Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte prima

Di Quirico e Steria, i miei nonni paterni, non conosco tanto di più dei loro nomi dal sentore di un edificio vetusto, dismesso, ricoperto di licheni e muschi a cui si abbarbica una vecchia edera che, via via, ne ammalora le condizioni. Immagino ragionevolmente che vennero al mondo intorno al 1870, anno della Breccia di Porta Pia con cui fu decretata la fine dello Stato Pontificio e la proclamazione di Roma come capitale di Regno d’Italia. Nessun ricordo personale, solo due fotografie che mi permettono di vedere i loro volti, una scattata per le nozze d’oro, l’altra nella casa di riposo, loro ultraottantenni, sotto il colonnato di quella che a quel tempo era il ricovero di villa Romita ora villa Ranuzzi, in cui, avendo io pochi mesi, la mamma mi teneva in braccio dietro alle loro spalle. Dei testi devozionali, il Manuale di Filotea del sacerdote milanese Giuseppe Riva pubblicato nel 1877, una Bibbia del 1885 e due piccole raccolte di preghiere, oltreché l’evidente prova della religiosità di Steria, sono una toccante eredità pervenutami da lei. Osservate le fotografie, vedo che dal nonno Quirico avrei ereditato i tratti del volto. La mamma mi diceva però che mio padre, con in testa un fazzoletto annodato sotto il mento, era la copia della nonna Steria e contemporaneamente che io sono la copia del babbo. E invece nelle fotografie dell’infanzia e dell’adolescenza vedo la somiglianza con la mamma. Il mio volto si è plasmato più volte nel tempo così come un rigo musicale, cambiando interprete, può essere cantato con accenti differenti? Il bagaglio dei cromosomi è solamente un punto di partenza, forse in esso è prevista anche l’evoluzione, ogni mutazione successiva.

La famiglia paterna da Riola di Vergato si trasferì a Bologna quando il babbo era poco più che in fasce, presumibilmente entro la fine del 1898, ma non ne conosco il motivo, e qui i nonni morirono ultra ottantenni. Oltre a Riccardo ebbero altri sei figli; ne conobbi uno solo di essi mentre degli altri mi è giunto appena il nome e un’immagine, giacché, ancora in mancanza di antibiotici e farmaci chemioterapici, la medicina non riuscì a curarli da complicazioni di malattie infettive e tumorali che in breve tempo li spensero.

Il nonno Quirico ebbe una storia particolare: ingaggiato per la perforazione di una delle gallerie della Ferrovia Direttissima, l’onda d’urto di un’esplosione con il tritolo fu talmente potente che, in totale assenza d’ogni sicurezza per i lavoratori, il nonno perse l’udito e la parola. Seguì un ricovero presso l’ospedale Roncati, il manicomio, sebbene non fosse matto poiché a quel tempo quello era il luogo in cui si curavano le lesioni neurologiche. Non si riscontrò alcun miglioramento quindi il nonno rimase ricoverato a lungo; si fece così benvolere che diventò contemporaneamente paziente e inserviente tuttofare dell’ospedale, con la possibilità di uscire senza limitazioni, tant’è che ingravidò la nonna Steria. Mentre in ospedale puliva una gabbia di cavie talmente gli montò la rabbia che udito e parola ricomparvero quasi per miracolo ma quel lavoro assai meno pericoloso di quello nella galleria della nuova linea ferroviaria permase quale sorta di pensione o di risarcimento e potè in siffatta maniera mantenere la famiglia.

Dell’unico zio paterno conosciuto personalmente, Dario, ricordo che era molto simpatico, che mi accompagnava al cinema, ma anche le discussioni tra i miei genitori da lui causate perché era un birichino squattrinato e i soldi, oltre a chiederli alla nonna Steria, li otteneva attraverso giri non sempre leciti. I volti degli altri zii, invece, sono arrivati a me solo con poche immagini su cui ho scritto i nomi per non dimenticarli.

E il diciottenne Riccardo fu chiamato alle armi per partecipare alla Grande Guerra. Dire che si prova orgoglio per la partecipazione del proprio padre a una guerra non è un sentimento consono a questi tempi; in me esso è mischiato anche a divertimento perché, tra i miei coetanei, assai pochi possono dire altrettanto. Mio babbo non combatté in trincea ma fu ingaggiato come autista nell’autodrappello dell’aviazione di Campoformido; con Alfredo, l’amico dai tempi di guerra, lui ragazzo del ’99, che fu presente anche all’ultima notte del babbo, sporadicamente ricordava solo gli aerei Caproni, la fame patita e le grandi difficoltà dopo la tragedia di Caporetto. Quanto mi piacevano i racconti di guerra del babbo! Alle scuole elementari, poiché nessuno dei compagni di classe poteva vantare che il proprio babbo aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale, avrei fatto bella figura con la mia maestra fissata per il conflitto e invece non ne parlavo mai perché era troppo anziano: se da un lato ero orgoglioso di lui, dall’altro la sua età smorzava il mio orgoglio poiché era più anziano del mio nonno materno Aristide.

(Continua)

 

L’ombra della Rocchetta (10-Epilogo)

Una decina di anni fa, la mamma s’affacciò sorridendo nella mia stanza con in mano una gonfia busta gialla.
«Ho trovato in fondo all’armadio questa. Contiene le fotografie che il babbo si faceva lasciare dai clienti per togliere il malocchio o per dare fortuna».
Sfogliai più di duecento fotografie invecchiate.
«Hai riconosciuto qualcuno?».
«No, nessuno».
«Per forza, hai guardato troppo distrattamente. Osserva queste fotografie per bene». Riconobbi immediatamente i volti e in un batter di ciglio capii.
«Mamma, dunque la Mâta aveva ragione?».
«Sì. Avevamo in casa le fotografie che voleva indietro…Le fotografie della Iolanda e della sua famiglia! Ma chi se lo ricordava più…morto il babbo, infilai queste fotografie nella busta alla rinfusa. Se mi fosse venuto in mente, per evitare i fastidi che abbiamo passato, gliele avrei subito restituite venticinque anni fa!».
«Non fartene una colpa. Se accadessero ora, le azioni della Mâta rientrerebbero nel reato di stalking quindi facilmente condannabili con la reclusione per diversi anni senza troppi arrampicamenti sugli specchi da parte dell’avvocato. È andata così…Tu e queste fotografie c’entrate molto poco con la Mâta. Un caso psichiatrico…aveva bisogno di perseguitare. La sua malattia cercava un bersaglio e poi ha costruito intorno a te una storia. La sua storia».
«Quando preso ho in mano queste fotografie ho sentito dei brividi per la schiena, una specie di scossa elettrica. E mi è riaffiorata in mente tutta la verità ormai morta e sepolta! Come ho potuto dimenticare…perché non ho collegato? Eppure ho una buona memoria e sono fisionomista…quante angustie avremmo evitato!», percuotendosi la fronte con il pugno. Le presi le mani. Piangeva. La abbracciai.
«Ma ora raccontami i tuoi ricordi».
«Ebbene, la madre della Mâta veniva dal babbo insieme alla Mâta e alla gemella, la Fioretta, per farle segnare».
«Ti ricordi perché le portò dal babbo?».
«Non stavano bene».
«Probabilmente la madre aveva già notato qualcosa che non andava nella testa della Mâta e dell’altra. Chiese aiuto al babbo, il migliore dei maghi, per evitare di rivolgersi allo psichiatra. Meglio togliere il malocchio delle cure in un manicomio!», congetturai. «Ma quanti anni avevano le gemelle?».
«Nove, dieci anni. E sai come arrivarono dal babbo? Ti ricordi quando tu ed io andammo dalla Contessa Fadda in Strada Maggiore? La madre della Mâta e la Iolanda erano le cameriere della Contessa. Andando avanti indietro per la casa, forse anche per curiosare, la madre vide che io facevo le carte alla sua padrona…».
«E fu dunque la Contessa a inviare la madre dal babbo per risolvere il malessere delle figlie?».
«Sì, la Contessa conosceva bene i poteri di tuo babbo».
Quindi, ancora bambino, avevo conosciuto anch’io la madre della Mâta e la Iolanda in casa della Contessa, ovvero Iris Boriani, l’ultima erede del Conte Mattei: la madre aprì la porta, mi offrì i cioccolatini in salotto mentre la mia mamma faceva le carte alla Contessa invece Iolanda era la ragazza che pettinava il gatto d’angora in cucina.
«La madre della Mâta venne in casa nostra almeno per tre volte perché le segnature, come sai, vanno ripetute. E portò al babbo le fotografie degli altri figli, fra cui quella della Iolanda, per fargli controllare con il pendolo se qualcun altro avesse il malocchio…quindi la Mâta vide il babbo usare il pendolo. Aveva visto il vero! Tuo padre ebbe la colpa di non aver restituito le fotografie dopo aver eseguito gli esorcismi…».
Mi mancarono le parole.
«Se il babbo fosse stato meno zaccolone ci saremmo evitati guai, lacrime, paure e non avremmo speso quel mare di soldi…Che Dio l’abbia in gloria». E si fece il segno della croce mandandogli un bacio con la mano per farsi perdonare.
«Il babbo conobbe mai personalmente la Contessa? Mi ricordo solo che parlavano ogni giorno per telefono».
«La conobbe qualche anno prima. Ma non con il passaparola delle persone grate per il bene ricevuto. Hai presente il Mercantone di Vergato, Primo Stefanelli, e sua moglie?».
«Come no? Ricordo bene il negozio di mobili vicino alla stazione e la moglie che spennava le galline a gambe aperte, seduta davanti all’entrata. E ricordo che da lui acquistaste la nostra camera da pranzo».
«E che faceva parte del mobilio della Rocchetta Mattei…E che la moglie di Primo Stefanelli acquistò la Rocchetta…».
«Quindi Primo Stefanelli indirizzò dal babbo la Contessa perché aveva bisogno delle sue facoltà?».
«No, la storia andò molto diversamente…».
Stefanelli, possedendo tanti soldi con la moglie Elsa Sapori, intese acquistare la Rocchetta per trasformarla in un luogo di divertimento, con albergo, ristorante e bar. Sapeva, però, che il Conte Mattei era un personaggio molto strano e che alla fine della vita andò fuori di testa. Poiché il Conte si trovava tumulato nella cappella all’interno del castello, Stefanelli, molto superstizioso, intendeva conoscere se lo spirito del Conte, dopo la trasformazione della Rocchetta in attrazione turistica, gli si fosse rivoltato contro e se gli avesse portato scalogna. Anche la Contessa, unica erede di Mattei, depositaria dei suoi segreti, aveva interesse di sapere se lo spirito avesse approvato la vendita della Rocchetta e se il via vai di turisti con bambini avesse arrecato offesa al sonno eterno del Conte. Nutrendo cieca fiducia verso mio babbo, Stefanelli lo chiamò a Riola di Vergato, prima di procedere all’acquisto del castello, per una consulenza molto particolare.
«Tuo padre entrò in contatto con l’anima del defunto in presenza della Contessa, di Stefanelli e di sua moglie. E pure io ero presente a quella seduta spiritica».
«Lo spirito quindi non si oppose, visto che la moglie del Mercantone acquistò la Rocchetta», conclusi io.
I ricordi della mamma chiarirono ogni cosa. Le varie sorti dei personaggi – il Conte Mattei, Mario Venturoli, Giovanna Maria Longhi, Iris Boriani, Primo Stefanelli, mio babbo, Angela Fiocchetti, la mamma, ed io – erano state concatenate dal destino in una sola storia all’ombra della Rocchetta!
E mio babbo, il Mago, nel bene e nel male, volente o nolente, ne fu il deus ex machina.
«Cosa devo ora fare di queste fotografie?».
«Stracciale».

(Fine)

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