Strada che non riporta a casa

In una mattina del mese di dicembre, mia mamma, la Bruna, si alzò molto turbata.
Mi riferì di avere udito nella sua stanza da letto, senza che stesse dormendo, una voce femminile:
«È arrivato il momento che tu ritorni a casa», le disse.
Con preoccupazione, ma aveva già un’idea ben definita, mi chiese:
«Secondo te che cosa significano queste parole?»
Ed io, percependo il suo pensiero, minimizzai:
«Eeeeeh, mamma, tu ogni mattina ne hai una da raccontare, voci strane, sogni, o altro…Queste parole non vogliono dire assolutamente nulla. La tua casa è solo questa. Quello a cui stai pensando non è la tua casa».


Non la convinsi e qualche volta, nei giorni successivi, ritornò sulla voce udita.
Ed avvenne che il 12 dicembre feci una caduta in avanti sbattendo la testa sul selciato, essendomi inciampato contro un marciapiede a Porta Santo Stefano.
Fui molto fortunato perché me la cavai con cinque punti di sutura alla fronte e delle escoriazioni sul naso, sulle nocche e sulle ginocchia. Dovetti chiamare casa poiché, si sa, le cose al Pronto Soccorso vanno per le lunghe. La mamma si spaventò parecchio, nonostante che io l’avessi assicurata – non c’era da preoccuparsi visto che mi avevano assegnato il codice verde. Lei voleva prendere un taxi per raggiungermi e rendersi conto di persona del mio stato; alla fine decise di mandarmi un caro amico perché stesse con me.
Da quel giorno però, probabilmente in conseguenza dello spavento, qualcosa cambiò.
La mamma, da tempo, era diventata un’ipertesa con una pressione sanguigna molto difficoltosa da controllare. Spesso alla mattina aveva appena 90 di massima e qualche volta, specialmente di sera, perfino dopo essersi coricata, la pressione arrivava a oltre 210: una pressione potenzialmente pericolosa che nessun cardiologo è mai riuscito a controllare interamente. Ogni tanto volava a valori molto alti, nonostante il rispetto rigoroso della cura prevista. La mamma aveva la fortuna di accorgersi puntualmente di questi repentini rialzi; allora mi chiamava, le somministravo le medicine, la rassicuravo, e tutto pian piano rientrava nella norma.
Dopo la mia caduta, però, i picchi di pressione elevata, presero a diventare sempre più frequenti. Nel mese di febbraio, quindi, la obbligai a fare un controllo cardiologico assai prima del previsto.
Il cardiologo, avendo sempre rubricato la mamma come grande ansiosa, non diede particolare peso a questi balzi verso l’alto della pressione.
«Non si deve preoccupare, signora, di questi sbalzi pressori. Vede, io sono tifoso del Bologna, e quando fa goal salto in piedi, urlo, mi dimeno; in quel momento avrò la pressione altissima, ma non per questo sono in pericolo di vita. Quello che interessa è la media giornaliera. Lei ha 90 alla mattina e 210 alla sera? La media allora è 150. E poiché lei è sotto ad una specifica terapia, non deve temere nulla perché ha una pressione media giornaliera non pericolosa».
E infatti quattordici giorni dopo, il primo di marzo, la mamma fu colpita da un ictus cerebrale ischemico. Anche agli ansiosi vengono le ischemie cerebrali.
La media del cardiologo è stata, quindi, come la media del pollo di Trilussa: i tubi si rompono quando la pressione s’impenna e sale a 210, mica se la media è sonnolenta a 150!
Alle ore 1.45 del 2 marzo, la mamma mi chiese di accompagnarla in bagno. Dopo un breve tempo buttai un occhio, e la vidi immobile in piedi con la testa reclinata in avanti, aggrappata al lavandino.
Capii e corsi per tenerla stretta; dopo un istante perse i sensi tra le mie braccia. Riuscii a rallentare la caduta e la deposi sul pavimento con dolcezza.
La mamma giaceva a terra ad occhi aperti come se fosse senza vita.
Afferrai il cellulare con la mano sinistra e, mentre rispondevo all’operatore in maniera sconnessa, con la mano destra tentavo un grossolano massaggio cardiaco.
Si risvegliò dopo non so quanto tempo, comunque durato un’eternità, con un’espressione dapprima disorientata e poi ritornò in sé, tanto che con il mio aiuto si rimise in piedi e ritornò a letto.
«Mamma, ora arriverà un’ambulanza, devi andare in ospedale»
Non pareva convinta, non voleva andare via.
«Sei stata molto male, sei svenuta…è necessario che tu vada»
E lei fece spallucce con rassegnazione, per intendere:
«Ah vabbè, se proprio non se può fare a meno, fai tu».
Gli operatori portarono via la mamma senza barella perché le prime due rampe di scale di casa mia sono strette e ripide. Aiutata dagli operatori, ebbe la forza di scendere le scale e salire sull’ambulanza con le proprie gambe.
Durante la degenza la mamma si rimise in maniera accettabile, aveva la mente lucida, qualche debolezza nella prensione con la mano destra, un eloquio un po’ rallentato e strascicato ma perfettamente comprensibile. D’altra parte l’ischemia aveva colpito il lobo fronto-parietale sinistro. Forse l’ischemia era avvenuta qualche giorno prima senza evidenziare sintomi facilmente interpretabili da chi medico non è. La lesione cerebrale fu però infida poiché le lasciò anche il regalo di crisi epilettiche, controllabili farmacologicamente, che turbavano l’ancora bel volto.
A casa, per sette giorni, la mamma condusse una vita accettabile, compatibilmente con il nuovo stato di salute. Per quanto mi riguarda mi riciclai velocemente, e volentieri, in badante. Avrei avuto bisogno di un aiuto, ma ce l’avremmo senz’altro fatta!
Ebbe anche un incontro positivo con il fisioterapista che rimosse il suo timore di salire e scendere i tre gradini interni che separano la sua stanza da letto dal bagno. E per rieducare la destra indebolita prese perfino il filo di cotone e il suo amato uncinetto, intendendo riprendere a produrre i suoi capolavori, esattamente come pochi giorni prima. E si sforzava di camminare il più possibile con il deambulatore ed anche con il bastone a quattro punte. Caparbiamente desiderosa di ritornare alla normalità. Una vera combattente.
L’entusiasmo in previsione di una imminente, buona, ripresa fu turbato la mattina successiva.
Il 20 marzo la mamma si svegliò stranamente in preda alle clonie epilettiche, già conosciute, che si dileguarono con i farmaci, a cui si aggiunse l’incapacità di tenere ferma la mano destra; e poi il linguaggio quella mattina perse nitidezza, ed ancora, la sera, si aggiunse una difficoltà nell’impugnare il cucchiaio.
La mattina successiva le manifestazioni epilettiche, seppur ancora sensibili ai farmaci, riapparvero più nette. Nel pomeriggio la situazione peggiorò tanto che il braccio destro era diventato così debole da non riuscire a tenere dritto il bastone ed anche la gamba destra risultava cedevole. Il linguaggio diventò ancor più confuso, non riuscendo a pronunciare correttamente semplici parole.
Chiamai il pronto soccorso. La mamma fu portata in ospedale con qualche titubanza perché alla dottoressa non pareva una situazione preoccupante eseguendo gli ordini e in assenza di bocca ed occhio storti. Finalmente la dottoressa si decise di portarla in ospedale quando le misurò la pressione, ovviamente molto alta.
Io mi vestii per accompagnarla al pronto soccorso; mi misi quindi una mascherina e i guanti di lattice.
«Ma lei non può mica entrare in pronto soccorso! Verrà informato dall’ospedale telefonicamente»
E mi misi a piangere.
La mamma, allora, mi ordinò con sguardo severo e determinato:
«An zighèr brîsa, sèt? A m arcmànd», mi raccomando non piangere mica!
Nuovamente discese le scale aiutata, ma con ovvie maggiori difficoltà rispetto al ricovero precedente. Fu messa sulla barella e così condotta verso l’ambulanza. Prima di entrare nell’ambulanza, si girò, e con l’indice puntato, mi ripetè:
«An zighèr brîsa!», da vera mamma che pensa più al figlio che a se stessa.
E da quel momento iniziò una specie di corsa verso l’abisso.
Dopo qualche ora ebbi una chiamata dal pronto soccorso per avere chiarimenti sulle circostanze precedenti al ricovero e sulla terapia farmacologica.
Il giorno successivo una dottoressa mi informò della presenza di una masserella al cervello.
Il giorno ancor successivo, lunedì 22 marzo, riuscii a vederla per un’ora nel reparto di medicina interna.
Aveva fatto da poco l’elettroencefalogramma.
Era profondamente assopita.
«Mamma, mamma…sono Marco. Mi riconosci?»
Nulla, nessuna reazione.
La accarezzai, le solleticai le mani.
Nulla.
Ad un certo punto socchiuse per qualche istante l’occhio sinistro senza riconoscermi. E poi di nuovo seguì il profondo torpore.
Le presi la mano sinistra. Mi strinse un dito. Nient’altro.
Andai a parlare con la dottoressa:
«Forse è prematuro, ma vorrei sapere quali sono le condizioni di mia mamma Bruna Sammartino»
«Non è prematuro, abbiamo già le idee molto chiare: sua mamma ha un tumore al cervello molto aggressivo»
Ebbi solo la forza di chiedere:
«È operabile?»
«No»
Scendendo le scale inforcai gli occhiali da sole per nascondere il pianto. In automobile attesi una mezz’ora prima di partire, per calmarmi – in quelle condizioni avrei potuto fare un incidente – per telefonare ai miei pochi parenti ed agli amici più cari.
Arrivato a casa, in pomeriggio, ricevetti un’altra telefonata dall’ospedale: la mamma era stata trasferita in neurologia alla stroke unit, come nel ricovero precedente.
Il 23 marzo venni chiamato dalla neurologa. Corsi all’ospedale.
«Le immagini della risonanza magnetica conducono ad una diagnosi incerta. Potrebbe essere un tumore oppure un ascesso cerebrale»
«È operabile?»
«No. Tra poco parleremo di questo anche con il neurochirurgo».
Questi confermò le parole della neurologa.
«Che sia un tumore o un ascesso cerebrale, sua mamma non è operabile. La situazione è talmente complessa che, vista l’età, non supererebbe l’intervento. L’unica opzione possibile, qualora la massa fosse un ascesso, è la terapia antibiotica»
E la neurologa, con espressione più chiara delle parole, alzando le spalle, concluse:
«Proviamo»
Non una cura certa ma una roulette russa, o la va o la spacca.
Stante la situazione del Covid, la neurologa per una settimana mi vietò di vedere la mamma, avrei potuto avere solo notizie telefoniche durante le quali appresi che era diventata emiplegica  destra, cioè paralizzata per metà, che non parlava più, che non deglutiva e che quindi doveva essere alimentata con sondino, e che i bisogni fisiologici avvenivano con catetere e pannolone.
Un disastro.
Durante una delle mie quotidiane telefonate, la neurologa mi informa che non prevedeva per la mamma un esito favorevole.
Dopo un settimana riescii a vedere la mamma per whatsapp. Mi riconobbe immediatamente e scoppiò in pianto. E pure io.
Ricevetti successivamente una telefonata dalla geriatra che, confermando la gravità della mamma, finalmente, mi concesse un quarto d’ora di visita.
«Può fare bene alla sua mamma».
La situazione era stata descritta telefonicamente in maniera esatta.
La mamma mi riconosceva, e il suo sguardo esprimeva quello che la bocca non poteva dire.
Arrivò ben presto un’altra novità: secondo la geriatra, la mamma, una volta dimessa, avrebbe potuto essere seguita a casa con grande difficoltà, essendo un’ammalata complessa.
Io rifiutai questa prospettiva, risposi che mai avrei messo mia mamma in una casa di riposo.
Secondo la fisiatra, invece, la soluzione domestica sarebbe stata possibile però con l’aiuto di presidi specifici per la movimentazione della mamma, se avessi avuto lo spazio adeguato e con l’ausilio infermieri ed altro personale specializzato. Dunque una soluzione da organizzare per bene.
Soluzione non immediata, poiché la mamma il 3 aprile fu trasferita in un ospedale privato per la lungodegenza, in attesa di una qualche evoluzione della malattia.
Parlai nuovamente con la geriatra:
«Questo mese di lungodegenza ci servirà per capire la natura della malattia della mamma. Ci sono dei movimenti in atto…per questo abbiamo già programmato una nuova risonanza magnetica che farà tra un mese».
Ed io:
«Dottoressa, però, mi parli chiaro, quali sono le prospettive per la mamma?»
«Gli antibiotici, nel cervello, arrivano fino a un certo punto…»
«E quindi quanto ci si può aspettare?»
«Un mese, due mesi, un anno se non contrarrà alcuna infezione»
E così la Bruna fu trasferita nel nuovo ospedale per la lungodegenza. La dottoressa che compilò l’accettazione ebbe subito la premura di dirmi che la mamma era in pericolo di vita. Aggiunse che in quell’ospedale non venivano somministrati i pasti e che i parenti si sarebbero dovuti, in tal maniera, organizzare. Decisi di andare per il pranzo e trovai una signora per la cena. Avevo saputo che alla piccola, veloce, colazione avrebbero potuto provvedere gli inservienti dell’ospedale.
La nuova stanza stava al terzo piano denominato ‘Reparto vegetativi’. Senz’altro il direttore dell’ospedale avrebbe potuto trovare una denominazione migliore.
Nel corso dei giorni aveva ripreso a deglutire per cui era previsto poterla nutrire con una dieta cremosa. La mamma da qualche giorno aveva piena coscienza del suo nuovo stato, cioè la paralisi e l’afasia. Ovviamente era depressa e le somministravano farmaci anche per questo…antidepressivi ma anche, e soprattutto, cortisone, due tipi di antibiotici, antipertensivi, antiaggreganti con iniezioni, compresse tritate in acqua gelificata e fleboclisi.
Con la mano sinistra, capace di muoversi, mi guardò con occhi colmi di infinita, dolcissima, tristezza. Mi prese una mano, poi la cannula della fleboclisi, la ritorse e la strinse per impedire il flusso del liquido.
«No, mamma, che fai? Questa è la medicina!»
Liberai la cannula dalla sicura stretta, ma la mamma ripetè il gesto contro di sé.
Chiamai gli infermieri ed ebbi il dolore di vedere quella mano pienamente vitale legata alla sponda del letto.
Il giorno successivo verso le 19 accadde una strana cosa che difficilmente dimenticherò.
Nella stanza, praticamente, eravamo solo in due, perché l’altra degente era priva di coscienza.
La mamma aveva uno sguardo ben vigile e, pur senza parole, appariva ben in contatto con il mondo esterno, soprattutto con me.
Parlai a lungo della nostra famiglia e lei seguiva attentamente il discorso, approvando con un cenno del capo ogni parola.
Poi, come un lampo, un pensiero:
«E se…»
Tradussi il pensiero in domanda:
«Mamma, in questi giorni hai sognato il babbo? Il babbo ti ha detto qualcosa?»
Trascorse qualche secondo, lei girò il capo da una parte, poi mi fissò e mosse le labbra. E principiò a parlare un linguaggio confuso, strascicato, sfuggente.
Compresi solo poche parole:
«Io voglio che tu che dio…»
E dopo non capii più nulla.
E ripetè continuamente, quasi ossessivamente, quel discorso per quasi tre settimane senza che io riuscissi a comprenderne il senso. Evidentemente aveva in mente un pensiero molto preciso, aveva delle cose da dirmi, forse cose da mamma in sofferenza, forse cose importanti come tutte le parole di una mamma. Si frapponeva tra lei e me un grande ostacolo non aggirabile: quella infida, maledetta quanto inaspettata, lesione cerebrale.
Riuscii ad avere, attraverso la caposala, un colloquio con la dottoressa che seguiva il decorso clinico della mamma.
Arrivò nello studio con lo sguardo scocciato. Posò non garbatamente sulla scrivania la pesante cartella clinica e queste furono le sue prime parole:
«Buongiorno sono la dottoressa P. e le faccio presente che, per sicurezza, non dovremmo trovarci in questa stanza a parlare. D’ora in poi noi comunicheremo solamente per telefono, a quest’ora»
Preciso che io avevo ben due mascherine, guanti di lattine e che eravamo ben distanziati.
«Qualora non fossi reperibile, la richiamerò. E poi tenga presente che, comunque, qualora vi fosse la necessità la chiamerò io». Cioè, in sintesi, il messaggio fu: «Non mi rompa troppo i coglioni».
Dando fondo alla mia esemplare, quanto infinita, pazienza chiesi alla dottoressa P.:
«Dottoressa, quali sono le condizioni di mia madre?»
Con accentuata insofferenza lesse la sintesi della lettera di dimissioni dal precedente ospedale, peraltro già da me ben conosciuta, e commentò:
«Sua madre è una mina vagante».
La permanenza nel nuovo ospedale trascorse con piccoli, millimetrici, miglioramenti. I pasti avvenivano su di una sedia a rotelle, le pulivo il volto e le unghie, le pettinavo i capelli intricati dal gel dell’elettroencefalogramma. E poi mi sedevo accanto a lei, le tenevo le mani, le accarezzavo le mani e il volto perché sapevo che era depressa.
Forse pensava di essere stata abbandonata in quel posto, ed io, ogni giorno, le ripetevo:
«Mamma, tu sei stata molto male. Non ricordi? Questo è un vero ospedale e dovrai essere curata a lungo. Quando sarai guarita tornerai a casa con me».
Ora sapevo di mentire: i medici, primo fra tutti il medico di base, mi avevano ancora sconsigliato di portare a casa la mamma per via della complessità e della severità del suo stato di salute. Per cui mi convinsi, a dir poco con dolore, di inserire la mamma in una struttura con mezzi e persone adeguate di fare fronte alle sue particolari necessità. Una scelta difficile, piena di scrupoli, titubanze e sensi di colpa poiché ritornai sui miei passi. Capii che non era un tradimento, ma che, vista la gravità della malattia, quella soluzione per me e per lei dolorosa, sarebbe stata il suo bene.
Durante gli ultimi giorni di permanenza nella lungodegenza, io osservai dei cambiamenti che non facevano presagire nulla di buono. Un malessere generale, e poi assopimenti repentini, leggere clonie alla mano e al volto, nicchiava continuamente come se stesse provando un dolore.
Telefonai alla dottoressa P. che mi rassicurò:
«I parenti osservano delle cose che i medici spesso non riscontrano. Stamane ho visitato sua madre e mi è parsa stazionaria».
I parenti purtroppo non sono scemi.
Il 23 aprile, prima di uscire per andare all’ospedale ricevo una telefonata della dottoressa P.:
«Da oggi l’ospedale è chiuso a tutti i parenti. Il personale penserà a somministrare i pasti. La informo che questa mattina la mamma aveva la febbre a 37.8»
Io pensai che questo significasse una resistenza agli antibiotici e che l’ascesso cerebrale avesse fatto un’ulteriore breccia.
Dopo qualche ora ricevo una nuova telefonata della dottoressa P.:
«Sua mamma ha un focolaio polmonare. Abbiamo eseguito un tampone per il coronavirus. Le faremo conoscere il risultato»
E il giorno dopo la mamma fu trasferita dalla lungodegenza ad un reparto per ammalati di coronavirus.
Nel nuovo ospedale la prognosi della mamma fu giudicata totalmente sfavorevole, per via di due infezioni molto gravi ed altre comorbosità.
Da tre giorni, invece, ho avuto qualche notizia non negativa sul versante covid, anzi oggi il medico mi ha detto che le è stata diminuita la quantità di ossigeno poiché respira meglio e che è anche più orientata.
La Bruna è una grande combattente e so che farà di tutto per rimanere al mondo. Non vuole lasciarmi solo.
Per quanto mi riguarda, martedì 5 maggio ho terminato la quarantena. Non ho avuto alcun sintomo e spero che continui così.
Questa è la storia dalla Bruna, e conseguente la mia, dall’1 marzo ad oggi.
E’ impossibile prevedere quale sia il futuro della mamma.
Io ho la speranza che  ce la faccia a vincere la battaglia contro il coronavirus e di poterle tenere la mano, di accarezzarla, di riempirla di baci.
L’unica cosa certa è che, se ci assisterà un briciolo di fortuna, la mamma non potrà ritornare nella sua casa con me, con i suoi gatti e le sue cose.

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