Placido Luciano

Successe che tanti anni fa, ero ancora adolescente, ascoltai per la filodiffusione, l’arioso ‘Amor ti vieta’ dalla Fedora di Umberto Giordano cantato da Placido Domingo. Tanto mi piacque che lo registrai e dopo quello tutte tutte le romanze cantate dal tenore spagnolo.
Domingo era già a quel tempo una celebrità -parlo dell’inizio degli anni settanta- come testimoniava la facilità con cui era possibile ascoltarlo senza andare a teatro, attraverso i dischi e la radio. Certamente Domingo non cantava al Teatro Comunale di Bologna; se avessi voluto ascoltarlo da vivo sarei dovuto andare al Metropolitan di New York, al Teatro alla Scala, all’Arena di Verona, al Covent Garden di Londra.
Le vetrine dei negozi erano pieni di opere e recital con Domingo così acquistai con la lauta paghetta settimanale di mia madre due bei cofanetti della RCA Victor, il Tabarro e la Tosca, entrambi con gli stessi cantanti Leontyne Price, Placido Domingo e Sherrill Milnes, il primo diretto da Erich Leinsdorf, la seconda da Zubin Mehta.
Per Domingo ebbi un vero amore a prima vista per via del timbro vocale ambrato, denso, corposo, eppure vellutato, specialmente nel registro centrale, come tante voci spagnole. Il timbro è il primo elemento, quello più immediato e quindi più elementare, a colpire l’ascoltatore, e le voci scure generalmente sono quelle che colpiscono di più. La voce di Domingo possedeva pure dei difetti – gli acuti larghi ma un poco faticosi, la dizione non molto scandita – che, a quel tempo, non rilevavo, attratto principalmente dalle caratteristiche timbriche.
Qualche tempo dopo acquistai la famosa Turandot della Decca con i mostri sacri del momento, Joan Sutherland e Montserrat Caballé. Mi svenai per quel cofanetto, che a quel tempo costava dodicimila lire, una cifra astronomica per uno studente di liceo. Credevo che Calaf fosse cantato da Domingo e, invece, trovai Luciano Pavarotti, di cui ancora non conoscevo la voce.
Mi piacquero le due rivali femminile e la direzione di Zubin Mehta ma non Pavarotti. Il suo timbro mi ricordava quello di Paperino anzi Donald Duck.
La voce era troppo chiara per i miei semplici canoni d’allora e possedeva, tutto sommato, caratteristiche opposte a quelle dello spagnolo: acuti facili ma stretti, dizione chiarissima.
Ed erano differenti quanto alle qualità artistiche: Domingo risolveva i personaggi dentro alla musica, essenzialmente nel canto, mentre Pavarotti, dando valore alla parola, sembrava calarsi maggiormente nei personaggi.
Dopo svariati decenni, tutto sommato, le mie preferenze non sono cambiate.
Ora però ritengo che entrambi ben rappresentano il declino dell’arte lirica, seppure a livelli assai alti. Il fatto che siano artisti universalmente noti non vuol dire che tutte cose siano allineate lungo la strada maestra. Per Domingo e Pavarotti se avessero cantato quaranta, cinquant’anni prima, sarebbe stato assai più duro guadagnare la pagnotta: a causa delle loro caratteristiche, fors’anche limitazioni, probabilmente non avrebbero avuto un gran seguito ai tempi di Aureliano Pertile e Beniamino Gigli e si sarebbero quindi dovuti regolare in maniera differente quanto a tecnica vocale.
Le carriere di entrambi, nate sulle tavole del palcoscenico, vennero amplificate dai dischi che d’altra parte sono stati, fin dalla loro comparsa, sono sempre stati fidi amici dei cantanti lirici; in tempi di poco più lontani si aggiungeva anche il contributo del cinema. Nulla di nuovo sotto il sole, se non il fatto che le case discografiche divenute multinazionali amplificarono a livello mondiale l’impatto di Domingo e Pavarotti sul pubblico.
E amplificarono i loro effettivi meriti.
Domingo ha avuto una carriera caratterizzata da diversi momenti di sbandamento e stanchezza vocale sia per la grande quantità di recite, la vastità del repertorio, ma anche per una tecnica non ineccepibile; come un’araba fenice la sua voce è però riuscita a rinascere schiarendo il timbro e sempre più accentuando una nativa nasalità per mantenere il suono falsamente in maschera. La parte estrema della carriera di Domingo, a cui stiamo assistendo, quale di baritono mi pare triste. E’ un tenore a tutti gli effetti che canta sulla tessitura più bassa del baritono e la voce è uguale a quella di prima, né più né meno. Le attuali prestazioni da tenoritono mi sembrano che siano utili solo per evitare le crisi di astinenza dei fan dominghiani, e soprattutto delle dominghiane non più giovani.
Pavarotti è stato da molti indicato, a mio avviso sommariamente, come erede dell’età d’oro del canto all’italiana. Abbastanza ferrato quanto a tecnica di canto, se da un lato nasceva come tenore dagli acuti facili, dall’altro lato trovava proprio in essi una limitazione sgradita al mio orecchio: dapprima gli acuti del tenore modenese il loro suono non ha mai avuto la larghezza, la cavata, che caratterizzava anche i tenori lirico-leggeri o lirici delle generazioni precedenti (penso, per esempio a Tito Schipa e a Giuseppe Di Stefano. Con il passare degli anni e l’allargamento del repertorio, la strettezza degli acuti di Pavarotti è aumentata -fino a che spesso ricordavano dei vagiti di un bambino- diffondendosi e deteriorando l’accativante timbro del registro centrale.
Le interpretazioni di Domingo sono sempre apparse un po’ generiche, senza uno stile che lo caratterizzasse univocamente, affidandosi alla sensuale attrattiva della voce e ad una buona credibilità scenica. Domingo, inoltre, è sempre stato in grado di stabilire un particolare rapporto con il pubblico, un’imponderabile energia, una fascinazione capace di catturare la festante benevolenza del pubblico anche nei giorni in cui la voce non pareva oggettivamente in forma, dote che possiedono solo i grandi artisti. Aggiungo che Domingo è una persona molto simpatica.
Pavarotti agli inizi della carriera veniva rubricato come tenore dalla bella voce ma, come Domingo, con intenti interpretativi generici. Il Modenese, col tempo, invece ha costruito furbescamente un proprio stile, molto personale, forse un po’ ruffianesco, ma tutto sommato nuovo. Pavarotti, in questo, è quindi una specie di capostipite che ha avuto, e ha, diversi imitatori. Come attore appariva zelante ma un po’ naïf, limitato dall’ingombrante figura e dalla fisionomia: certe espressioni facciali, certi atteggiamenti facevano sorridere. Anche Pavarotti aveva un ottimo rapporto con il suo pubblico. Per quanto mi riguarda, ho sempre detestato le incursioni di Pavarotti nella musica pop. Non sapeva cantare in maniera convincente nemmeno Mamma di Bixio-Cherubini. In Caruso di Lucio Dalla l’ho sempre giudicato inascoltabile.
Dal vivo, comunque, sia Domingo che Pavarotti mi hanno sempre convinto nonostante qualche se e qualche ma.
E rispetto alle mie preferenze vocali di quarant’anni fa?
Forse sarà una questione di imprinting adolescenziale, ma continuo ad avere preferenza per la voce di Domingo.

Tre millantatori all’Opera – Un paltò da tenore (Parte Prima)

Era freddo. Pioveva come se fosse stato pieno autunno.

Una giornata triste. Sembrava il giorno dei morti e invece attendevamo la Pasqua di Risurrezione.

«Un paltò da tenore…è già calato nel ruolo», pensai prima che mi dicesse con un franco sorriso e sguardo schietto:

«Ciao, molto piacere. Io sono Rufo»

Alto, moro, capelli ricci, era senza alcun dubbio un bel ragazzo dal sorriso accattivante e schietto.

Indossava un paltò di cammello dal colore avana, a doppio petto, con un’importante martingala. Un collo di pelliccia scura rivestiva gli ampi rever. Insomma un paltò da invidiare.

«Finalmente ti conosco in carne ed ossa! Questo strano individuo mi ha straparlato di te», dissi indicando Tullio.

Sotto il paltò, Rufo indossava un pullover a V, una camicia bianca e una cravatta di maglina intrecciata. I pantaloni erano ben stirati con la piega e aveva delle scarpe lustre lustre, solo appena bagnate dalla pioggia battente. Di primo acchito, tutto questo avrebbe fatto pensare ad un composto bravo ragazzo cresciuto in una famiglia borghese.

Poche parole bastarono per dissolvere questa idea ed anche l’ostilità in me alimentata da Tullio. Rufo era un tipo estroverso. Allegro.

E simpatico, anche per il vivace appetito: si mangiò nel giro di due ore, mezza colomba pasquale con tre tazze di tè e non so quanti ovetti di cioccolato con cioccolatini FIAT.

Mi apparve ancor più simpatico quando disse apertamente che era di sinistra. Tullio per questa dichiarazione ebbe, invece, un tuffo al cuore…un altro filo-comunista sulla sua strada!

L’amico che il ‘bello’ aveva portato con sé si chiamava Gabriele e indossava un loden blu e jeans.

“Questo è segno che non sta a sinistra”, mi dissi. “Quelli di sinistra hanno il loden verde. Speriamo che sia solo democristiano”.

Gabriele pareva un bambinone, biondiccio remissivo e timido. Lo sguardo languoroso evitava di incrociarsi con il mio. Seduto, fissava inerte il vuoto innanzi a sé tenendo le braccia conserte e stringendo il naso con l’indice.

Quasi non sentii la sua voce poiché si limitava ad assentire con il capo quando parlava l’altro, come se le parole di Rufo rappresentassero anche i suoi pensieri.

“Mi sa che questo Rufo sia un accentratore. Molto simpatico, ma…”

Tullio finalmente chiese a quello che, secondo lui, era l’erede di Tamagno:

«Rufo, ti va di farci sentire l’Esultate?»

Ma questi, essendo già ’tenore’, assai più del previsto – e non solo per il soprabito di cammello- rispose laconicamente:

«No. Oggi non mi sento bene».

Rufo raffreddò le scontate aspettative con tono fermo, addolcito da un sorriso serafico.

Ed io pensai:

“Ecco, fa il divetto. Almeno è un divo simpatico, per fortuna!”

«Però lui canterà ‘Prendi l’anel ti dono’», disse il divetto.

Gabriele finalmente si risvegliò dal torpore:

«Ma come? Perché dovrei cantare io?»

Rufo lo zittì:

«Su, avanti avanti, canta!»

Mi venne da ridere:

“Che coppia!”, mi dissi, “Lo comanda a bacchetta. Ci manca solo che gli dica ’sitz’, ‘platz’, ‘fuss’. Ma forse se lo merita…”

Il mite Gabriele obbedì senza fiatare. Obbedì meglio di tanti cagnolini da grembo con fiocchetti e fiocchettini.

Gabriele s’alzò in piedi giunse le mani e fissò il soffitto.

Prendi: l’anel ti dono

Che un di recava all’ara

L’alma beata e cara

Che arride al nostro amor.

Pareva di assistere alla lettura di una letterina natalizia.

«Bravo, vero?», disse immediatamente Ruffo per bloccare ogni critica. E spiegò:

«Studia con il mio maestro da due mesi. Hanno preparato insieme solo questo pezzo».

Tullio, come se fosse il presidente di una commissione giudicatrice, chiese:

«Ora Gabriele cos’altro ci canti?»

E lui, guardando Rufo con la coda dell’occhio, rispose:

«Va bene il Lamento di Federico?».

Il Capo annuì.

È la solita storia del pastore…

Il povero ragazzo voleva raccontarla

E s’addormì.

«Ha buon gusto, vero?»

In verità, Gabriele non mi aveva entusiasmato: a me piacevano i tenori temperamentosi anche un po’ strafalari. Però non cantò male. La sua voce mi parve gradevole ma zuccherosa, talora malferma, talora nel naso.

Non mi esposi troppo dal momento che la nostra conoscenza era incominciata un’ora e mezzo prima:

«Belle mezze voci. A tratti ricorda Tito Schipa!».

Questa risposta era come quando si dice che una persona ha dei begl’occhi se non si ha nulla di meglio da dire.

La faccia di Gabriele, fino a quel momento priva di emozioni apparenti, si illuminò di felicità, come succede a un bambino mentre scarta un regalo: il tenore di Lecce era, infatti, il suo tenore preferito e queste parole le sentiva dire ripetutamente dal suo insegnante Floriano Mantovani. E qualcun altro se n’era accorto!

Rufo decise che il pomeriggio era finito. Si portò via con sé gli altri due dopo aver preso gli accordi per il pranzo del lunedì.

Due giorni dopo, alle tredici, sempre puntuale come un orologio svizzero, arrivò Teresa la farmacista, l’altra mia partner di scantarellate. Un bel volto regolare come quello delle bambole in celluloide sui letti matrimoniali o sulle cassapanche. Rideva con facilità e di gusto, ogni risata veniva anticipata da un leggero rumore di un motorino appena avviato. Cantava con una voce argentina alla Pagliughi le cose più disparate, l’Otello, il Barbiere di Siviglia, la Norma, il Don Carlos, mantenendo sempre la stessa espressione paciosa.

Era una brava cuoca e portò un bel cabaret di tartine e salatini.

Dopo qualche minuto suonò alla porta Tullio con un fardello caldo in mano, avvolto di carta stagnola e poi ancora in un burazzo da cucina per non scottarsi. Aveva preparato un ‘prosciutto in crosta’.

E precisò:

«Ho pensato di fare questo perché avevo in frigorifero un prosciutto cotto scaduto»

Conoscevo bene la filosofia di Tullio in cucina: non si doveva buttare via nulla, come ai tempi dell’autarchia. Quando preparava qualcosa da mangiare io temevo sempre di passare la notte in bagno con i dolori di pancia.

«E come hai fatto la crosta?» chiesi. Trattenni il riso perché prevedevo la risposta.

«Con della pasta sfoglia inutilizzata che avevo in frigo. L’avevo comprata per Natale».

Mi dissi:

“Tanto male non potrà fare…è stato cotto in forno. Io non lo mangerò, nemmeno se mi pagano”.

E lui:

«Vediamo di sbolognarlo tutto, tagliando delle fette grosse. Non vorrei riportarlo a casa. Quel che rimane lo diamo a Rufo per il bis, tanto quello mangia tutto fino a scoppiare».

Suonò Edmondo con Evelina. Il primo aveva con sé un arrosto farcito di frittata e spinaci, l’altra un pesce finto di tonno e patate. Non avevo ancora capito se la loro relazione fosse stata consumata oppure se perdurasse la contemplazione platonica di Evelina.

Si presentò Rufo con il suo bel paltò e due bottiglie di vino:

«Buona Paaasquaaa», augurò a squarciagola, distribuendo saluti e sorrisi a tutti.

«Ecco, è arrivato il grande tenore. Potrei avere un autografo? Ahahaha…», fece Tullio.

Ed Evelina accorrendo verso Rufo:

«Oooooh finalmente sei arrivato! Pieranti, sento il bisogno di essere baciata da te!»

Ma fu lei che lo baciò.

E anche Teresa espresse ammirazione:

«Rufo, quanto sei bello oggi…con la giacca e la cravatta! Anche la sciarpa di seta! Elegantissimo». In effetti pareva provenire da una prima teatrale.

Dietro all’Astro Raggiante, in penombra, c’era Gabriele con una faccia da fototessera e un uovo pasquale in mano. Aveva lasciato il loden ‘di destra’ nell’armadio della sua stanza per indossare un cappotto inglese con la mantellina. Pure lui aspettava di ottenere qualche attenzione, ma non ebbe alcun complimento. Con Rufo gli succedeva sempre così, ad ogni festa, ad ogni pranzo, ad ogni cena.

Teresa si limitò a dirgli:

«Ciao Gabriele, come stai? Che bell’uovo di Pasqua! E’cioccolato fondente o al latte?»

Come sempre, mancava la Corinna. Sembrava che il suo orologio fosse sincronizzato con il Meridiano di Greenwich poiché i suoi ritardi arrivano all’ora ed anche oltre.

Qualche giorno prima, Teresa mi disse:

«Perché alla Corinna non dici che l’appuntamento è alle dodici e un quarto?»

Mi parve un ottimo espediente. Ed eseguii.

La Corinna mi rispose:

«Non è un po’ presto?»

«Sì, ma Edmondo ed Evelina devono andare in parrocchia dopo aver mangiato…», fu la prima cosa che mi venne in mente.

Corinna suonò il campanello della porta quasi all’una e un quarto. Lo stratagemma di Teresa si dimostrò pienamente efficace.

E l’ultima ad arrivare esclamò compiaciuta:

«Aaaaah, vedo che siete tutti ritardatari!»

«No, cara! Noi siano stati puntuali» rispose l’inopportuno Tullio. Gli affondai un’energica gomitata per zittirlo.

La ritardataria, forse confusa, non rilevò il piano che Teresa ed io avevamo architettato.

Con la sua svestizione ci fu la rivincita di Gabriele: la Corinna stornò ogni attenzione da Rufo su di sè.

Iniziò la danza dei sette veli.

Si tolse una specie di colbacco in peluche, un modello da magazzini GUM sulla Piazza Rossa, allacciato al mento con dei bei pompom. La Corinna poi sdipanò dal collo e dalla tracolla, piena di cianfrusaglie, la sciarpa fatta a ferri mentre guardava Happy days e Star Trek. Il cappotto alla Mary Poppins era un orribile principe di Galles multicolore dal disegno gigantesco.

Potemmo infine ammirare il capolavoro di sartoria fatto dalla zia sarta che Corinna esibiva con evidente orgoglio: una gonna fino alle caviglie e un bolerino fatti di un vellutino nero con tante ellissi chiare grandi come un uovo. All’interno di ogni ellisse, un mazzo di fiori tenuto insieme da un nastro. Il colpo d’occhio era quello di un camposanto.

La Corinna mi mise in mano una casseruola sigillata con un coperchio:

«Ho portato i piselli al prosciutto per contorno…Scaldali aggiungendo un po’ d’acqua perché si sono asciugati».

Asciugati? Erano piselli in scatola strinati come caldarroste, una roccia vulcanica con qualche dadino di prosciutto annerito.

Io avevo preparato due dolci presi dall’Artusi: il budino di semolino e conserve di frutta, ricetta N.658, e le Tazzine, ricetta N.686, una gustosissima crema a base di mandorle tostate, tuorli d’uovo, cannella ed acqua di zagare.

Le lasagne di mia madre emanavano un odore inebriante.

Era freddo: si poteva mangiare e bere in allegria.

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