L’ombra della Rocchetta (4)

Sì, Carla Fiocchetti era sorella della Mâta. E Iolanda Fiocchetti, l’altra sorella, era effettivamente morta per un violento incidente stradale cinque anni prima.
Stupore e sincero dispiacere per la brutta fine di Iolanda precedettero la vera ragione della telefonata.
Carla dapprima negò la veridicità del nostro racconto:
«Ma come!…».
«Angela sa bene che è stata una disgrazia!…».
«Tu che c’entri?…».
«Che fotografie dovresti avere?…».
«E cosa c’entrano le fotografie?…».
«È impossibile!…».
«Mia sorella è timida! Non ha il coraggio…».
«Guarda sempre in basso con le braccia conserte!…».
«Abita con mia madre e raramente esce di casa!…».
«Ma non le tiri mai fuori una parola!…».
E la mamma chiosò con secca sicumera:
«Eppure è così!»
La conversazione virò quindi verso momenti tesi poiché mia mamma diede fuoco ai toni e l’altra non fu da meno, rischiando che Carla non collaborasse alla risoluzione della nostra situazione.
La mamma mi porse la cornetta del telefono e, forse per i miei toni mediatori, ovvero più ipocritamente controllati, a Carla venne il dubbio che i nostri racconti potessero avere un fondo di verità. Perché, trascorsi anni senza vederla, avremmo dovuto disturbarla raccontando quelle fandonie proprio sulla sorella Angela? Inoltre, pochi minuti prima, con quella telefonata stessa, avevamo trovato finalmente una traccia, un collegamento tra il resto del mondo e quella persona apparsa dal nulla. Rifletté. Sapeva che stava parlando con persone serie. E cambiò tono.
Carla era sposata, abitava lontano dalla casa materna di Via Frassinago; ammise, quindi, che non poteva controllare i comportamenti della sorella Angela. Apprendemmo inoltre che la Mâta e la gemella Fioretta – questa, separata dal marito, stava per conto suo – erano le più giovani di una folta schiera di fratelli, tre uomini e quattro donne. La Mâta conviveva con la madre sorda ed un fratello. Ci chiese del tempo.
E, intanto, la Mâta ogni giorno perseverava nel disturbarci, cessando solo verso le diciannove d’ogni sera e poi per l’intero fine settimana, evidentemente impossibilitata ad esprimere la propria follia da presenze indesiderate.
Preoccupato per la prostrazione di mia mamma, non avendo prospettive di soluzione, una sera, verso le diciotto, indossai il cappotto e mi recai fin davanti alla casa della Mâta come dare materia a questa ossessione. Speravo di vedere la Mata? No, speravo d’imbattermi, per parlargli, in quel qualcuno che la ostacolava. Il fratello?
L’edificio di Via Frassinago, nonostante avesse due piani con poche finestre sulla strada, era abitato da tante famiglie. Accanto al portone d’accesso stavano ben cinque numeri civici; l’edificio si sviluppava pertanto in lunghezza, con diverse rampe di scale e diversi cortili interni. Questo classico palazzo popolare bolognese costruito tra il ‘500 e il ‘600 arrivava a lambire il giardino intorno all’ospedale psichiatrico, detto in città il Novanta perché l’entrata principale stava in Via Sant’Isaia 90.
Guardai la cospicua bottoniera di campanelli, poi mi inoltrai nell’androne malamente illuminato. Salii la scala B fino al primo piano e sostai sul pianerottolo davanti all’alloggio della Mâta. Accanto all’entrata, c’era una finestra con inferriate. Una tenda impediva di scorgere l’interno della casa. Si spense la luce delle scale, questo mi permise di vedere che non filtrava alcun chiarore, nemmeno lontano. Sembrava disabitata. Se fosse arrivato qualcuno mi sarei trovato nelle grane, così speditamente me ne andai sentendomi sciocco e impotente.
Passò una quindicina di giorni che ricevemmo la telefonata promessa dalla Carla. E con un gran colpo di scena.
La donna innanzitutto si scusò per non aver dato immediatamente credito al nostro racconto. Andando a fare visita alla madre, la Carla interrogò la sorella e questa confermò il nostro racconto per filo e per segno. Le fotografie, il pendolo, l’omicidio della Iolanda. Non disposta ad andare per il sottile, la Carla causò un bel patatrac: prese per i capelli, a sberle, a calci, la Mâta cosicché questa scappò di casa! Da giorni nessuno aveva avuto più sue notizie, nemmeno la gemella Fioretta.
La Carla giurò e spergiurò che non sapeva né come né dove rintracciarla. Verità o bugia per coprire la sorella? Perché non denunciarne la scomparsa? Io pensai che la famiglia avesse perfino tirato un sospiro di sollievo per la sparizione della Mâta, così sarebbero state tante grane in meno. La Carla aggiunse che entrambe le gemelle avevano manifestato delle stranezze per cui fu necessario qualche medico. I gemelli agiscono in coppia. Quasi una giustificazione. La Fioretta, una volta separata dal marito, si era chiusa in casa con i suoi psicofarmaci, ed anche l’altra, la Mâta, aveva manifestato dei comportamenti che per un po’ furono seguiti da un neurologo. Entrambe vivevano solo con un po’ di denaro allungato loro dalla madre.
Le azioni dell’Angela erano penalmente rilevanti, osservai.
«Pagherà di tasca propria. Peggio per lei. Io devo stare dietro alla mia famiglia».
Alla fine dei conti, l’unica cosa utile di quella conversazione fu che apprendemmo il vero nome della Mata, non Angela ma Angiolina. Decisamente poco.
La mamma ed io eravamo dunque al punto di partenza, nuovamente soli contro Angiolina Fiocchetti.

(Continua)

L’ombra della Rocchetta (3)

Perché la mia giovane mamma ed io ci recammo per due volte nella casa di Iris Boriani?
Il motivo era semplice ma, tutto sommato, non banale. La signora Boriani, probabilmente suggestionata dai misteri del Conte, telefonava assai spesso a mio babbo per parlare di esoterismo, spiriti e soprannaturali energie. Che c’entrava mio padre con queste cose? C’entrava molto, visto che era un mago famoso e potente. Non un mago alla Silvan, cioè un illusionista, un prestigiatore, e nemmeno un personaggio da baraccone alla Divino Otelma.
Mio padre era, invero, un mago in senso alto, un mago come Apollonio di Tiana, Merlino, Ruggero Bacone, John Dee, il Dottor Faust, Cagliostro, un uomo cioè capace di dominare forze invisibili dell’Universo ed asservire gli spiriti. L’ Ars Goetia. Un mago con una bacchetta di cristallo…però non ricordo più in quale angolo della casa io l’abbia riposta.
Ovviamente era anche chiromante, cartomante, necromante, toglieva il malocchio e segnava i malati.
Ed il babbo insegnò parte delle sue arti alla mamma.
Quanto a stranezza, i miei genitori non erano quindi da meno rispetto al Conte Mattei! E io? Nulla. Sono una persona assolutamente normale! Certi doni non si trasmettono per filiazione, a meno che, nascosti in una zona ancestrale del mio cervello, non si rivelino in futuro.
Cosicché accompagnai la mamma nella bellissima casa di Strada Maggiore appartenuta a Cesare Mattei per leggere le carte alla signora Boriani.
E venne il 1984.
In una mattina nebbiosa di un sabato novembrino, mio padre se n’era andato già da diciassette anni, trovai nella buchetta delle lettere un vaglia di cinquantamila lire. La mamma non attendeva denaro da alcuna persona ed il mittente era sconosciuto. Una donna.
Così mi recai immediatamente alla Posta per restituire la somma.
Qualche giorno dopo la donna nuovamente si palesò con una lettera in cui forniva la propria data di nascita, chiedendo aiuto a mia mamma per trovare un lavoro ed ottenere maggior fortuna. Angela Fiocchetti, così si firmava. Non avendo avuto risposta, questa donna fece le medesime richieste davanti alla soglia di casa nostra. La mamma, intuendo stranezze, non le permise di entrare e, per il lavoro, le rispose di andare all’Ufficio di Collocamento; quanto alla buona sorte, che avesse pregato e fatto buone azioni, perché queste le sarebbero ritornate indietro.
Disillusa, scontentata dalle risposte della mamma, la Fiocchetti non desistette.
Il telefono diventò l’arma della Fiocchetti contro la mamma.
E cominciò a pretendere, con toni via via più alterati, che la mamma restituisse alcune fotografie della propria famiglia, in particolare una fotografia ritraente la sorella Iolanda.
Non avevamo, ovviamente, queste fotografie.
Ben presto la Fiocchetti aggiunse anche un’accusa: qualche anno prima, con quella fotografia, mia mamma aveva «ucciso con il pendolo» la sorella Iolanda! Parole deliranti.
Queste folli accuse e le pretese sulle fotografie venivano ripetute ogni giorno. La voce inespressiva, uniforme, inquietante, della Fiocchetti diventò per la mamma un’ossessione.
Spesso anch’io prendevo la cornetta in mano e in qualche maniera tentavo invano di convincere Angela Fiocchetti che le sue accuse erano assolute fantasie:
«Voglio le fotografie! Sua madre è un’assassina!».
Chiaro e lapidario.
La mamma divenne preda dello sconforto perché, a parte l’incredibile accusa di omicidio, si rese conto che Angela Fiocchetti era una malata di mente da cui non si sarebbe liberata in fretta, tant’è che la soprannominò la Mâta, la matta. Io, invece, percepii la gravità di quella situazione con ritardo rispetto alla mamma perché, più superficialmente, pensavo che sarei stato in grado di riportarla alla ragione.
I fatti seguirono le pessimistiche previsioni della mamma.
La pazzia di Angela Fiocchetti esplose interamente il 2 gennaio 1985. Avevamo a pranzo una mia vecchia amica. Una telefonata ci interruppe: era la matta. Curiosamente l’accusa principale, più forte, più importante, sembrava ora costituita dal fatto che la mamma detenesse le fotografie della famiglia e della sorella mentre quella di presunto omicidio passò in secondo piano, quasi fosse una mera conseguenza della prima.
Da quel momento ci tamburò con il telefono. Abbandonai i tortellini e, chiedendo scusa all’amica basita, mi misi di buzzo buono per farle fare il maggior numero di telefonate possibile. Ad ogni squillo io alzavo la cornetta e poi riagganciavo immediatamente. Speravo che la Mâta non abitasse da sola e che in tal maniera qualcuno, in casa sua, si accorgesse di quello che stava combinando. Dall’ora di pranzo, il telefono squillò senza tregua per quasi duecento volte fino alla sera verso alle diciannove.
Mentre perdevo il tempo a fare ammattire la Mâta, ma forse con le mie azioni nemmeno io dimostravo tanta sanità di mente, mi sovvenne che la Mâta, sul vaglia e sulla lettera, aveva scritto l’indirizzo della propria abitazione: Via Frassinago, una strada del centro. Ricordai pure che dieci anni prima, due sorelle venivano a farsi leggere le carte da mia mamma per questioni sentimentali e sia perché amavano partecipare alle sedute spiritiche con il tavolino a tre piedi. Una si chiamava Carla, l’altra Iolanda, ma non ne conoscevamo il cognome. E se ci fosse stato qualche legame tra queste sorelle, di cui non sapevamo più alcunché da svariati anni, con la Mâta?
La mamma controllò una vecchia agenda trovando un numero telefonico che aveva indicato ‘Carla-Iolanda’. Così telefonò.
Il mio sbiadito ricordo, rigurgito della memoria, stupida e casuale associazione della strada alle balordaggini della Mâta, costituì il bandolo della matassa.

(Continua)

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