Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte trentesima

L’incubo irruppe nuovamente nel mio sonno dopo qualche giorno. I miei genitori temettero che stesse allignando una subdola malattia nervosa, a cui potevano correlarsi le emicranie di cui frequentemente in quel tempo soffrivo. Ne parlarono con il dottor Agostini, medico della mutua dal volto greve e solenne, e poi mi condussero dal pacioso professor Gallerani, luminare della pediatria oltreché violinista. Entrambi concordavano che fosse necessario un neurologo perché mi esaminasse con un elettroencefalogramma.
La mamma, conosciuto il luogo dove si sarebbe svolto l’esame medico, scoppiò in lacrime: l’ospedale dei matti, il Novanta, in via Sant’Isaia.
Varcai il portone dell’ospedale con la mamma assai mesta che mi teneva per mano.
La luce del mese di ottobre, ingrigita dalle nubi, penetrava attraverso alti finestrotti semicircolari, illuminando a stento lo spazio di quel convento trasformato in manicomio. Era giorno pieno eppure nell’alto androne sembrava che l’orologio fosse avanti di diverse ore.
Comparì da quella tetraggine, come un raggio di sole, una suora vestita di bianco. Il velo, da cui non sfuggiva alcun capello, incorniciava un bel volto rotondo. Avrà potuto avere ugualmente trenta, quaranta, cinquant’anni. La serenità le allontanava il tempo.
«Salve, signora. Posso esserle utile?»
«Buongiorno, sorella. Mi potrebbe indicare l’ambulatorio dove si fanno gli elettroencefal…» Il magone le chiudeva la gola così che non riuscì nemmeno a terminare la parola.
«È qui per l’elettroencefalogramma al bambino, vero? », rispose prontamente la suora con un sorriso.
La mamma annuì con i lucciconi agli occhi.
«Ma che fa? Non piangerà mica?», fece la suora. «Non deve temere nulla. L’esame è semplice. Il bambino non sentirà alcun dolore, si svolge come un elettrocardiogramma. Ne ha mai visto fare uno?»
Asciugandosi gli occhi con un piccolo fazzoletto, la mamma fece con il capo:
«Io non ne ho mai avuto bisogno, ma mio marito tante volte. Sa, sorella, mio marito, qualche anno fa, ha avuto un infarto… Assisto sempre all’esame quando il cardiologo viene a casa. Il medico, purtroppo, da noi si vede spesso. E ora è il mio bambino che non sta bene…». E scosse la testa con tristezza perché le mancarono nuovamente le parole.
«Per il suo bambino non deve preoccuparsi. A colpo d’occhio, è più sano di un pesce. Vedrà che ho ragione. Mi dai la mano? Su, su, vieni con me!» Ci avviammo tutti e tre verso un ambulatorio, una cella tenuta in mezza oscurità da una coppia di scuri interni che avrebbero assicurato, all’occorrenza, il buio completo.
La suora mi sollevò da terra con energia distendendomi su di uno scomodo lettino di gelido alluminio lucidato. Mi infilò poi in testa una cuffia di ruvida stoffa grigiastra, con tanti bottoni metallici su cui aveva spalmato una crema appiccicosa.
Immobile, intimorito dalla stranezza del luogo, io muovevo solo gli occhi in qua e in là per osservare ciò che la suora stava facendo. Sbirciai le tavole anatomiche vivacemente colorate appese alle pareti raffiguranti uomini spellati e squartati. E, posto su di una vetrina piena di farmaci, stava perfino un cranio con due sportelli, uno aperto per mostrare il contenuto cerebrale grigiastro. Che impressione mi facevano gli occhi senza palpebre!
Entrò il neurologo. Aveva un’espressione stralunata, accentuata da una capigliatura spettinata e un pizzo nerogrigio che terminava con una lunga punta sul mento.
«Signora, ora attenda nel corridoio. Il bambino deve rimanere solo con me.»
La mamma uscì a testa bassa, nuovamente commossa.
Meccanicamente e senza parole, il dottore collegò una macchina elettrica agli cavi che spuntavano dallo strano copricapo. Il neurologo avviò lo strumento. Immediatamente iniziarono a muoversi frusciando una dozzina di aghi che terminavano con pennini inchiostrati. Il medico mi disse di respirare a pieni polmoni ed espellere l’aria, per tre volte. Infine dopo aver oscurato la cella, dovetti guardare degli intensi lampi luminosi prodotti da una lampada appesa al muro, dapprima lenti e poi veloci. Il neurologo infine mi pizzicò lievemente sulle guance, sulle mani, sulle cosce.
E gli aghi trascrivevano le tenui correnti elettriche provenienti dal mio cervello osulla carta cn linee ondulate e irregolari.
Terminato l’esame, la suora in qualche minuto mi riassettò e uscii correndo dall’ambulatorio, felice di rivedere la mamma che ringraziò suor Vincenza.
Il professor Gallerani lesse il referto del neurologo, sorrise e, scuotendo la testa, si avvicinò con bonaria sicumera al lettino su cui la mamma mi aveva sistemato. Il medico mi auscultò il cuore e i polmoni. Poiché il babbo ne sapeva un po’ di medicina, il professore lo chiamò accanto a sé perché assistesse al resto della visita. Palpò l’addome e mi calò le brache. Mentre mi esaminava i genitali – chiusi gli occhi per non provare vergogna – il pediatra spiegò al padre la causa degli incubi:
«Vostro figlio non ha nulla. Il fatto è che sta sviluppandosi prima del tempo.»
E concluse con flemma petroniana:
«Côsa vlî… Cosa volete …Questi sogni sono sintomi di grandi cambiamenti, il fisico del bambino è in movimento. Sono le avvisaglie della pubertà.» Il medico indicò i peli che mi stavano spuntando.
Il babbo e la mamma sorrisero soddisfatti per la semplicità della diagnosi; furono liberati da un gran peso.
«Si può dire, allora, che è la fîvra di spunción!»⁠ chiosò il babbo con l’orgoglio paterno per un bambino che stava diventando uomo.
«Mé a dirêv pròpi ed sé, direi proprio di sì», rispose il Professore con fermezza.
L’incubo però non tenne conto della diagnosi del luminare e seguì un cammino proprio; abbandonò, cioè, senza fretta le mie notti e si protrasse fino all’inizio dell’età giovanile: come un mosaico da cui si staccano le tessere, con il tempo, perdendo il disegno originario, così il cattivo sogno s’attenuò perdendo via via le sue parti. Sparì la scenografia romana e quindi sparirono le scure sterpaglie acuminate. E poi i sogni smisero d’ospitare lo spaventoso capro semiumano. Rimase per diverso tempo il cubo con le facce in fuga verso l’infinito. Infine, una notte il cubo si dissolse senza mai più invadere i miei sogni.
Riemergevano, talora, solo alcune paurose sensazioni di vertigine, senza sogni, che alludevano a quelle provate da bambino. Poco dopo aver chiuso gli occhi, la mia coscienza, riottosa nel concedere riposo al corpo, vagolava tra veglia e sonno. Una brezza passava dal petto alla testa quindi mi abbandonava lasciando il vuoto dentro di me generando una privazione di limite fisico. Sperimentavo nel sogno che il nulla e l’infinito sono la stessa cosa.

(Continua)

L’ombra della Rocchetta (4)

Sì, Carla Fiocchetti era sorella della Mâta. E Iolanda Fiocchetti, l’altra sorella, era effettivamente morta per un violento incidente stradale cinque anni prima.
Stupore e sincero dispiacere per la brutta fine di Iolanda precedettero la vera ragione della telefonata.
Carla dapprima negò la veridicità del nostro racconto:
«Ma come!…».
«Angela sa bene che è stata una disgrazia!…».
«Tu che c’entri?…».
«Che fotografie dovresti avere?…».
«E cosa c’entrano le fotografie?…».
«È impossibile!…».
«Mia sorella è timida! Non ha il coraggio…».
«Guarda sempre in basso con le braccia conserte!…».
«Abita con mia madre e raramente esce di casa!…».
«Ma non le tiri mai fuori una parola!…».
E la mamma chiosò con secca sicumera:
«Eppure è così!»
La conversazione virò quindi verso momenti tesi poiché mia mamma diede fuoco ai toni e l’altra non fu da meno, rischiando che Carla non collaborasse alla risoluzione della nostra situazione.
La mamma mi porse la cornetta del telefono e, forse per i miei toni mediatori, ovvero più ipocritamente controllati, a Carla venne il dubbio che i nostri racconti potessero avere un fondo di verità. Perché, trascorsi anni senza vederla, avremmo dovuto disturbarla raccontando quelle fandonie proprio sulla sorella Angela? Inoltre, pochi minuti prima, con quella telefonata stessa, avevamo trovato finalmente una traccia, un collegamento tra il resto del mondo e quella persona apparsa dal nulla. Rifletté. Sapeva che stava parlando con persone serie. E cambiò tono.
Carla era sposata, abitava lontano dalla casa materna di Via Frassinago; ammise, quindi, che non poteva controllare i comportamenti della sorella Angela. Apprendemmo inoltre che la Mâta e la gemella Fioretta – questa, separata dal marito, stava per conto suo – erano le più giovani di una folta schiera di fratelli, tre uomini e quattro donne. La Mâta conviveva con la madre sorda ed un fratello. Ci chiese del tempo.
E, intanto, la Mâta ogni giorno perseverava nel disturbarci, cessando solo verso le diciannove d’ogni sera e poi per l’intero fine settimana, evidentemente impossibilitata ad esprimere la propria follia da presenze indesiderate.
Preoccupato per la prostrazione di mia mamma, non avendo prospettive di soluzione, una sera, verso le diciotto, indossai il cappotto e mi recai fin davanti alla casa della Mâta come dare materia a questa ossessione. Speravo di vedere la Mata? No, speravo d’imbattermi, per parlargli, in quel qualcuno che la ostacolava. Il fratello?
L’edificio di Via Frassinago, nonostante avesse due piani con poche finestre sulla strada, era abitato da tante famiglie. Accanto al portone d’accesso stavano ben cinque numeri civici; l’edificio si sviluppava pertanto in lunghezza, con diverse rampe di scale e diversi cortili interni. Questo classico palazzo popolare bolognese costruito tra il ‘500 e il ‘600 arrivava a lambire il giardino intorno all’ospedale psichiatrico, detto in città il Novanta perché l’entrata principale stava in Via Sant’Isaia 90.
Guardai la cospicua bottoniera di campanelli, poi mi inoltrai nell’androne malamente illuminato. Salii la scala B fino al primo piano e sostai sul pianerottolo davanti all’alloggio della Mâta. Accanto all’entrata, c’era una finestra con inferriate. Una tenda impediva di scorgere l’interno della casa. Si spense la luce delle scale, questo mi permise di vedere che non filtrava alcun chiarore, nemmeno lontano. Sembrava disabitata. Se fosse arrivato qualcuno mi sarei trovato nelle grane, così speditamente me ne andai sentendomi sciocco e impotente.
Passò una quindicina di giorni che ricevemmo la telefonata promessa dalla Carla. E con un gran colpo di scena.
La donna innanzitutto si scusò per non aver dato immediatamente credito al nostro racconto. Andando a fare visita alla madre, la Carla interrogò la sorella e questa confermò il nostro racconto per filo e per segno. Le fotografie, il pendolo, l’omicidio della Iolanda. Non disposta ad andare per il sottile, la Carla causò un bel patatrac: prese per i capelli, a sberle, a calci, la Mâta cosicché questa scappò di casa! Da giorni nessuno aveva avuto più sue notizie, nemmeno la gemella Fioretta.
La Carla giurò e spergiurò che non sapeva né come né dove rintracciarla. Verità o bugia per coprire la sorella? Perché non denunciarne la scomparsa? Io pensai che la famiglia avesse perfino tirato un sospiro di sollievo per la sparizione della Mâta, così sarebbero state tante grane in meno. La Carla aggiunse che entrambe le gemelle avevano manifestato delle stranezze per cui fu necessario qualche medico. I gemelli agiscono in coppia. Quasi una giustificazione. La Fioretta, una volta separata dal marito, si era chiusa in casa con i suoi psicofarmaci, ed anche l’altra, la Mâta, aveva manifestato dei comportamenti che per un po’ furono seguiti da un neurologo. Entrambe vivevano solo con un po’ di denaro allungato loro dalla madre.
Le azioni dell’Angela erano penalmente rilevanti, osservai.
«Pagherà di tasca propria. Peggio per lei. Io devo stare dietro alla mia famiglia».
Alla fine dei conti, l’unica cosa utile di quella conversazione fu che apprendemmo il vero nome della Mata, non Angela ma Angiolina. Decisamente poco.
La mamma ed io eravamo dunque al punto di partenza, nuovamente soli contro Angiolina Fiocchetti.

(Continua)

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