Tre millantatori all’Opera – Scantarellatore senza stoffa

Un giorno, agli inizi di luglio, tappati per l’ora di canto nel salotto con le finestre chiuse per non infastidire i vicini, Mantovani mi mise in agitazione. «Volevo dirti che la Bonarelli mi ha chiesto di cantare a Cervia, in piazza. Un concertino per la fine d’agosto. Avevo intenzione di fare debuttare Rufo e Gabriele. Potresti cantare anche tu, se sarai pronto. Come compenso c’è una mangiata di pesce dopo lo spettacolo».

Donatella Bonarelli era la pianista del Circolo Lirico, detto da noi ‘La casa del cane’. Una pianista monocratica perché decideva in tutto e per tutto il programma dei concerti che si tenevano ogni domenica pomeriggio e qualche festa comandata. Le avevamo affibbiato il soprannome l’Immarcescibile Bonarelli oppure, in breve, ‘L’Immarcescibile’. Se non avesse avuto i capelli tinti con la cocciniglia per gli aperitivi analcolici e gli occhiali tempestati di brillantini, la Bonarelli si sarebbe assomigliata a Romano Prodi come una goccia d’acqua, perfino nel timbro rauco della voce e nei modi da curato di campagna.

«Mio babbo mi ha sempre detto di stare dalla parte degli operai», diceva la Bonarelli ma, quanto a generosità, il suo portafoglio non seguiva i saggi insegnamenti paterni, essendo assai tirata. Come spesso accade tra gli artisti di moderato fulgore.

La sola prospettiva di quel concerto a Cervia, l’averlo solo nominato, m’aggiunse in meno di un batter d’occhio sudore di strizza al sudore per il caldo e sentii anche quelle fitte alla pancia che tormentarono il povero Mantovani durante la Turandot areniana.

Avrei voluto partecipare a quel concerto solo per non sentirmi da meno rispetto agli altri due ma, contemporaneamente, non avrei mai voluto su di un palco per la paura di trovarmi innanzi alla folla di spettatori. Un contrasto inconciliabile da opera metastasiana.

Avvertii, con certezza matematica, assoluta, che il canto non apparteneva al mio essere. Per un po’, avevo dimenticato che per l’opera lirica ero un misero cantante da stanza da bagno senza pubblico. Uno scantarellatore senza pretese.

Lo studio del canto era stata solo un’opportunità per consolidare le nuove amicizie, nuovi legami.

Non potevo nemmeno nascondermi che, se fossi stato escluso da quella festa in piazza con Rufo e Gabriele, questo sarebbe stato uno smacco per il mio grande amor proprio. L’esclusione porta con sé un poco di umiliazione.

Avrei voluto salvare capra e cavoli.

Come riuscire a non fare senza rinunciare? Senza dire?

Decisi di attendere sperando con tutte le mie energie che il concerto fosse andato con le gambe all’aria per un qualsiasi intoppo del caso. Un temporale, una dissenteria generale!

«Fai che non si faccia, fai che non si faccia, faccia che non si faccia», ripetevo dentro di me con la speranza che qualche santo ascoltasse e mi facesse una grazia.

Passò l’intero mese di luglio senza che Mantovani avesse alcuna conferma dall’Immarcescibile.

Venne anche agosto. Rufo se ne andò in vacanza ma, purtroppo, sarebbe ritornato giusto in tempo per il concerto.

Dopo Ferragosto decisi, così, di telefonare a Mantovani senza far parola del concerto, un apparente saluto di cortesia.

«Sai che la Bonarelli non mi ha ancora chiamato per il concerto? Pensavo di farti cantare un’aria facile facile dal Parisotti…Caro mio ben. Faremo annunciare che stai debuttando». Avrei dunque cantato.

Non posso soffrire quest’arietta, spesso cantata come primo brano musicale per scaldare la voce:

Caro mio ben

Credimi almen

Senza di te

Languisce il core

Mi dissi:

«Caro mio ben durante una festa in piazza mentre cuociono piadine e friggono salsicce con le cipolle? Spero che mi venga una laringite».

E poi ho sempre odiato gli annunci che giustificano la salute di un cantante.

«Si avvisa il gentile pubblico che stasera il tenore Tizio canterà il ruolo di Sempronio nonostante la sua indisposizione. La Direzione di questo Teatro ringrazia sentitamente il signor Tizio per la collaborazione».

Io ho sempre pensato che chi è ammalato debba starsene a letto! Così come un allievo scarso è bene che studi prima di farsi compatire in pubblico. Annunciare che un cantante sta debuttando, così come annunciare l’indisposizione per un altro in carriera, significa mettere le mani avanti, è come dire:

«Se farà schifo compatitelo ma non fischiatelo. E portate pazienza», oppure

«E mo’ so’ tutti c… vostri!»

Mantovani aggiunse:

«Qualche giorno prima del concerto verrai da me per preparare la romanza e mettere a posto le ‘erre’… Faremo lezione a gratis. Le prove prima dei concerti non non si pagano. Non sono micca come quella plumona della Bonarelli, io. Quella chiede dei soldi per le prove dei concerti organizzati da lei…ti farebbe pagare anche per andare a spandere acqua in casa sua. Ma con me non la spunta micca, sai. Andremo insieme da quella strega a gratis».

Trascorsa un’ora, mi telefonò Rufo dal luogo delle vacanze.

«Sai qualcosa da Mantovani? Devo ritardare il ritorno di qualche giorno…gli dirò che non riuscirò ritornare in tempo per il concerto. E poi debuttare all’aperto proprio durante una festa di paese…ti pare una bella cosa?»

Sentivo la voce lontana e disturbata, ma intesi bene quel che mi interessava. Mi sarei messo a ballare per la gioia.

«E se anche Gabriele…», pensai in preda ad un presentimento pieno di speranze. Lo chiamai al telefono.

Parlava a stento. Il giorno prima gli era scoppiata una tonsillite con delle belle placche per tutta la gola. Febbre a quaranta da curare con sei giorni almeno di antibiotici e tachipirina a volontà.

«Che peccato! Avrei proprio cantato volentieri. E poi c’era la mangiata di pesce…Oggi telefonerò al maestro. Anche se guarissi in tempo, non me la sento proprio di cantare all’aperto. Se mi si raffreddasse il sudore addosso rischierei una ricaduta».

Gabriele era il beniamino di Mantovani e lo preferiva di gran lunga a Rufo. Il maestro diceva sempre che se questo aveva la voce bella e potente, una bella presenza, l’altro sapeva dire belle frasi, faceva le mezze voci e soavi filature.

«La voce non ha la stessa qualità di quella di Rufo, ma Gabriele sa cantar bene e sa ruffianarsi il pubblico. L é un artèsta».

Non mi dolsi per le placche all’erede di Tito Schipa.

«Mors tua vita mea», pensai, senza scrupoli e con sincera contentezza. Dopotutto nessuno era mai morto per un banale mal di gola. A mia conoscenza, almeno. E poi, con la scusa di lenire il dolore alle tonsille, si rimpinzava di gelati dalla migliore gelateria. Quasi un chilo al giorno.

Il concerto a Cervia era nato evidentemente sotto una stella infausta.

Subito dopo aver saluto Gabriele mi chiamò Mantovani inalberato oltre ogni misura.

«Che pezzente la Bonarelli! Voleva darmi solo ottantamila lire per quattro arie e tre duetti! Mi ha detto che non ci sono soldi…Neanche la metà della metà di quello che prendo. Almeno darmi il rimborso della benzina e dell’autostrada…e poi voleva venire in macchina con me. ‘Sta bèla gnòca non apre mai il portafoglio per le spese del viaggio. Non ho micca bisogno di cantare a gratis per i suoi begl’occhi. E sai cosa mi ha anche detto? Che avrebbe chiamato Livraghi! Ed io le ho riattaccato il telefono. Ho fatto bene?», starnazzò al telefono.

«Certo Floriano, non ha una sola ragione…ma ne ha mille», risposi soffiando sul fuoco, se mai ce ne fosse stato bisogno. Mi sentivo Jago.

Le vicende intorno allo sfortunato concerto a Cervia non finirono qui.

Il giorno dopo Mantovani mi telefonò strepitando come un falco in volo:

«Allora sai che pugnetta m’ha fatto Cla brótta schiva d una pòrza d una cocott d un cûl strazè della Bonarelli? Da due settimane Cervia è stata riempita di cartelli che riportano un concerto con Pericle Livraghi e tre suoi allievi… E’ il nostro concerto! Quella busonaccia stava in due paia di scarpe e ha fatto di tutto perché fossi io a rinunciare…si è inventata tutto. Una falsa. Figurati se Livraghi si sposta per ottantamila lire!»

«Chi le ha riferito di quei cartelli?», gli chiesi.

«La signora Romea, una nostra vicina che ha una casa là, a cui avevo detto di venirmi a sentire in piazza. Mi ha chiamato ieri sera per sapere quando avrei cantato. La Bonarelli mi ha fatto fare una brutta figura anche con la Romea…», rispose sempre surriscaldato.

«L’ho mandata a fare dei gioielli sui viali!»

Si chiuse la parentesi del concerto a Cervia sotto un fugace temporale di grevi parole al posto della grandine.

Trascorso qualche giorno, L’Immarcescibile Bonarelli invitò Mantovani ad una Festa dell’Unità:

«Andrò a cantare per i papaveri» rise soddisfatto. E tutto riprese come prima, come altre volte.

Caro lettore, il mese di agosto del 1980 però non terminò senza lasciare un segno definitivo: sia le scantarellate casalinghe che le lezioni di canto avevano per me le ore contate.

Avvenne che dopo la telefonata di Mantovani seguì quella di Tullio:

«Novitàaaa?»

Gli narrai ciò di cui l’avevo tenuto all’oscuro, il concerto a Cervia. Ci facemmo due risate alle spalle di Mantovani e dell’Immarcescibile.

«Ti va di fare una scantarellata? Potremmo fare Suoni la tromba intrepido»

Perché non avrei dovuto? Non scantarellavamo insieme da diversi mesi. E, soprattutto, Tullio non mi aveva ancora sentito nella nuova veste baritonale. E poi, ormai, quanto mi poteva interessare il suo giudizio?

Trascorse poco più di mezz’ora e

driiiiinnn,

Tullio suonò alla porta, curioso di sentirmi più di una scimmia appassionata di lirica.

Feci per prima Ah per sempre io ti perdei, i soliti Puritani, quasi il prezzemolo della corda baritonale.

Il cavilloso sgranò i chiari occhi felini senza fare le smorfie a cui mi ero abituato.

Non capendo il significato dell’espressione, gli chiesi:

«Allora, cosa te ne pare?».

Il giudizio fu abbasyanza positivo. Così almeno mi parve.

«Sei molto cambiato… Gli acuti vanno meglio, e il timbro non è per niente tenorile, anzi… Un vero baritono».

A mia volta sgranai gli occhi.

«Non mi credi?», mi chiese Tullio.

«Perché non registri, così ti rendi conto?»

Caro lettore, perché non avrei dovuto registrarmi? Anzi sarebbe stato bene averlo fatto prima. Fino a quel giorno non mi ero mai registrato, non avevo quindi mai ascoltato la mia voce con l’orecchio degli altri.

Posi il registratore sul tavolo ed accesi.

Scelsi di cantare l’aria che rappresenta l’apice della baritonalità, l’Eri tu dal Ballo in maschera di Giuseppe Verdi, la disillusione di un uomo innamorato e tradito.

Ce la misi tutta per cantarla nel miglior modo possibile ed ebbi cura nelle intenzioni interpretative.

Eri tu che macchiavi quell’anima,

La delizia dell’anima mia…

…È finita, non siede che l’odio

E la morte nel vedovo cor!

O dolcezze perdute, o speranze d’amor!

Al termine mi sarei quasi detto:

«Bravo!»

Decisi di ascoltare immediatamente la registrazione. Riavvolsi la musicassetta, premetti play, e… dopo qualche secondo interruppi la riproduzione del nastro. Solo qualche nota.

Chiesi a Tullio:

«La registrazione rende fedelmente la mia voce?»

E lui:

«Sì è abbastanza fedele. Perché?»

Ed io:

«Nulla, nulla. Preferisco ascoltarla da solo, con calma. Ti spiace?»

Fece spallucce senza capire. Oppure capì e stette al mio gioco.

Ci sfogammo con il duetto dei Puritani tra baritono e basso, con la trascinante cabaletta Suoni la tromba intrepido.

Sembravamo entrambi soddisfatti.

Ancora due chiacchiere, parlammo del più e del meno, ancora qualche risata su Mantovani e Donna Fernanda, mangiammo qualche biscotto con una bevanda fredda e se ne andò.

Rimasi solo con il registratore. Mi sentii come se mi fossi dovuto specchiare per la prima volta dopo un intervento di chirurgia plastica.

La mia voce non era come avrei voluto che fosse.

Non solo non mi piacqui ma mi trovai inascoltabile.

Per dirla in breve, mi sembravo un bue lamentoso, fisso e stonato con dizione confusa. E le ‘erre’…erano tremende.

La descrizione finisce qua perché il brutto è facile da rendere.

«Se ora mi dicono che sono migliorato…chissà come sarò stato quando cantavo da tenore!». Sorrisi per tutte le cose che avevo pensato di Tullio. Ed io pensavo che, oltre ad essere sgarbato, fosse il malafede!

Mi convinsi che non avevo alcuna attitudine per il canto.

Valevano anche per me le parole che il professore di Analisi I rivolse ad un mio collega di astronomia al termine di un esame infelice mentre gli restituiva il libretto universitario senza voto:

«Lei mi ricorda un violinista a cui mancano le mani. Ora, non c’è nulla di male non avere le mani ma, almeno, non faccia il violinista».

Decisi di abbandonare baracca e burattini.

Diedi addio al canto e alle scantarellate.

Per sempre.

E senza rimpianti.

Tre millantatori all’Opera – Un paltò da tenore (Parte Prima)

Era freddo. Pioveva come se fosse stato pieno autunno.

Una giornata triste. Sembrava il giorno dei morti e invece attendevamo la Pasqua di Risurrezione.

«Un paltò da tenore…è già calato nel ruolo», pensai prima che mi dicesse con un franco sorriso e sguardo schietto:

«Ciao, molto piacere. Io sono Rufo»

Alto, moro, capelli ricci, era senza alcun dubbio un bel ragazzo dal sorriso accattivante e schietto.

Indossava un paltò di cammello dal colore avana, a doppio petto, con un’importante martingala. Un collo di pelliccia scura rivestiva gli ampi rever. Insomma un paltò da invidiare.

«Finalmente ti conosco in carne ed ossa! Questo strano individuo mi ha straparlato di te», dissi indicando Tullio.

Sotto il paltò, Rufo indossava un pullover a V, una camicia bianca e una cravatta di maglina intrecciata. I pantaloni erano ben stirati con la piega e aveva delle scarpe lustre lustre, solo appena bagnate dalla pioggia battente. Di primo acchito, tutto questo avrebbe fatto pensare ad un composto bravo ragazzo cresciuto in una famiglia borghese.

Poche parole bastarono per dissolvere questa idea ed anche l’ostilità in me alimentata da Tullio. Rufo era un tipo estroverso. Allegro.

E simpatico, anche per il vivace appetito: si mangiò nel giro di due ore, mezza colomba pasquale con tre tazze di tè e non so quanti ovetti di cioccolato con cioccolatini FIAT.

Mi apparve ancor più simpatico quando disse apertamente che era di sinistra. Tullio per questa dichiarazione ebbe, invece, un tuffo al cuore…un altro filo-comunista sulla sua strada!

L’amico che il ‘bello’ aveva portato con sé si chiamava Gabriele e indossava un loden blu e jeans.

“Questo è segno che non sta a sinistra”, mi dissi. “Quelli di sinistra hanno il loden verde. Speriamo che sia solo democristiano”.

Gabriele pareva un bambinone, biondiccio remissivo e timido. Lo sguardo languoroso evitava di incrociarsi con il mio. Seduto, fissava inerte il vuoto innanzi a sé tenendo le braccia conserte e stringendo il naso con l’indice.

Quasi non sentii la sua voce poiché si limitava ad assentire con il capo quando parlava l’altro, come se le parole di Rufo rappresentassero anche i suoi pensieri.

“Mi sa che questo Rufo sia un accentratore. Molto simpatico, ma…”

Tullio finalmente chiese a quello che, secondo lui, era l’erede di Tamagno:

«Rufo, ti va di farci sentire l’Esultate?»

Ma questi, essendo già ’tenore’, assai più del previsto – e non solo per il soprabito di cammello- rispose laconicamente:

«No. Oggi non mi sento bene».

Rufo raffreddò le scontate aspettative con tono fermo, addolcito da un sorriso serafico.

Ed io pensai:

“Ecco, fa il divetto. Almeno è un divo simpatico, per fortuna!”

«Però lui canterà ‘Prendi l’anel ti dono’», disse il divetto.

Gabriele finalmente si risvegliò dal torpore:

«Ma come? Perché dovrei cantare io?»

Rufo lo zittì:

«Su, avanti avanti, canta!»

Mi venne da ridere:

“Che coppia!”, mi dissi, “Lo comanda a bacchetta. Ci manca solo che gli dica ’sitz’, ‘platz’, ‘fuss’. Ma forse se lo merita…”

Il mite Gabriele obbedì senza fiatare. Obbedì meglio di tanti cagnolini da grembo con fiocchetti e fiocchettini.

Gabriele s’alzò in piedi giunse le mani e fissò il soffitto.

Prendi: l’anel ti dono

Che un di recava all’ara

L’alma beata e cara

Che arride al nostro amor.

Pareva di assistere alla lettura di una letterina natalizia.

«Bravo, vero?», disse immediatamente Ruffo per bloccare ogni critica. E spiegò:

«Studia con il mio maestro da due mesi. Hanno preparato insieme solo questo pezzo».

Tullio, come se fosse il presidente di una commissione giudicatrice, chiese:

«Ora Gabriele cos’altro ci canti?»

E lui, guardando Rufo con la coda dell’occhio, rispose:

«Va bene il Lamento di Federico?».

Il Capo annuì.

È la solita storia del pastore…

Il povero ragazzo voleva raccontarla

E s’addormì.

«Ha buon gusto, vero?»

In verità, Gabriele non mi aveva entusiasmato: a me piacevano i tenori temperamentosi anche un po’ strafalari. Però non cantò male. La sua voce mi parve gradevole ma zuccherosa, talora malferma, talora nel naso.

Non mi esposi troppo dal momento che la nostra conoscenza era incominciata un’ora e mezzo prima:

«Belle mezze voci. A tratti ricorda Tito Schipa!».

Questa risposta era come quando si dice che una persona ha dei begl’occhi se non si ha nulla di meglio da dire.

La faccia di Gabriele, fino a quel momento priva di emozioni apparenti, si illuminò di felicità, come succede a un bambino mentre scarta un regalo: il tenore di Lecce era, infatti, il suo tenore preferito e queste parole le sentiva dire ripetutamente dal suo insegnante Floriano Mantovani. E qualcun altro se n’era accorto!

Rufo decise che il pomeriggio era finito. Si portò via con sé gli altri due dopo aver preso gli accordi per il pranzo del lunedì.

Due giorni dopo, alle tredici, sempre puntuale come un orologio svizzero, arrivò Teresa la farmacista, l’altra mia partner di scantarellate. Un bel volto regolare come quello delle bambole in celluloide sui letti matrimoniali o sulle cassapanche. Rideva con facilità e di gusto, ogni risata veniva anticipata da un leggero rumore di un motorino appena avviato. Cantava con una voce argentina alla Pagliughi le cose più disparate, l’Otello, il Barbiere di Siviglia, la Norma, il Don Carlos, mantenendo sempre la stessa espressione paciosa.

Era una brava cuoca e portò un bel cabaret di tartine e salatini.

Dopo qualche minuto suonò alla porta Tullio con un fardello caldo in mano, avvolto di carta stagnola e poi ancora in un burazzo da cucina per non scottarsi. Aveva preparato un ‘prosciutto in crosta’.

E precisò:

«Ho pensato di fare questo perché avevo in frigorifero un prosciutto cotto scaduto»

Conoscevo bene la filosofia di Tullio in cucina: non si doveva buttare via nulla, come ai tempi dell’autarchia. Quando preparava qualcosa da mangiare io temevo sempre di passare la notte in bagno con i dolori di pancia.

«E come hai fatto la crosta?» chiesi. Trattenni il riso perché prevedevo la risposta.

«Con della pasta sfoglia inutilizzata che avevo in frigo. L’avevo comprata per Natale».

Mi dissi:

“Tanto male non potrà fare…è stato cotto in forno. Io non lo mangerò, nemmeno se mi pagano”.

E lui:

«Vediamo di sbolognarlo tutto, tagliando delle fette grosse. Non vorrei riportarlo a casa. Quel che rimane lo diamo a Rufo per il bis, tanto quello mangia tutto fino a scoppiare».

Suonò Edmondo con Evelina. Il primo aveva con sé un arrosto farcito di frittata e spinaci, l’altra un pesce finto di tonno e patate. Non avevo ancora capito se la loro relazione fosse stata consumata oppure se perdurasse la contemplazione platonica di Evelina.

Si presentò Rufo con il suo bel paltò e due bottiglie di vino:

«Buona Paaasquaaa», augurò a squarciagola, distribuendo saluti e sorrisi a tutti.

«Ecco, è arrivato il grande tenore. Potrei avere un autografo? Ahahaha…», fece Tullio.

Ed Evelina accorrendo verso Rufo:

«Oooooh finalmente sei arrivato! Pieranti, sento il bisogno di essere baciata da te!»

Ma fu lei che lo baciò.

E anche Teresa espresse ammirazione:

«Rufo, quanto sei bello oggi…con la giacca e la cravatta! Anche la sciarpa di seta! Elegantissimo». In effetti pareva provenire da una prima teatrale.

Dietro all’Astro Raggiante, in penombra, c’era Gabriele con una faccia da fototessera e un uovo pasquale in mano. Aveva lasciato il loden ‘di destra’ nell’armadio della sua stanza per indossare un cappotto inglese con la mantellina. Pure lui aspettava di ottenere qualche attenzione, ma non ebbe alcun complimento. Con Rufo gli succedeva sempre così, ad ogni festa, ad ogni pranzo, ad ogni cena.

Teresa si limitò a dirgli:

«Ciao Gabriele, come stai? Che bell’uovo di Pasqua! E’cioccolato fondente o al latte?»

Come sempre, mancava la Corinna. Sembrava che il suo orologio fosse sincronizzato con il Meridiano di Greenwich poiché i suoi ritardi arrivano all’ora ed anche oltre.

Qualche giorno prima, Teresa mi disse:

«Perché alla Corinna non dici che l’appuntamento è alle dodici e un quarto?»

Mi parve un ottimo espediente. Ed eseguii.

La Corinna mi rispose:

«Non è un po’ presto?»

«Sì, ma Edmondo ed Evelina devono andare in parrocchia dopo aver mangiato…», fu la prima cosa che mi venne in mente.

Corinna suonò il campanello della porta quasi all’una e un quarto. Lo stratagemma di Teresa si dimostrò pienamente efficace.

E l’ultima ad arrivare esclamò compiaciuta:

«Aaaaah, vedo che siete tutti ritardatari!»

«No, cara! Noi siano stati puntuali» rispose l’inopportuno Tullio. Gli affondai un’energica gomitata per zittirlo.

La ritardataria, forse confusa, non rilevò il piano che Teresa ed io avevamo architettato.

Con la sua svestizione ci fu la rivincita di Gabriele: la Corinna stornò ogni attenzione da Rufo su di sè.

Iniziò la danza dei sette veli.

Si tolse una specie di colbacco in peluche, un modello da magazzini GUM sulla Piazza Rossa, allacciato al mento con dei bei pompom. La Corinna poi sdipanò dal collo e dalla tracolla, piena di cianfrusaglie, la sciarpa fatta a ferri mentre guardava Happy days e Star Trek. Il cappotto alla Mary Poppins era un orribile principe di Galles multicolore dal disegno gigantesco.

Potemmo infine ammirare il capolavoro di sartoria fatto dalla zia sarta che Corinna esibiva con evidente orgoglio: una gonna fino alle caviglie e un bolerino fatti di un vellutino nero con tante ellissi chiare grandi come un uovo. All’interno di ogni ellisse, un mazzo di fiori tenuto insieme da un nastro. Il colpo d’occhio era quello di un camposanto.

La Corinna mi mise in mano una casseruola sigillata con un coperchio:

«Ho portato i piselli al prosciutto per contorno…Scaldali aggiungendo un po’ d’acqua perché si sono asciugati».

Asciugati? Erano piselli in scatola strinati come caldarroste, una roccia vulcanica con qualche dadino di prosciutto annerito.

Io avevo preparato due dolci presi dall’Artusi: il budino di semolino e conserve di frutta, ricetta N.658, e le Tazzine, ricetta N.686, una gustosissima crema a base di mandorle tostate, tuorli d’uovo, cannella ed acqua di zagare.

Le lasagne di mia madre emanavano un odore inebriante.

Era freddo: si poteva mangiare e bere in allegria.

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