Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte ventiduesima

Le persone sono unite da legami che permangono nel tempo. Dopo di sé non è semplice ritrovarsi in un complicato labirinto ma le anime affini si cercano incessantemente: prima o poi, trascorreranno anni, secoli, si rincontreranno. «Io e tuo padre ci incontrammo in una vita precedente a questa. Così mi disse.» «Come lo apprese? Forse durante la catalessi?» «Non so, ma dopo quella notte disse qualche parola, fece qualche allusione, qualche ammissione a spizzichi e bocconi e allora iniziai a insistere. Sai bene che ho la testa dura, come diceva sempre il babbo. E poi un bel giorno, mi raccontò questa storia.» Lontano, a metà del diciassettesimo secolo, in una lontana valle sormontata dalle solenni montagne d’ Oriente, le fitte piogge di fine estate avevano reso limacciose le strade. Dall’alto, una nebbiolina fitta, densa, si mischiava al fumo proveniente dalle pire in riva al fiume che incenerivano miseri corpi deturpati dal vaiolo. L’aria sapeva di carne, grasso e ossa bruciati, un fetore nauseante a cui si mischiava il profumo del legno di sandalo che ardeva nelle pire accatastate per i ricchi. Riccardo, aveva quindici anni, tirava con fatica a mano un carretto carico di terraglie per ritornare nella sua casupola fuori dalle mura della città. Ogni passo gli costava fatica che si tramutava in rivoli di sudore che grondavano a fiotti sulla ruvida giacchetta di canapa coperta di cenere umana e i pantaloni erano luridi di melma. Un cappello di paglia sfilacciata riparava i grossi capelli bluastri dalla greve atmosfera umida e una pezzuola di lino, annodata alla nuca da cui spuntavano i vivaci occhi neri, ne attenuava il macabro odore. Vendere quelle pesanti, fragili, merci? A chi? La città era stata decimata dall’epidemia e i sopravvissuti avevano altro a cui pensare anziché comprare orci e stoviglie. Non aveva più alcun parente, tutti presi dal vaiolo. Prima di andarsene, la madre aveva però insufflato a Riccardo, unico figlio, una polvere di sue croste infette, così come aveva sentito da un bramino, che l’aveva reso immune al morbo. Era salvo per la madre ma non ne sapeva il perché. Ormai non si chiedeva più il perché di nulla, pensava solo al faticoso andare avanti. Fuori dalle mura della città, avviandosi per la propria capanna, Riccardo incontrò una bambina in lacrime che vagava piangendo senza meta da un ciglio all’altro della strada. era scivolata sulla melma e cadendo s’era lordata le mani, il volto e il bell’abito di seta rossa. Il giovane si avvicinò per soccorrere la bambina e repentinamente le si prosternò davanti. Il giovane riconobbe in Bruna la Dea vivente bambina. Era scivolata, le pietre avevano abraso le mani nell’attenuare la caduta. La melma aveva lordato il volto e la bella tunica di seta rossa ricamata con fiori dorati e bianchi loti. Fini gocce di pioggia avevano sciolto l’occhio di fuoco sulla fronte, il bistro che marcavano gli occhi era colato sulle guance, come avevano scolorato l’acceso rosso delle labbra. Riccardo tra le gente festante durante il corteo d’intronizzazione la vide bellissima riccamente vestita, agghindata di monili dorati, seduta sul carro sgargiante di fiori tirato da una coppia di buoi per ogni strada della città. Ora delle pustole di vaiolo sul volto e sulle mani, nel corso di una notte, assai prima del menarca, le avevano corrotto la perfezione e lo spirito della Dea aveva abbandonato subitamente l’involucro del corpo di Bruna. Gli intendenti del Palazzo della Dea applicarono l’inflessibile regola, e detto fatto la bambina perse il trono. Tenuta a grande distanza, un servo del tempio condusse Bruna davanti alla casa da cui era partita qualche anno prima, lasciandole un sacchetto di monete. Ma  nessuno la accolse: terrorizzava perfino la remunerazione che aveva con sé quale divinità detronizzata. Il morbo non aveva offeso i lineamenti nobili del volto poco fanciulleschi: labbra carnose, scrigno di denti lucenti come perle, occhi neri dalla forma perfetta, sormontati da sopracciglia ben disegnate. Lo sguardo della piccola sfortunata, dolce, intenso, forte, penetrò così profondamente in Riccardo che provò da subito sincero amore, così Bruna contraccambiò il medesimo sentimento per il giovane uomo. Riccardo raccolse la bambina e se ne prese cura. Costruì una seconda capanna non lontano dalla sua, vi allestì un semplice giaciglio, la riempì con qualche povera suppellettile, cucì per lei delle semplici tuniche di tela di lino. L’intero corpo si coprì in breve di vescicole così immergeva Bruna in un ampio bacile di rame con acqua di riso per alleviarle il prurito, poi delicatamente con delle giovani foglie spalmava sulla pelle una poltiglia di curcuma e succhi di piante lenitive raccolte nella foresta. 
E il ragazzo chiese aiuto a un medico. Questi lasciò un amuleto ed un farmaco, ma non s’ebbe alcun miglioramento: la febbre aumentò poi la piccola passò al delirio. Riccardo, tenendola sulle ginocchia, piangendo, invocò allora la Dea che l’aveva abbandonata perché avesse pietà della fanciulla e la conducesse nella dimora celeste oltre le montagne. Allorché il piccolo cuore cessò di battere, l’anima di Bruna, staccandosi dal corpo, giurò di ritrovare Riccardo per contraccambiare il bene da lui ricevuto. Non avevo mai seguito alcun racconto con maggior attenzione. Scrutai il suo volto: la mamma aveva quasi sessant’anni ed era ancora bella come nei giorni lontani della giovinezza. I lucidi capelli neri, il bei denti perlacei, la forma dei grandi occhi, le labbra carnose, il colore olivastro della pelle, ancora ben tesa erano una sottile eredità proveniente da secoli passati e da terre lontane? E la mamma concluse: «Chi ama profondamente, prima o poi, restituirà il bene in egual misura. Come in una bilancia l’equilibrio tra i piatti si ottiene con lo stesso peso, così non può essere che qualcuno dia di più e un altro di meno. Il vero amore va regolato così.»

(Continua)

 

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