La professoressa di lettere (Fine)

Alla fine della terza classe, trapelò dalla sala insegnanti la funesta indiscrezione che, in estate, la professoressa si sarebbe sposata. Fu considerato uno sgarbo imperdonabile da alcuni allievi maschi:
«Cazzo, ma come si permette?».
«Chi si crede di essere quella?».
«Ma vaaaffancùuulo!».
Il tombeur de femmes Franchi era incredulo. Se questa notizia fosse stata vera, proprio lui, che faceva goffe moine di corteggiamento alla professoressa, sarebbe stato il più danneggiato. Trovò, allora, il coraggio di chiedere con un sorrisetto:
«Prof, è vero che si sposa?».
«Sì», gelò laconicamente l’inopportuno con marcata indifferenza, senza nemmeno alzare la testa dal registro di classe mentre scriveva i cognomi degli assenti.
Sparì il sorriso all’allievo. E Franchi declassò a sua volta la Prof a insegnante di lettere di seconda scelta. Come nella celebre favola di Esopo, trovò così anche l’impudenza di dire:
«Ma non è nemmeno tutta ‘sta bellezza…che voli basso quella».
Le ragazze invece gioirono:
«Grande, Prof!»,
«Complimenti Prof!». Speravano che, tolta di mezzo l’Armenghi, qualcuno dei maschi si sarebbe finalmente accorto di loro.
Il quarto anno iniziò con un gran bailamme di professori. Dell’anno precedente erano rimaste solo l’Armenghi e l’insegnante di matematica. Alla fine di ottobre, dopo dei giorni di assenza, la professoressa ci comunicò che sarebbe stata sostituita da una supplente per il resto dell’anno scolastico. Capimmo che era in stato interessante.
«Prof, ritornerà in quinta?».
«Vedremo».
Avevamo ascoltato una sua lezione per l’ultima volta perché l’Armenghi, purtroppo, non ci condusse nemmeno alla Maturità. Nella graduatoria di istituto fu superata da una professoressa di Formia che aveva chiesto il trasferimento, affascinata da Bologna. Intese cambiare vita…a spese nostre!
Poverina, la nuova insegnante di lettere non poteva certamente reggere il confronto con l’Armenghi da alcun punto di vista. Così esprimemmo il desiderio di avere il professore di filosofia Caterino Xibilia quale commissario interno all’esame di Stato. E questi ebbe tanta personalità e forza da esautorare la nuova professoressa imponendo il programma che molti di noi allievi, sotto e oltre gli influssi dell’Armenghi, intendevamo portare all’esame. Per una volta ci illudemmo che si poteva mettere l’immaginazione al potere. Anziché la letteratura italiana e riuscimmo a spuntare una bellissima rassegna di grandi scrittori europei moderni, Oscar Wilde, Marcel Proust, Robert Musil, Gabriele D’Annunzio, James Joyce, fino al Nouveau Roman di Alain Robbe-Grillet. E tutta la classe superò brillantemente la maturità.
Iscritti all’università, io e Antonio Russo andammo più volte a trovare la professoressa Armenghi nella sua casa in pieno centro, di fronte all’Arcivescovado.
Ci accoglieva con calore, manifestando un’inaspettata complicità salottiera senza alcun alone professorale, alla pari.
La cura del figlio le rendeva difficoltoso trovare il tempo per la preparazione delle lezioni e, pur non avendo nemmeno un anno, il piccolo metteva il bastone tra le ruote durante la correzione dei compiti in classe. Aveva capito che la mamma si dedicava ad altri e, per questo, buttava per terra, stracciava, i fogli protocollo con temi e versioni da correggere. Voleva la madre tutta per sé, non disposto a condividerne il fascino con altri?
E l’arte di esser mamma toglieva tempo al suo amore per i bei libri. Subiva le esortazioni sulla lettura che fece in classe qualche anno prima.
Un pomeriggio il bambino aveva la febbre, la nostra visita fu dunque breve. L’Armenghi ci raccontò che aveva deciso di prendere due piccioni con una fava leggendo a voce alta la Storia della follia di Michel Foucault per calmare la smania del figlio e andare avanti con il libro!
Durante l’ultimo anno di liceo, Antonio Russo aveva evidenziato strani comportamenti. Alternava periodi in cui era taciturno, scontroso e dormiva sul banco a episodi di incontrollata euforia, spesso fuori luogo rispetto al contesto del momento. Queste stranezze alla fine si mimetizzarono con la frenesia della Maturità e nessuno più diede importanza a Russo. Soffriva di disturbo bipolare.
Al primo anno di Università, si iscrisse a Storia e Filosofia, i comportamenti di Russo diventarono ancor più inconsueti, si aggravarono. Occupò la casa della nonna scomparsa stipandola di libri e lì si ritirava in totale solitudine per leggere di filosofia, storia, poesia e romanzi. Passava intere settimane senza vedere anima viva, totalmente immerso nella lettura, credo che sia stato uno dei pochi ad aver letto Il capitale di Marx per intero, quindi usciva e mi telefonava per vederci.
Quando l’umore era buono parlava delle sue letture solitarie oppure leggeva, su di giri, da grossi quaderni le frasi copiate dai libri. Altrimenti passeggiava accanto a me senza parlare, preda di un’evidente inquietudine.
In un giorno di depressione mi disse con apparente consapevolezza:
«Sto male…ero un ragazzo semplice destinato a fare il calciatore, ad avere delle ragazze, una moto. E invece…l’Armenghi mi ha fatto conoscere l’Ariosto!».
E anche il senno del povero Antonio Russo se ne volò sulla Luna senza che più uno psichiatra, al posto di Astolfo, glielo riportasse indietro.
Tra la mia abitazione e quella dell’Armenghi corrono meno di ottocento metri, entrambi viviamo in centro. Eppure per quasi quattro decenni non ci siamo mai incontrati per strada.
In questi anni, prima del sonno, il mio pensiero ha rivissuto più volte, con dolce nostalgia, l’aetas aurea del liceo. Avevo tanti progetti, tante speranze, tanto futuro perché non pensavo alla finitudine delle cose. Forse la mia vita ha avuto il culmine proprio in quegli anni giovanili.
Per diverse volte mi sono detto:
«Che fine avrà fatto l’Armenghi? Sarà cambiata? L’avrò incontrata e non l’ho riconosciuta…oppure sarà capitato il viceversa!».
Nel 2013 ricevetti una telefonata in ufficio:
«Pronto…sei Marco?».
«Sì…ma tu chi sei?»
«Sono Sabrina…Sabrina Rondelli».
Riconobbi immediatamente la comare di tante telefonate pettegole alla domenica sera.
Mi emozionai e le manifestai grande gioia.
Il motivo della telefonata era quello che aveva intenzione di organizzare una cena di classe, una rimpatriata.
«Tu verresti? Verso la metà di giugno…vorrei fare anche un gruppo segreto su Facebook per tenerci in contatto».
Accettai con entusiasmo, e chiesi con inquietudine:
«Devi però dirmi subito una cosa…ci siamo ancora tutti?».
«Sì, sì, ci siamo tutti, non preoccuparti. Sai? Hanno accettato anche Xibilia e l’Armenghi. Non ho cercato altri professori. Anzi ho già incontrato l’Armenghi. È ancora bella com’era quando eravamo a scuola, sempre affascinante ed elegante!».
Passò qualche giorno e Sabrina mi invitò ad una cena in casa sua prima della rimpatriata generale al ristorante.
«Saremo in pochi, i più intimi…Ci saranno la Monica e la Lilia».
Mi avviai all’appuntamento vestito di tutto punto e, come si usa, portai un omaggio floreale per ogni signora.
Arrivai all’appuntamento in anticipo, con agitazione. Parcheggiai e mi avviai per il vialetto che conduceva all’entrata.
Vidi la professoressa confusa nella penombra del crepuscolo, accanto alla porta, e mi misi a correre verso di lei.
«Eeeh…Marco… Marco…».
Ci stringemmo in un lungo abbraccio.
«Lilia…ancora ricordo la lezione su Farinata degli Uberti!», dissi in balia della commozione.
Non era pressoché mutata, come un dipinto in cui la patina del tempo offusca i colori senza modificare le pennellate.
E però, quanto alle ingiurie degli anni, anche Sabrina e Monica se la passavano abbastanza bene.
La serata fu molto gradevole e vinsi l’imbarazzo del tu alla non più irragiungibile professoressa di lettere. Il tempo ci aveva pareggiato con perfida democrazia. E la accompagnai a casa in automobile.
La grande cena di classe fu assai piacevole, all’insegna di una festosa cordialità. Il professore di filosofia Caterino Xibilia fece, come sempre, il mattatore, seppur mitigato dalla professoressa di lettere. Così facemmo notte fonda.
Fu però l’unica riunione della classe intera, d’altra parte trentotto anni trascorsi senza il bisogno di rivederci hanno un chiaro significato: l’assenza di desiderio è mancanza d’amore. Tutto è ritornato come prima.
Per quanto mi riguarda, quell’incontro di tarda primavera mi ha fatto ritrovare Lilia nelle vesti di preziosa amica.
Le persone importanti bisogna tenersele strette.

(Fine)

Il fattore K e la parabola delle mutande (Parte ottava)

Il terzo millennio iniziò male e proseguì peggio.

I Democratici di Sinistra, ovvero il PdS brillantemente riciclato da quella gran testa della politica di Massimo d’Alema, furono ridimensionati dai favori degli elettori, dimostrandosi di essere un partito in grado di perdere anche se avessero avuto in mano asso, tre e re.

Il Paese probabilmente, seguendo una strana cupio dissolvi, doveva essere governato dall’ex Cavaliere e dal suo amico ritrovato, il Senatúr.

E la Sinistra assisteva impotente. Con le proprie politiche e le strategie auto-lesionistiche, con le scelte degli uomini sbagliati, la Sinistra si mise di buzzo buono per rendere più facile la conquista del Governo alla Casa delle Libertà e della Lega Nord. I DS e Rifondazione Comunista ebbero la grave responsabilità di aver spalancato le porte e consegnato le chiavi dello Stato Italiano a questi parvenu di Centro-Destra, anzi Destra-Centro. Per tutto questo tempo la Sinistra non è pressoché esistita, se si esclude l’intermezzo del governo Prodi II.

Fatto fuori l’ultimo tovarish italiano Romano Prodi, il sugo di pomodoro dal vivido colore rosso che condiva la pastasciutta nelle gamelle della classe operaia fu sostituita da una salsetta via via più sbiadita e delicata – il Partito Democratico di Walter Veltroni – che non urtasse i palati dei nuovi elettori di sinistra non-comunisti, più avvezzi agli hamburger di McDonald’s. Anche i dirigenti del PD strabuzzavano gli occhi  di fronte al sostantivo «comunismo», il segretario per primo, mai stato comunista. Meglio il cinema americano.

Il filosofo materialismo storico, otto lettere in verticale. Boh? Sistemiamo qualche lettera con le definizioni orizzontali

America e solo America.

Del Fattore K ne parlava pateticamente solo il capo della Casa delle Libertà, minestrina riscaldata del Polo per le Libertà.

L’ex Cavaliere fu il trionfatore delle nuove elezioni politiche.

Il Governo Berlusconi II si insediò l’11 giugno 2001. Per dieci anni si rappresentò una commedia, quasi una farsa, intitolata la «Seconda Repubblica»,  due atti che ebbero Silvio Berlusconi come indiscusso mattatore. Impotente, inefficace, esclusa da ogni intreccio, l’opposizione non appariva nemmeno come comparsa, stava seduta in platea a guardare sgranocchiando spagnolette.

Incominciarono dieci anni di Passione per molti italiani, dieci anni di propaganda elettorale senza tregua. La Casa delle Libertà, la Lega Nord e gli altri satelliti della Destra, infatti, conquistato il Governo, non smorzarono i toni praticati durante la propaganda pre-elettorale. Berlusconi e i suoi peones governavano e contemporaneamente avevano atteggiamenti ed espressioni rissosi, arroganti, più consoni ad un’opposizione estremista, che non a quella di moderati liberali come si qualificavano.

Il luogo eletto per la politica diventò la televisione. Estenuanti e inconcludenti talk-show presero ad ospitare senatori e deputati a qualsiasi ora del giorno, politici non sempre telegenici la cui attività di elezione diventò quella di apparire in televisione per fare propaganda di basso rango e urlata, anziché partecipare ai lavori del Parlamento.

Il livello della discussione si abbassò drasticamente e gli uomini della Sinistra tennero loro bordone.

Quanto parevano lontani i tempi della televisione bernabeiana con la sonnolenta Tribuna Politica di Jader Jacobelli, dove tutti ragionavano con pacatezza, signorilità e bel linguaggio! Perfino un repubblichino come Giorgio Almirante in televisione diventava un mieloso gentiluomo.

Mi veniva una stizza infinita quando quotidianamente i telegiornali raccontavano degli incontri politici ufficiali che si tenevano in casa di Berlusconi, a Palazzo Grazioli. Palazzo Chigi N.2, una casa privata diventata sede del Governo della Repubblica. Pendeva pure il tricolore dal balcone sull’entrata principale. Per quanto mi riguarda, la stizza non derivava da invidia sociale, sempre sbandierata dai ricchi, per il patrimonio di Berlusconi. Penso semplicemente che le case private non possano ospitare il governo di un paese democratico.

Le stesse cose ritornano. Così Robert Musil intitolò la seconda parte de L’uomo senza qualità. Nel 2005, si ebbe il gran ritorno di Romano Prodi: sembrò nuovamente l’uomo giusto per sconfiggere il piazzista di Arcore. Il Mortadella, però, pretese che il suo nome fosse suffragato dal consenso popolare. Stravinse le primarie del Centro-Sinistra a dispetto dei santi e dei burattinai che muovevano i fili del suo partito, i Democratici di Sinistra. Vinse Romano Prodi, ma la nuova legge elettorale, il Porcellum di Calderoli, riservò al governo di Centro-Sinistra una risicatissima maggioranza al Senato e un’ampia maggioranza alla Camera. Intermezzo sempre faticoso e con il fiato sospeso, il Prodi II durò quasi due anni anche con l’ausilio di un manipolo di vecchietti quasi centenari, i senatori a vita.

Chi ha tanto denaro cosa fa? Compera di tutto, ville, libri antichi, reperti archeologici, gioielli, qualche Monet, l’ennesimo Van Gogh, le anime umane e…i senatori della Repubblica. Così fece l’ex Cavaliere, con qualche milione di euro comperò un senatore con il piacevole risultato riflesso di congedare un governo.

E il Prodi II finì tra libagioni con champagne e una mangiata con le dita di fette di mortadella.

L’epilogo del decennio berlusconiano, invece, avvenne durante la storica serata di sabato 12 novembre 2011. Il Berlusconi IV ebbe ufficialmente almeno due convitati di pietra, il Re-Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e lo spread a 553.

Ora una parabola per raccontare il berlusconismo.

Il protagonista della piccola, sciocca, parabola sono io, Aposello, nelle vesti di berlusconista ante litteram.

Un minuscolo lacerto della mia giovinezza.

Ogni forma di limitazione o divieto scatena un desiderio di trasgredire. Si sa.

La verdura involata dall’orto accanto sembra più buona di quella acquistata al supermercato, gli amori furtivi consumati con la moglie carpita all’amico sono più coinvolgenti ed eccitanti  di quelli consumati con la propria. Esistono trasgressioni per ogni categoria umana, c’è almeno un peccato che fa soccombere ogni uomo, anche il più retto.

Anche un collezionista di musica lirica? Sì.

Il collezionista si accontenta di poco, si appaga con un peccatino. Poiché, in teatro, allo spettatore è permesso solamente di ascoltare e guardare, la massima trasgressione, fonte di piacere, consiste nel recarsi in teatro con microfono e registratore per carpire compulsivamente i suoni di questo o quello spettacolo.

L’episodio che narrerò risale al mese di agosto del 1982, un’epoca in cui l’abile ex Cavaliere si accontentava di turbare gli italiani trafficando con mattoni, televisioni e carta stampata.

Mi recai con amici a Pesaro, al Rossini Opera Festival, per assistere alla ripresa di una bella Italiana in Algeri. Avevamo visto la stessa opera con gli stessi cantanti l’anno prima ed era talmente piaciuta a noi tutti che accorremmo con l’acquolina in bocca. Portai con me un bel registratore a cassette e un grande microfono argentato.

Trovammo posto in un palco. Qui i palchi sembrano dei salottini, le pareti sono dei séparé che non arrivano in cima al soffitto, così gli spettatori possono vedere attraverso il palchetto vicino.

Al Teatro Rossini, le maschere erano zelanti quanto le spie della Stasi. Entravano nei palchi scrutando in cerca di minuscole luci, allungando il collo con pose da equilibristi per meglio vedere.

Si abbassarono le luci, entrò il direttore d’orchestra e iniziò la sinfonia. Finalmente la maschera si ritirò e la registrazione poté iniziare.

Andò tutto per bene fino alla scena del Pappataci quando, improvvisamente, mi trovai davanti degli occhi che mi guardavano. Il gatto del Cheshire che mi guardava? No. La maschera della Stasi stava davanti a me, fissandomi immobile e muto.

Non mi scomposi, continuai a tenere il microfono in mano e il registratore sulle ginocchia come se lui non fosse lì. Rimase davanti a me non so per quanto tempo e poi si dileguò dal palco accanto. Ero libero e salvo?

In fretta e furia spensi il registratore prima che l’opera finisse, misi gli apparecchi nella borsa e i nastri registrati me li infilai nelle mutande. Proprio «lì».

Mi dissi:

«Qua  non verranno mica a cercare le cassette»

Terminò l’opera, applaudii la bellissima esecuzione, con gesti enfatizzati e ipocriti per darmi coraggio.

Gli amici che erano con me non si erano accorti dell’apparizione, li ragguagliai, allorché comparve la maschera, puntualmente come un raffreddore in inverno.

«Sa che non si può registrare in teatro? Mi deve consegnare i nastri»

«Guardi che io non ho nessuna registrazione», feci io risentito.

«Come no? Ho visto con i miei occhi che lei aveva il microfono e il registratore in mano. Su mi dai i nastri»

«E’ vero, avevo il microfono e il registratore in mano ma, le assicuro, che non stavo registrando»

«Come no? Mi prende per fesso?»

«No, in maniera assoluta. Anzi, facciamo così: questa è la borsa, può guardare liberamente. Se trova dei nastri, può prenderli!», risposi con sicumera, guardandolo bene in faccia.

Eravamo alla fine della partita.

«Aaaaah questa poi!»

Il tipo la prese persa e se ne andò.

Alla fine di questo sciocco racconto dirò poco. Mi limiterò a suggerire un’interpretazione.

Questo episodio di vita copre metaforicamente un po’ tutti i protagonisti di un abbondante decennio di politica, c’è Berlusconi, ci sono i berlusconisti, c’è la gente che gli ha dato aggio.

Berlusconi e il berlusconismo rispecchiano gli aspetti grigi degli italiani.

(Continua)

You cannot copy content of this page