Nuovi Vespri siciliani al Comunale Nouveau

Con queste riflessioni mi trovo a promuovere allo scrutinio finale, a denti stretti, con la mera sufficienza i Vespri Siciliani rappresentati al Comunale Nouveau nella recita di domenica 23 aprile.
È un opera che non ho mai amato perché la trovo discontinua, senza un clima e un colore specifici; anzi penso che, rispetto alla Traviata – questa opera in anticipo di venti anni, ammesso che queste considerazioni abbiano senso e che, piuttosto, ogni creazione artistica debba essere presa solo per l’intrinseco valore estetico – I vespri siciliani siano un ritorno ai cosiddetti anni di galera, con toni un poco pompier. I numeri che mi piacciono senza riserve? La sinfonia, la bella entrata di Elena e le sue due arie, O tu Palermo, Giorno di pianto e i concertati.
Esprimerò il giudizio sulla nuova messa in scena bolognese con voti e una graduatoria, puntualizzando che essi non vengono espressi rispetto a una scala di valori assoluti, né confrontando questa rappresentazione con altre.
Il baritono Franco Vassallo, Guido di Monforte, è il cantante che ha meglio figurato perché dotato di voce sana, gradevole di timbro, ben sonora ed educata in tutta l’estensione; la dizione è assai chiara e non ha lesinato rotonde mezze voci nella sua aria, momento che ha riscosso il più convinto e prolungato applauso del pubblico. È degno di cantare Verdi. Il voto è nove.
E un bel nove va anche al coro, rinforzato da elementi del Teatro Regio di Parma, diretto da Gea Garatti Ansini, per via del bell’impasto gagliardo schiettamente verdiano.
Il basso Riccardo Zanellato, Giovanni da Procida, si attesta su un gradino leggermente inferiore rispetto al baritono per un timbro meno rotondo ovvero per una voce con qualche ruvidezza; nondimeno possiede uno strumento da basso schietto, qualità attualmente oggi spesso indisponibile. Dopo l’aria O tu Palermo ha anche lui riscosso meritati applausi. Il voto è otto e mezzo.
E una menzione per l’ottimo basso Gabriele Sagona (Il sire di Bethune) a cui assegno il voto otto e mezzo condiviso con le altre parti di fianco.
Temevo che la direttrice Oksana Lyniv potesse essere un anello debole, non da poco, all’interno dell’opera; temevo che alla direttrice fosse estraneo il lessico verdiano. E invece non è avvenuto così: pur non manifestando particolare originalità, ha condotto con tempi giusti, fisiologici per la musica in sé e non solo per seguire i cantanti; il risultato è stato quindi di buon livello. Probabilmente aiutata dall’aggiustamento elettronico dell’acustica, i cantanti non sono mai stati sovrastati dal suono orchestrale, problema invece rilevato in altre occasioni nelle conduzioni della Lyniv. Il voto è otto.
E da qua inizia il cahier de doléances.
Il soprano Roberta Mantegna è stata chiamata  imprudentemente a ricoprire  il ruolo della Duchessa Elena. La voce, seppur genericamente gradevole ma senza una vera personalità timbrica, non è adeguatamente sviluppata nel registro centrale e ancora meno in quello grave; gli acuti spesso sono striduli e nessun passaggio è stato eseguito con vera bravura, nemmeno nelle agilità di Mercé dilette amiche; inoltre, il fraseggio è apparso scialbo, insufficiente per un’eroina verdiana. Il voto è cinque e mezzo.
Arrigo è stato impersonato da Stefano Secco, ma anche per lui questo ruolo costituisce un passo più lungo della propria gamba. Gli si può riconoscere un timbro gradevole, da tenore lirico-leggero (forse), una bella dizione e buone capacità di interprete, ma il volume è scarso, gli acuti appaiono forzati per via del peccato originale insito nel ruolo a lui inadatto. Anche il passaggio di registro è faticoso o macchinoso, sembra che non ingrani il giusto cambio di marcia. Il voto è cinque.
La regia e, diciamo purtroppo, la parte concettuale sono state curate da Emma Dante. La regista ha seguito l’impronta manichea dell’opera, dove i siciliani sono contro degli oppressori. Ma quali oppressori? Non i francesi:  secondo la visione della Dante i mafiosi, e comunque la criminalità organizzata, sostituiscono i francesi, mentre i siciliani sono rimasti tali, buoni, giusti, oppressi, tutti dalla parte della legalità, visto che sbandierano gli stendardi con i volti delle più note vittime di mafia; appaiono perfino le targhe stradali dove le stragi sono state consumate. Tutto questo evidentemente non è affatto pertinente: anche qualora si desse un’interpretazione sociologica all’opera, in chiave di contemporaneità, essa sarebbe discutibile perché non tiene conto della sfuggevole omertà diffusa tra la gente né delle varie coperture di cui la malavita organizzata beneficia a vari livelli. La regista Emma Dante ha inoltre apposto il proprio annoiante marchio sdoppiando, come sempre, l’azione scenica: la prima azione è quella narrata dall’opera, attuata in maniera più o meno aderente a essa, la seconda è un’azione a commento, a ornamento della narrazione principale, che parrebbe simbolica, realizzata con tanti contenitori (quadretti) riempiti di certe trovate, partorite dalla fantasia della regista, all’insegna della sua palermitanità o comunque della sua sicilianità. Questi contenitori simbolici contengono oggetti popolari (i pupi) oppure religiosi (croci, crocifissi o altro) portati da mimi, processioni religiose, azioni sceniche con movimenti assai contorti, eccessivi e bizzarri (Santa Rosalia, dai movimenti tra una tarantolata e  un derviscio rotante, che porta via la scena ai protagonisti). Se con tutto questo la Dante vuole ricreare un certo barocchismo siciliano, l’esito è grottesco e fastidioso.  Il voto è quattro solo perché appaiono disdicevoli punteggi inferiori.
Scene e costumi rispettivamente di Carmine Maringola e Vanessa Sannino sono stati brutti non consoni per il fasto di un grand-opéra. Sia all’uno che all’altra va il voto quattro.
Il Comunale Nouveau in una recita domenicale e pomeridiana non era esaurito. E comunque tra il pubblico non c’erano molti giovani. È il  sintomo di una malattia che andrà peggiorando?

Tutte le volte che ho ascoltato Umberto Grilli

E Umberto Grilli purtroppo se n’è andato.
E’ stato un tenore che ho amato molto.
Voglio fargli omaggio ricordando le opere in cui ho avuto il piacere di ascoltarlo. La prima volta avvenne in occasione della , per me, mitica Donna del lago del 1974 al Comunale di Bologna con Angeles Gulin. Mi ricordo la stupefacente facilità con cui  Grilli s’inerpicava sugli acuti, il loro volume e spessore. Per questo, con un mia compagna di liceo, lo avevamo soprannominato il Tenore Trombetta tanto per fare capire l’effetto che aveva la sua voce in teatro. E se aggiungiamo la voce di Angeles Gulin i decibel nella sala del Bibbiena veramente si sprecavano. Sembrava impossibile che tanto  suono potesse provenire da due esseri umani. Completavano il cartellone i bravi Pietro Bottazzo, senza stupire come Grilli, e Paolo Montarsolo. Scarsa la Jane Berbié.
Nel 1976 Grilli ricomparve in un bella Maria Stuarda da me tanto attesa perché insieme a lui cantavano le mie due beniamine, Angeles Gulin e Viorica Cortez. Allestimento molto cupo e ricordo l’impressionante maquillage della Cortez quale Elisabetta.
Nel 1977 nuovamente Gulin, Cortez e Grilli si trovarono riuniti nell’ Oberto Conte di San Bonifacio di Giuseppe Verdi. Vista la sua rarità, questa opera costituì un avvenimento, presi perfino un biglietto in platea per la prima rappresentazione, e poi andai anche a qualche replica. Ascoltai un grande Grilli non solo per la voce anche per via del fraseggio scolpito, schiettamente verdiano. Mi ricordo che la Gulin, in una cadenza del finale dell’opera, steccò clamorosamente. Seguì il brusio del pubblico. Il soprano spagnolo sorrise con espressione sicura – sembrava voler dire «ed ora vi faccio vedere io» – e fece cenno a Zoltan Pesko, il direttore d’orchestra, di riprendere qualche battuta prima della stecca. Rifece la cadenza con suoni che avevano del miracoloso e il teatro esplose in un incredibile applauso con ovazioni. Riuscire a trionfare grazie ad una stecca gigantesca fu un colpo di teatro. Benissimo la Cortez. Mi ricordo invece che il basso Simon Estes era quasi inascoltabile.
Nel 1979 andò  in scena, al Teatro Comunale, l’Anna Bolena. Lo considero tutt’ora uno spettacolo storico non tanto per l’allestimento, tutto sommato modesto – a quel tempo ancora non esisteva la dittatura dei registi e degli scenografi – ma per via della qualità del canto. Sia Katia Ricciarelli che Bruna Baglioni erano in forma straordinaria, voci belle, ampie timbrate così come fecero ottima figura Elena Zilio e Dimiter Petkov ma Umberto Grilli… fu a dir poco memorabile! Si provava la sensazione di una pressione sul volto generata dalla voce di Grilli; camminando sul palcoscenico, oppure allorché girava su se stesso, il Tenore Trombetta dava l’impressione del potente fascio luminoso di un faro, quasi si poteva vedere. E in più Grilli sapeva cantare: morbido, legava bene ed aveva delle belle mezze voci. Insomma, una prestazione d’altissimo livello.
Nel 1981, Grilli cantò nella Lakmé con Luciana Serra, l’unica volta in cui il famoso soprano genovese mi ha convinto veramente. Grilli fu bravo ma si sentirono le prime avvisaglie dell’imminente declino: ogni tanto l’intonazione era calante e divenne il suo tallone d’Achille.
Da quel momento le cose non furono più come qualche anno prima.
Poco dopo, nello stesso anno, ascoltai Grilli a Rovigo nel Guglielmo Tell. Fu bravo, sicuro, anche se vennero confermate le avvisaglie di cui dicevo prima. Gli altri cantanti erano Elia Padovan, Gina Longorbardo Fiordaliso, genericamente buoni, entrambi freschi del primo Concorso Callas, ed il bravo Aldo Bertolo, grande beniamino di Rodolfo Celletti.
In quell’anno seguì un’altra trasferta, a Modena, per ascoltare Grilli. Cantava in un Don Pasquale già visto a Bologna. Un cartellone di lusso con Fiorella Pediconi, vera moglie del tenore, Carlo Desderi ed Enzo Dara. Tutti cantarono bene però forse l’opera buffa per temperamento non si addiceva alle corde di Grilli.
Nel 1982 e 1983 lo ascoltai nuovamente al Teatro Comunale di Bologna, la Tosca con Sylvia Sass, brava ed interprete molto originale, e Garbis Boyagian, dalla voce timbricamente abbastanza modesta. Anche nella Tosca, Grilli fu scarsamente convincente: la sua voce era costruita per il grande melodramma ottocentesco, certamente non per Puccini.
Nel 1985, alla Rocca Brancaleone di Ravenna, Grilli fu chiamato per un Rigoletto con Juan Pons e Luciana Serra. Scene veramente brutte di Gae Aulenti: cartine geografiche da tutte le parti. Erano scene uniche, cioè le medesime cartine geografiche che venivano utilizzata anche per altre tre opere: La fanciulla del West, Cavalleria Rusticana e I pagliacci.
L’ultima volta che ascoltai Grilli fu a Ferrara nel 1987, nuovamente in Anna Bolena; se la cavò abbastanza bene ma certamente non uguagliò quella strepitosa di qualche anno prima, a Bologna. C’era una buona Carla Basto, Simone Alaimo, altro beniamino di Rodolfo Celletti, mai entrato completamente nelle mie grazie per questioni timbriche, ed una corretta Adriana Cicogna. Direi che questa Anna Bolena mi interessò essenzialmente per l’amico Fulvio Massa nel ruolo di Harvey.
Umberto Grilli avrebbe meritato una carriera sempre ai massimi livelli. Se questo non sempre avvenne fu colpa solo del destino, sicuramente non per la sua indimenticabile voce.

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