Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte terza

Sotto la scorza scabra, mio babbo racchiudeva una polpa di intenso sapore con un retrogusto ben più forte di questo eppure avvertibile solo dai palati più fini; io bambino non potei quindi capire appieno chi fosse, né quel che effettivamente accadeva intorno ovvero nella nostra casa, parendomi naturale ciò che per la maggior parte degli adulti sarebbe stata, invece, fonte o di meraviglia o di paura. Raggiunta l’età dell’adolescenza, sviluppando la capacità di comprendere e ragionando in maniera critica, tutte le immagini, i suoni, gli avvenimenti, si ricomposero in me con chiarezza, interpretandoli per quello che erano stati, senza inganni. Ma lui non c’era più.

Chi era dunque mio babbo Riccardo? Un uomo impavido nell’andare controcorrente, nel seguire una propria strada; con gli anni e l’esperienza, il suo essere acquisì ancor più autorevolezza oscillando tra impulsi tempestosi e profonde riflessioni ma sempre conservando un aspetto fortemente anti convenzionale, non per spregio nei confronti della gente ma per sostanziale disinteresse verso ciò che essa poteva pensare. Per esempio, prima di partire per il fronte della Grande Guerra, fu ammaliato da una zingara dopo avergli letto la mano e se ne andò a vivere con lei; la mamma mi ha riferito che, per questo, mai gli vide un atteggiamento di diffidenza verso questa gente, che anzi talora ne aveva materialmente aiutato qualcuno accettandolo in casa. E durante questo periodo della sua vita Riccardo iniziò l’interesse, e apprese, l’arte di leggere le carte, a interpretare i segni incisi sul palmo delle mani che gli svelavano gli aspetti e le molteplici storie delle persone.

L’avventura con gli zingari terminò in breve tempo con la coscrizione per il Fronte. Ma Riccardo dopo questa intraprese ben altra strada, assai più lunga, fruttuosa di prodigiosi accadimenti, fino al suo ultimo giorno.

Avvenne che nel 1922 andando al lavoro da Via Santa Caterina, dove abitava, a Borgo delle Casse lo sguardo del babbo incrociò, davanti all’abside di San Francesco, quello di un uomo di mezza età, innanzi a lui di pochi passi. Questo non passò inosservato poiché vestiva, per l’ora mattutina, in maniera elegante con un cappotto scuro di buon taglio e un cappello a larghe tese. Le mani inguantate stringevano due quotidiani, uno tedesco, l’altro italiano, e una rigonfia cartella di pelle. Riccardo piegò il capo per sbirciare il tizio e questo, senza girarsi, rallentò il passo come se avesse avvertito la pressione dello sguardo dietro di sé. Trascorsi pochi giorni, lo scambio di occhiate e lo sguardo sulla schiena si ripeterono non lontano dalla bottega di Riccardo, in Via del Poggiale, mentre caricava dal carretto, con il suo socio, una stufa in ghisa da installare.

E in un pomeriggio Riccardo si recò al cinema Bios, dove lo stesso film era proiettato sfasato in due sale attigue in modo che, terminata in una sala, la pellicola immediatamente riproiettata nell’altra. Iniziò lo spettacolo quando il tedesco si sedette accanto e toccò il braccio del babbo con la mano per rivolgergli la parola, ma questi scattò in piedi indispettito, trattenendosi dal prenderlo a cazzotti. Riccardo s’alzò in piedi di scatto, volendo evitare un avvicinamento sgradito a cui non era interessato, ma l’altro, prontamente, lo esortò con accento tedesco a non andarsene: «No, signore, rimanga, la prego; non mi fraintenda… Mi scusi perché mi sono seduto qui accanto, ma è da giorni che vorrei avvicinarla e solo oggi ho trovato il coraggio di farlo. Ho bisogno di parlarle su cose molto importanti.» Il Professore aveva uno sguardo schietto e Riccardo assecondò quell’inconsueto modo di fare conoscenza. «Se è un tipo balzano gli mollerò un cazzotto in faccia», pensò.

Uscirono dal cinema senza terminare la proiezione. Così raggiunsero il Mercato di Mezzo ed entrarono nell’Osteria del Sole, così cadente da apparire affollata di fantasmi. Il Professore parlava affabilmente con un marcato accento tedesco e locuzioni ricercate. Era nato a Berlino dove aveva studiato greco, latino ed ebraico. Viaggiò per l’Italia e, innamoratosi di Bologna, poco prima della dichiarazione di guerra del Kaiser Guglielmo allo Zar Nicola, prese in affitto una casa davanti all’Abbazia di Santo Stefano, la Sancta Jerusalem, per godere dall’altana la spiritualità che essa emanava. Viveva con piccoli frutti provenienti dalla vendita della casa berlinese, dava lezioni di tedesco e lettere antiche a liceali e universitari, faceva traduzioni e scriveva articoli per alcuni periodici della sua terra.

(Continua)

 

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte seconda

Alfredo non aveva denaro; nessuno, nemmeno il figlio, dimostrava interesse per lui, solo mio babbo. Abitava nel mio stesso palazzo in un tugurio, un basso ripostiglio, un’intercapedine tra due piani, a cui si accedeva per traverso da due gradini, dove era costretto, lui abbastanza alto, a camminare curvo; senza controsoffitto, senza luce elettrica, di giorno la luce veniva da una piccola finestra rettangolare e quando imbruniva da una candela stearica in una bugia metallica smaltata; i mobili erano un tavolo, una sedia impagliata, una branda, un piccolo armadio e una stufetta elettrica. Non aveva cucina né servizi igienici: si cuoceva il pasto in casa nostra (acquistava essenziali spartani alimenti a poco prezzo e senza marca, pasta, tonno, conserva di pomodoro, olio, fagioli presso una cooperativa di consumatori, progenitrice di un attuale colosso che da tempo ha perso di vista gli scopi delle origini di mutualità) così come veniva a svuotare il pitale ed espletare gli altri bisogni corporali; per la cura del corpo si recava in un bagno diurno in via dell’Indipendenza, di cui è rimasta memoria solo nel pavimento dinanzi all’entrata, accanto al cinema Metropolitan che, anch’esso, non esiste più. Amava tanto i libri, presi in prestito dalla biblioteca popolare vicino a casa nostra, leggendo appoggiato al tavolino sotto la finestra oppure a lume di candela.

Una permanente foschia di sigaretta, cupa atmosfera densa da sembrare di un altro pianeta, rendeva difficoltosa entrando la respirazione e faceva lacrimare gli occhi. E le inseparabili sigarette, sesto dito della mano destra, furono il comune filo di destino che legò il babbo ad Alfredo: giorno dopo giorno l’acre fumo bluastro li condusse, a una settimana di distanza, alla morte, il primo per infarto cardiaco, l’altro per complicazioni dell’enfisema polmonare.

Sia Riccardo che Alfredo furono determinanti nella nascita della mia passione per la musica, in particolare modo per l’opera lirica, raccontandomi le trame, descrivendomi le scene, comprandomi i dischi seguendo ognuno i propri gusti musicali: mio babbo prediligeva il melodramma romantico, per cui mi regalò La traviata, Rigoletto, Il trovatore, Norma, Otello, Carmen, mentre Alfredo, amando Puccini e il verismo, nonostante che di fatto fosse povero, trovò il modo di regalarmi La bohème, Andrea Chenier e Cavalleria Rusticana. Anche la politica li trovava divisi in discussioni inconciliabili essendo Alfredo comunista mentre mio babbo socialdemocratico. Avevano vissuto il fascismo e subito l’inquietudine divisiva della sinistra italiana.

Ritornato dalla guerra Riccardo, sopravvissuto alla Spagnola, iniziò il lavoro di fumista insieme al cognato in una bottega nei pressi del Canale di Reno, in Borgo delle Casse, quella che sarebbe diventata, in anni fascisti, via Roma e poi, in epoca repubblicana, via Guglielmo Marconi. Tutta la zona fu interessata da imponenti sventramenti che dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, per cui dell’edificio, sicuramente modesto, dove era situata la bottega, si ha memoria solo nelle piante catastali.

Riccardo aveva sposato Alda, che tutti chiamavano Aldina, una ragazza più anziana di un anno: lei donna assai mite e religiosa, lui donnaiolo impenitente e inquieto, costituirono una coppia che nonostante tutto durò per più di trent’anni, fino alla morte di lei nel 1952. Aldina non potè avere figli in seguito a un incidente stradale; i due non si persero d’animo e con affettuosa generosità crebbero sette bambini assegnati alla loro tutela. Uno di essi, un suo grande ritratto stava appeso ai muri di casa, ricorreva nei discorsi del babbo, Cicci, ma il cui vero nome era Silvano; era un bambino molto intelligente, eccelleva a scuola tanto che il babbo, appassionato di arte medica, avrebbe sperato per lui, una volta diventato grande, una carriera come chirurgo. Il destino non fu benevolo con Cicci poiché se ne andò in cielo poco più che decenne, infrangendo i sogni di mio babbo. I ricordi ricorrenti su Cicci probabilmente insospettirono mia mamma che gli espresse chiaramente quanto pensava: «secondo me Cicci era tuo figlio» e lui di rimando «sta’ zitta, tu sei quella che sa tutto!» Evitare di rispondere ha un significato più pregnante di una risposta pertinente. A sostegno del pensiero della mamma aggiungo che, non essendo persona ricca, perché mai Riccardo avrebbe dovuto accollarsi il sacrificio di pagare gli studi universitari a un ragazzo avuto in tutela se non vi fosse stato un motivo nascosto rilevante come un legame di sangue?

La mia dada Mina fu l’unica dei figli affidati a Riccardo e ad Alda che conobbi e le ero affezionatissimo; il suo vero nome era Palmina. Esistono persone costantemente perseguitate dalla cattiva sorte e Mina fu una di queste: finì la sua vita in un sanatorio lontana dal marito, senza potere vedere, stringere, baciare la propria bambina.

(Continua)

 

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