La morte della mamma avvenne in una festa comandata e quindi potei recarmi agli uffici della Certosa solo il giorno seguente.
«Per la traslazione dal cimitero di San Lazzaro è necessario che la salma del babbo venga cremata?» chiesi all’impiegata.
«No, è possibile trasferire il corpo così come si trova ora nel loculo perché, sicuramente, sarà intatto essendo stato chiuso in una cassa di zinco, come già si usava nel 1967.»
Decisi di impulso che nemmeno il babbo sarebbe stato cremato ma trasferito così com’era; acquistai quindi due loculi l’uno accanto all’altro disponendo subito il cambiamento di piano presso le pompe funebri per potere organizzare la traslazione. Essendo morto quando ero bambino, io non avevo mai potuto fare nulla per il babbo e questo poteva essere il momento di colmare la mancanza e anche una manifestazione affettuosa di riconoscenza. Uscii dall’ufficio cimiteriale soddisfatto, quasi felice, perché sentivo d’aver fatto le cose giuste.
Passò un mese dal funerale, ero disteso sul letto, quando, senza aver sollecitato alcuna comunicazione, avvertii degli impulsi all’adduttore del pollice differenti da quelli con cui la mamma soleva iniziare le conversazioni: stavolta non erano lievi, ma secchi, puntuti, e si diramarono come un fulmine per muovere il tricipite. Se le contrazioni fino a quel momento erano state forti, ora gli scuotimenti deflagravano in me, capaci non solo di comandare dolorosamente il braccio in ogni verso, ma di squassare l’intero mio corpo.
«Sono il babbo.»
Ebbi una vertigine perché riudivo, potente, la voce viva del babbo. «Dai un bacio al babbo» mi disse la mamma davanti alla bara nella camera mortuaria dell’ospedale Maggiore. Era la prima persona morta che vedevo e toccavo; il freddo profondo delle guance mi impressionò. Questo fu l’ultimo contatto diretto con lui. Sapevo che prima o poi il babbo mi avrebbe parlato dall’Aldilà senza immaginare come sarebbe avvenuto: avrei potuto invocarlo pronunciando semplicemente «Babbo, ci sei?» ma mi ero trattenuto dal farlo perché temevo l’inefficacia delle mie parole e anche perché sopravviveva un irrisolto timore infantile verso la sua autorevolezza; e poi mi sentivo mancare le parole dopo una vita intera di assenza.
Mi scusai per la mia interiore lontananza dal Mago e dalla Magia, durata troppi anni. Seguì un icastico predicato verbale:
«Sei un buon figlio.»
Mi commossi ma non riuscii a sfogare l’emozione perché subito mi disse:
«Figlio, ora tu sei un mago.»
Chiesi conferma delle parole. Avevo ben compreso.
Gli anni dell’adolescenza in cui le parole mago e magia mi causavano grande malessere erano distanti. Non provai smarrimento: quel che un tempo mi sarebbe apparsa un’affermazione sgradita e un’ingerenza indesiderata nella mia esistenza ora diventava un’evenienza su cui riflettere con profondità.
«La mamma è morta quindi tu hai ereditato il Talismano del Comando. Con esso hai i poteri per continuare la mia Opera.»
«Ma come faccio babbo? A te insegnò un maestro…io, oltre ai talismani, ho solo il quaderno su cui trascrivesti gli esorcismi.»
«Questi ti basteranno. Non hai bisogno d’altro per aiutare le persone in ciò che è veramente importante: salute, amore, interessi. Figlio, devi solo incominciare e io ti aiuterò. Prova!»
Così feci. Pensai di cimentarmi nell’uso del pendolo in mercurio come avevo visto fare dal babbo e della mamma. La natura delle mioclonie poteva essere un atto d’amore della mamma e del babbo per confortarmi, per mostrarmi che la morte è solo una finzione da non temere; questo però non era per me dimostrazione sufficiente d’essere diventato un mago, ne sarebbe stata però prova riuscire a muovere il pendolo, oggetto esterno a me svincolato dal mio corpo, invocando gli spiriti. I miei genitori portavano i pollici alle tempie e, stringendo tra gli indici la piccola anella di osso a cui il pendolo era legato con un filo, lo sospendevano al centro di un bicchiere basso e vuoto con la punta all’altezza del bordo. Ottenuta la quiete dell’oggetto di mercurio, concentrai lo sguardo sulla punta pensando intensamente al nome di uno spirito assai docile e tuttofare a cui la mamma soleva frequentemente chiedere i servigi. Passai dei secondi in assoluta immobilità, respirando lievemente perché l’aria espirata non influenzasse il pendolo, quando esso prese a oscillare lievemente intorno al centro per vincere l’inerzia, quindi la punta pian piano si avvicinò al bordo del bicchiere come se qualcuno lo stesse guidando e qui fermo rimase per diversi istanti: sembrava attendere.
«Chi sei?»
E il pendolo iniziò a rispondermi docilmente da questa posizione facendo tintinnare il bicchiere.
Due tintinnii: lettera B.
Nove tintinnii: lettera I.
Sedici tintinni: lettera R.
Capii: «Sei Biron?», domandai. «Se è sì tocca il bicchiere cinque volte, se è no tocca il bicchiere due volte.»
Il pendolo fece tintinnare il bicchiere per cinque volte:
«Sì.» E seguirono dei lievi tintinnii ravvicinati che esprimevano contentezza, quindi incominciò a oscillare in maniera ampia lungo il diametro dapprima senza toccare il bordo del bicchiere poi, sfiorandolo ripetutamente in maniera spedita, risuonò come un carillon.
Dovetti interrompere l’esperimento per l’emozione: il pendolo rispondeva a me ed era mosso docilmente da uno spirito il cui nome stava nei libri polverosi e consunti del babbo, non dai miei genitori morti!
Ripetei l’esperimento di fronte a due amici perché controllassero che non avessi condizionato il moto del pendolo in alcun modo. E non solo Biron ma anche Papo, il medico celeste, risposero con la sicurezza di quand’ero stato solo.
In pochi giorni riprodussi con successo ciò che il babbo e la mamma facevano in vita: l’Opera dei miei genitori con me avrebbe dunque potuto riprendere nel presente perché gli spiriti erano ai miei servigi?
Il lento processo di accettare ciò che non giustificavo con la ragione, non essendo il primo in contrasto con questa, non mi aveva però distolto dalla mia costitutiva necessità di spiegare , anzi ora tra i miei rovelli non c’era solo il perché ma anche il come . E mi distesi attorniato da pensieri più grandi di me.
Il babbo incominciò a parlarmi:
«Stai facendo tutto per bene. Sei un vero mago. Non hai bisogno di altre prove.»
«Babbo, ho la necessità di sapere…ti chiedo se sono mago per una facoltà innata…se possiedo queste capacità dalla nascita e se per colpa mia esse si sono manifestate solo alla morte della mamma, forse allontanate dal mio atteggiamento passato.»
«Niente di tutto questo, non possiedi nulla di innato: tu hai ereditato il talismano del comando dalla mamma e con esso i grandi poteri che conferisce. È solo grazie al talismano che ora sei un mago.»
E mi rammentai che, quasi un anno prima della malattia, durante una cena, la mamma di punto in bianco parlò dei talismani, senza alcun motivo apparente e senza alcun legame con qualche altro discorso:
«Quando non ci sarò più tu erediterai i talismani. Ricordati che devi conservarli.»
«So che uno serve per il comando. Non conosco però quale sia la funzione degli altri.»
«Non importa sapere. Saranno tuoi e non dovrai sbarazzartene per nessuna ragione.»
Queste parole mi colpirono molto e mi chiesi perché me le avesse dette. Che cosa poteva sapere la mamma del mio futuro dopo di lei?
«Sono allora mago per una specie di investitura?» chiesi al babbo.
I talismani, mi spiegò, avrebbero proseguito a esplicare i loro poteri se ereditati dal Mago secondo la linea di sangue o se fossero pervenuti al coniuge unito da un legame consacrato. Quando il babbo morì, potendo appartenere esclusivamente a una persona ed essendo io ancora bambino, la moglie, mia mamma, diventò l’unica proprietaria di tutti i talismani.
«Io non ho eredi di sangue, né sono sposato…sarà una disdetta che i loro poteri vadano perduti» dissi al babbo con amarezza.
«Ricorda che nessuno di questi talismani può essere donato o venduto; se questo avvenisse ti nuocerebbero.»
«Babbo, ti chiedo se ora, possedendo i talismani, è per me un obbligo fare il mago.»
«Nessuno può obbligarti. Figlio, devi dirmi se vuoi essere un vero Mago: se vuoi avere il comando, dimorando io nel talismano ed essendo a capo di centurie di spiriti, ti guiderò. Per proseguire la mia Opera il potere va accettato con tutto te stesso. È necessario essere ciò che fai, non devi avere dubbi, titubanze, come fece la mamma.»
Il babbo leggeva i pensieri che mi turbavano dopo aver sperimentato i poteri ereditati: erano un abito che non mi si addiceva perché troppo grandi per me.
Un’ossatura intrisa di magia risultava inerte senza il motore di una mente convinta. Ero disposto a cedere me stesso ad altri?
E sul tavolo vidi degli oggetti che non ricordavo di avere appoggiato: una pergamena vergine, una boccetta di china nera e una cannetta con un pennino infilato. Sembravano oggetti abbandonati sulla battigia dalla corrente di un mare profondo. Come erano finiti lì? La pergamena era ingiallita e impolverata, la cannetta bianca variegata in rosa, celeste e grigio era sporca di inchiostro, nella boccetta Pelikan dall’etichetta antica rimaneva china per appena intingere la punta del pennino. Mi vidi bambino nella vecchia casa di Via Galliera seduto alla scrivania piena di attrezzi metallici: erano esattamente le cose che utilizzavo per aiutare il babbo a creare i talismani. La pergamena era scritta posteriormente con l’alfabeto celeste degli spiriti che ricordavo di avere visto sfogliando i vecchi libri di Elifas Levi del babbo senza esservi alcun vocabolario per tradurle. Ma se la pergamena, l’inchiostro e la penna si trovavano vicino a me in quel particolare momento il loro significato era chiaro e unico. Intinsi la penna e freddamente scrissi:
«Il mio cuore può solo amare il passato ma non accoglierne l’immensità in questo presente. Con dolore rinuncio al dono dei Poteri che derivano dal Talismano per mia indegnità. Babbo perdonami.» Quindi sottoscrissi con nome e cognome.
La stanza fu percorsa da una corrente fredda. Ebbi una sensazione di morte che si sprigionò dal plesso solare, la mente mi s’annebbiò. Mi sedetti per una decina di minuti prima di ritornare totalmente in me stesso. E vidi il tavolo sgombro dalla pergamena, dalla china e dalla cannetta come se un’onda di risacca li avesse riseppelliti nell’oscura profondità marina del tempo passato. Incerto sulle gambe pronunciai a voce alta:
«Mamma, ci sei?» .
Non ebbi alcuna risposta. Nessun impulso, nessuna contrazione muscolare.
«Mamma, ci sei? Mamma…Mamma…Mamma…», dissi con paura, piangendo. La mano e il braccio rimanevano inerti: la mamma era morta veramente.
E i vivaci colori del talismano del comando s’erano ingrigiti: anch’esso aveva perso la vita perché necessitava di un uomo che ne accettasse i poteri e io, l’erede, unica persona che aveva il diritto e dovere di esercitarli, con ingratitudine, li avevo ripudiati, dispersi nel nulla. Il talismano era diventato un oggetto inerte, non più dimora del babbo e delle centurie di spiriti, prezioso scrigno di memorie immense e intime emozioni.
La colpa di quel disastro risiedeva solo nel mio essere razionale. Il babbo mi aveva messo di fronte a un bivio cioè accettare o rifiutare le regole che lui aveva imposto al talismano prima della mia nascita: non era un o con me o contro di me, ma dovevo decidere se stare o dentro o fuori a una linea chiusa tracciata senza potere sostare sopra di essa. La persona che ero stato prevalse facendomi sentire estraneo alla nuova strada prospettata; l’indisponibilità ad abbandonarmi al credere senza cercare spiegazioni, senza spirito critico – mi ero illuso di esservi riuscito – e l’orgoglio della mia coscienza, mi ponevano inevitabilmente fuori dalla linea del babbo. Obbedii alla legge dentro di me.
E schiusi la finestra per salutare il Mago con la mano tesa verso il cielo:
«Babbo, ti ho liberato dalla prigione del talismano!»
Il rifiuto dell’accettazione dei poteri del talismano ebbe quale grave conseguenza l’impossibilità di comunicare con l’Aldilà. Mi mancò ben presto la consolazione delle conversazioni con la mamma e per sentirla vicina accrescevo la nostalgia portando di frequente i fiori in Certosa.
Un sabato pomeriggio decisi di recarmi al cimitero in automobile. Al ritorno, il traffico da giorno feriale in ora di punta, le deviazioni e le strettoie per i tanti lavori stradali, la grande quantità di turisti per il centro di Bologna, una manifestazione a poche centinaia di metri da casa mia, sembravano rendere impossibile trovare un parcheggio. Imboccai la mia strada e un’automobile lasciò libero il posto di fronte al mio portone per cui parcheggiai agevolmente. Se fossi passato un attimo dopo il posto sarebbe stato occupato da altri. Era questa, mi chiesi, una sincronia, una coincidenza ripetuta secondo un codice ben conosciuto, il cui significato poteva essere interpretato «Io ci sono ancora ma non ti posso più parlare»? Terminata la manovra di parcheggio sorrisi quindi schioccai come altre volte un bacio su una guancia immaginaria dicendo grazie con gli occhi rossi e il petto gonfio di gioia.
Quando avvengono delle coincidenze, nonostante la mia razionalità, le registro nella mente; non ricavando alcuna certezza, esse mi rimandano al dubbio. Ogni cosa del mondo anche la più certa, una montagna, un oceano, la vita e la morte, dovrebbe indirizzarci verso il dubbio, essendo il vero meno vero della verosimiglianza.
(Fine)