorno della struttura dava su un giardino separato con una staccionata in legno da un piazzale circolare con intorno delle tribune, ove giocavano i bambini e, talvolta, era luogo di feste e rappresentazioni.
Essendo alla stregua di una bambina dipendente da altri, mi imposi di non provare gelosia quando la mamma principiò a porgere affettuosamente la mano sinistra per avere la stretta di qualche infermiere e di qualche operatore sanitario oppure quando si sporgeva dalla carrozzina per dare loro un bacio sulla guancia. Necessitava di avere e dare affetto. La vita in una casa di riposo, come in ogni comunità chiusa, è ripetitiva e limitata, ma per questo rassicurante; i piccoli gesti di un anziano non autosufficiente sono immensi, un passo corrisponde a cento, un frustolo di tempo corrisponde a una giornata, ogni lieve sfumatura si trasforma in un colore pieno, ogni piccolo evento diventa grande: un universo in miniatura. La mamma durante le visite, da una mezz’ora settimanale ero riuscito a ottenere visite bisettimanali che io trascinavo fino a due ore, spesso piangeva forse come effetto secondario dei farmaci ma anche perché la mia persona rappresentava ciò che rimaneva del suo vissuto rimasto fuori da quei muri. Le portavo delle cose buone dal supermercato accanto; le mangiavamo insieme facendo questo quale memoria di come eravamo stati. Smisi di parlarle di cose lontane perché sembrava ricordarle malvolentieri; mostrando le fotografie in cui era giovane, bella, volgeva lo sguardo altrove e con la mano le allontanava. Il passato sa addolorare.
Il corpo si stava prosciugando a differenza dal volto che, con il trascorrere dei mesi, riapparì nobile, disteso, con dolci occhi grandi dallo sguardo espressivo, profondo, e anche la bocca carnosa ritornò ben disegnata: l’invidia per la bellezza da parte della malattia non osò oltrepassare l’ovale del suo volto.
Riusciva a pronunciare solo cinque parole comprensibili, altrimenti erano suoni disarticolati impossibili da capire, echi di una lingua sconosciuta: Io, con, te, casa, cantare messe insieme a due o a tre, esse portavano in superficie i sensi di colpa che tentavo di occultare. Ritornando dalla casa di riposo guidavo l’automobile e piangevo perché, pur rendendomi conto delle condizione fisiche, e il senso della realtà avrebbe dovuto prevalere sul cuore, sentivo di non avere fatto tutto il possibile per lei; sentivo di avere scaricato su altri quello che solo io avrei dovuto fare: un prova dura per lei, una facilitazione per me. Per annullare tali pensieri ripercorrevo le vicende che in poche settimane avevano indotto a quella scelta finale e, a casa, rileggevo le cartelle cliniche per trovarne la giustificazione oggettiva oppure richiamavo le parole della geriatra dell’Ospedale Maggiore all’atto delle dimissioni agli inizi di aprile, dopo il secondo ricovero per l’ascesso cerebrale al lobo sinistro:
«Ci sono diverse cose in movimento. È per questo che trasferiamo sua mamma in lungodegenza.» La frase mi parve sibillina potendo essere interpretata in due modi opposti.
«Quanto tempo ancora?», feci io.
«Un mese, due mese…un anno se la mamma non contrae infezioni.»
La mamma, dopo la prima infezione da Covid con polmonite bilaterale, risultò positiva al virus per altre tre volte e per tre volte si negativizzò e, dopo ventotto mesi, nemmeno se ne andò a causa di questo.
Fu dimessa dall’Ospedale Maggiore completamente muta e semiparalizzata ma, avendo preso coscienza del suo stato, questo le comportò sofferenza interiore, depressione, senza ancora la disperazione che si sarebbe aggiunta dopo l’isolamento al Bellaria per la polmonite da Covid. Nella clinica di lungodegenza fu ricoverata in un reparto all’ultimo piano sul cui accesso d’entrata stava un cartello su cui era scritto Reparto Vegetativi, una sorta di anticamera dell’aldilà. E dopo essere stata sistemata nella stanza, con la mano sinistra capace di muoversi prese la mia e mi guardò con occhi colmi di infinita, dolcissima, tristezza, poi afferrò la cannula della fleboclisi, la ritorse e la strinse per impedire il flusso del liquido.
«No, mamma, che fai? Questa è la medicina!»
Sottrassi la cannula della flebo dalla sicura stretta, ma la mamma ripeté il gesto ostile verso le cure. Chiamai gli infermieri e provai il dolore di assentire che quella mano pienamente vitale, comandata dalla sua lucida coscienza, venisse legata alla sponda del letto.
Al secondo giorno, nella stanza ci trovammo pressoché soli perché l’altra degente, in quel momento senza assistenza dei parenti, era profondamente assopita.
Con uno sguardo ben vigile, pur senza parole, la mamma appariva ben in contatto con il mondo esterno, soprattutto con me.
Parlavo e lei seguiva con cenni del capo.
«E se…»: un guizzo, un pensiero.
«Mamma, hai sognato il babbo? Il babbo ti ha detto qualcosa?»
Trascorse qualche secondo, lei voltò il capo verso un punto indistinto, poi mi fissò e mosse le labbra. E principiò a parlare in maniera confusa, strascicata, sfuggente. Compresi solo poche parole:
«Io voglio che tu che io…»
E nei giorni seguenti continuava a ripetere Io voglio che tu che io, senza che io riuscissi a comprendere il senso delle tante parole rimanenti. Evidentemente aveva in mente un preciso pensiero, cose da dirmi forse importanti come quelle di una persona in sofferenza, come le parole di una persona stanca di soffrire.
Ma un pomeriggio, dopo avere somministrato il pasto cremoso nel soggiorno deserto della clinica, pulito mani e volto, dopo averla pettinata, mi sedetti accanto alla mamma sistemata su una carrozzina per farle compagnia illudendoci che quanto stava capitando fosse transitorio, a dispetto dei medici che la ritenevano, in termini poco medici, una mina vagante prossima a un urto distruttivo di sé stessa.
Speravo di strappare all’incomprensibilità le parole incomprese.
«Mamma, che cosa ti ha detto il babbo? Devi dirmi qualcosa?», chiesi con voce calma e carezzevole per rendere più attraente il rispondere perché talvolta mostrava svogliatezza. Seguì un silenzio prolungato; lo sguardo, dapprima disinteressato, divenne attento e via via più concentrato, corrugando le sopracciglia, verso un angolo del soffitto: fissava un punto. Era serena, sembrava vedere qualcosa o qualcuno che non la intimoriva, comunque piacevole e familiare. Fece una smorfia di dubbio, poi delle veloci rotazioni della mano sinistra, e nuovamente l’espressione dubbiosa. Nuovamente le chiesi dando per scontato che stavo interpretando veridicamente la causa di quelle reazioni:
«Mamma, cosa ti dice il babbo?» A questa domanda nuovamente non rispose come se fosse stata disattenta; guardando verso quel punto, accennò un no con il capo, e corrugò nuovamente le sopracciglia. E iniziò quindi a parlare sottovoce non rivolgendosi a me ma verso quel punto con suoni disarticolati oppure con il suo linguaggio. Fissando, ascoltava, domandava, sorrideva, si commuoveva, si stupiva, si arrabbiava.
E la mamma ben presto prese a peggiorare, appariva sempre più debole, respirava con maggior fatica parlando con un filo di voce. La dottoressa responsabile del reparto, indifferente alla mia preoccupazione, mi rispose:
«I figli vedono ciò che il medico non vede.»
Trascorsi tre giorni, la mamma si trovò nella terapia intensiva per il Covid dell’Ospedale Bellaria dove vinse la grande battaglia individuale contro la Natura che stava terrorizzando il mondo.
(Continua)