Una strana domanda (Parte prima)

Un collega, un amico, diversi anni fa, alle otto del mattino davanti al distributore del caffè mi fece questa domanda:
« Ti piacerebbe conoscere il giorno in cui morirai?» È verità.
Io sgranai gli occhi senza prenderlo sul serio e risposi nella maniera più prevedibile, come risponderebbe la maggiore parte delle persone, risposta prevedibilmente ripetuta da tutte le persone a cui ripropose la domande. Guardate un po’ quali sono i discorsi che si fanno in un anonimo ufficio statale!
Sento lontano lo sconcerto che mi causò e alla luce dei cambiamenti nella mia vita – la pensione, la malattia della mia mamma, la sua scomparsa, la pandemia e il trovarmi in età matura – mi sono preso la briga di ripensare a quella domanda.
Ho pensato che se ognuno conoscesse il momento della morte, la data dovrebbe essere indicata esattamente sul documento di identità, passaporti e su tutti gli atti ufficiali con una seguente frase neutra come questa:
Il signor Tal dei Tali dispone per sé di X giorni, Y ore, Z minuti, contati sul calendario gregoriano e con riferimento all’ora universale.
Il tempo trascorso tra il nulla primordiale e il cosmo attuale, osservato con telescopi, o quello impiegato dai viventi per evolversi è troppo imponente per essere compreso come esperienza reale, enorme macigno di pietra che nessuno può scalfire, così pure la durata della vita individuale appare rappresentabile dalla mente con difficoltà; espressa in giorni, ore e minuti diventerebbe un’idea assai più familiare perché, rientrando nell’ambito dell’ordinaria esperienza, tali sono i giorni, le ore e i minuti: dire ventinove mila duecento venti giorni e quarantotto minuti, significa un’esistenza che si protrae per ottanta anni, ma questo numero, seppur grande, appartiene all’ambito della umana capacità di pensare e concepire.
Rendendo costantemente presente agli uomini l’idea di finitudine sino dalla nascita o, perlomeno, dal momento in cui possono bene intendere – quasi un memento mori recitato in unica soluzione così lentamente da durare per l’intera vita, un mantra profondo e ancestrale intrecciato agli echi impalpabili dell’Universo – la paura dell’Omega, altrimenti estrema e incommensurabile, svanirebbe: la morte non sarebbe più la fine della vita, cioè l’evento più tragico da immaginarsi, ma ne rappresenterebbe un necessario aspetto; significherebbe, cioè, che la quantità di tempo assegnata da chissà chi, forse da colui che ha creato anche il destino, ha un termine, così come termina ogni cosa, come termina, inebriandosi con un certo numero di sorsi, il vino inebriante e purpureo in un coppa di cristallo. Il corpo vivente parrebbe un breve rigurgito del nulla, impermanente, irrilevante rispetto al senza fine del non essere; questa consapevolezza cadenzerebbe, fin dalla venuta al mondo, dall’Alfa del tempo individuale, ogni azione senza scialare alcun istante, amministrando con giudizio la dote di tempo concessa a ognuno all’atto della nascita. Ogni momento si inanellerebbe con quello successivo per cui l’essere al momento della morte sarebbe saturo di sé stesso e sazio di tempo, senza rimpianti per ciò che non è stato. Dall’immanente consapevolezza della finitudine gli individui trarrebbero forza infinita, trarrebbero energia dal non essere.
Né si potrebbe prefigurare alcuna violazione del destino. Il tempo se, da un lato, diventerebbe la vera forza motrice dell’individuo permettendogli di seguire i propri percorsi, le proprie ambizioni, i propri desideri, la propria volontà, non verrebbe cioè intaccato il libero arbitrio, dall’altro, se gli uomini possono essere paragonati ad automezzi, solo la massima durata del viaggio, quindi la distanza percorribile, parrebbe predeterminata. La conseguenza sarebbe un’esistenza prevalentemente nel presente, uomini meno umani, meno sapiens sapiens abiterebbero città quasi alveari o formicai; ritornerebbe in superficie la natura animalesca, apparentemente nascosta dal pollice opponibile e dalla tecnica. Conoscendo esattamente il quando del momento finale, ogni uomo vivrebbe senza accumulare ricchezze per sé, per i propri discendenti, per altri eredi o per altri ancora; il capitalismo quindi crollerebbe. Ma soprattutto la religione consolatoria, quella basata sulla paura per la morte, verrebbe a cessare. Pregare per ingraziarsi ipocritamente questo o quel dio, costituirebbe un’azione priva di senso, ammettendo anche un celeste fattore infinitamente buono dispensatore di vita, perché il termine che egli assegnerebbe sarebbe immodificabile.
Tutto questo, invero, mai apparterrà alla natura e ai destini delle cose umane; la scienza, nonostante le sue grandi conquiste moderne, continuerà a rispondere solo in termini probabilistici parlando genericamente di rischi, pertanto nemmeno il migliore dei medici sarà in grado di dire quando un ammalato morirà anche se la sola possibile diagnosi fosse, appunto, quella più sfavorevole. Nemmeno arti speculative possono approssimarsi alla determinazione del momento finale; lo studio degli influssi astrali, la lettura dei segni della mano, la numerologia, il misticismo cabalistico, oppure i medium più capaci e segni soprannaturali, tutti egualmente falliranno, con la risata crassa dei vari dii attualmente in carica, che non mostrano certamente interesse perché cambi l’antifona. Se effettuassero questa piccola riforma, proverrebbero troppe grane dal mondo, troppe lamentele di tenore ideologico, se non politico: perché non assegnare un’uguale durata di vita a tutti anziché lacerti temporali di variabile durata senza un apparente criterio? E se esistesse un criterio occorrerebbe anch’esso discuterlo con i rappresentanti dell’umanità intera. Meglio trattare con chi genera il male che ricevere certe richieste egualitarie, anzi meglio non cambiare la vecchia antifona. Gli dii sono assai simili al sentire degli uomini.

(Continua)

Dayner Tafur-Díaz: promessa che è gia realtà

Dayner Tafur-Díaz è un direttore peruviano piccolo d’età, appena ventiquattro anni, come minuto nel corpo, che sul podio diventa un magnetico gigante, un napoleone della bacchetta.
Il concerto di ieri sera 28 aprile all’Auditorium Manzoni eseguito dall’orchestra del Teatro Comunale di Bologna così si componeva: Decisamente allegro, ouverture da concerto di Nicola Campogrande, il Primo Concerto in fa diesis minore per pianoforte e orchestra di Sergei Rachmaninov e la Seconda Sinfonia in re maggiore di Jean Sibelius.
Commissionato da Riccardo Chailly, di cui è stato anche il primo interprete a Milano nel 2022 in Piazza del Duomo, il brano di Campogrande è musica assai piacevole consapevolmente composta in un rassicurante ambito tonale, dalla bella orchestrazione, lontana da pretese di qualsiasi sperimentazione, di pseudo avanguardismo o da stancante intellettualismo. Evviva! È musica assoluta per grande orchestra il cui titolo ne esprime sia il programma che l’agogica, da cui fanno capolino le colonne sonore di grandi film, destinata ad avere un favorevole impatto sul pubblico, come è avvenuto ieri sera.
Il concerto di Rachmaninov del 1890-91 è opera di un musicista diciannovenne, fu rivisto dal compositore nel 1917. Risulta manifesto il pensiero al concerto per pianoforte e orchestra di Grieg pur non avendo di questo la felicità melodica; ben orchestrato, la parte solistica necessita di un virtuoso ma non ha le peculiarità delle opere pianistiche successive del compositore russo.
Grande musica è quella di Sibelius, nonostante che compositore non goda alle nostre latitudini di grande popolarità e nemmeno di grande favore presso una certa critica che in essa non trova le inquietudini anticipatrici della dodecafonia e dell’avanguardismo. È musica assolutamente originale svincolata dalla necessità di avere un programma che la ispiri, svincolata da modelli precedenti, denotata da una bellezza melodica di ampio respiro.
Il pianista Nikolay Khozyainov, pur rimanendo nell’ambito di una generale adeguatezza, non mi ha particolarmente colpito né come interprete né per capacità tecniche. Il suono non mi è parso di gran fascino e l’esecuzione, con qualche inciampo, è risultata un poco grigia non solo nel concerto di Rachmaninov ma anche nei bis. Il pubblico ha comunque gradito l’esibizione del pianista russo.
Il direttore Dayner Tafur-Díaz, invece, capta su di sé l’attenzione dell’ascoltatore fin dal primo attacco dell’orchestra. Non ha solo un gesto della mano destra magnifico grande, elegante, armonioso, con cui non cessa nemmeno per un momento di dare il tempo,  dirige con tutto il corpo ma con compostezza, senza istrionico protagonismo, senza fare l’attore. Sembra rappresentare con il suo sé la musica che sta interpretando. Gli strumentisti hanno così suonato splendidamente con ampie architetture di legato, grandi sonorità controllate e bellissimi impasti; i fiati, in particolare gli ottoni, non hanno avuto alcun momento di incertezza. Insomma un giovane direttore che pare possedere il crisma della grandezza. Spero per lui una luminosa carriera.
Al termine della sinfonia lunghi sonori applausi e ovazioni convinte, anche da parte mia.

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