Il cappellano che amava le donne

Ho vissuto per trentatré anni in Via Galliera, al numero 37, a una cinquantina di metri, in linea d’aria, da dove abito attualmente. Quella casa era un porto di mare per via dell’attività di mio babbo, dopo di lui proseguita, senza soluzione di continuità, dalla mamma. Tanta gente a qualunque ora del giorno e, nemmeno troppo occasionalmente, fino alla notte. Entrambi praticavano l’occultismo, erano cartomanti, toglievano il malocchio e comunicavano con invisibili essenze. Sono quindi figlio non di un solo mago, cosa di per sé infrequente, bensì, assai ben più improbabilmente, di due maghi. Che crediate o meno a alla magia e allo spiritismo, questa è la verità. Io non ho continuato la strada dei genitori – mi sono laureato in Fisica, ho insegnato per dieci anni e poi sono andato in pensione come funzionario tributario nell’ex Ministero delle Entrate ora Agenzia delle Entrate – né il babbo né la mamma mai misero in conto per me una vita da mago. Certo è che quel mondo se non mi è arrivato direttamente al cervello, ad esso è su su risalito penetrando attraverso i pori della pelle.
Fin da piccolo ho conosciuto una notevole varietà di persone: marchese visionarie, conti, contesse e false contesse, pittori e pittrici, professori e professoresse, medici, avvocati, poetesse, politici, cantanti lirici, industriali, domestiche, prostitute, travestiti, contadini e contadine, impiegati e impiegate, poetesse e pazzi. Mio padre non filtrò mai nulla: non c’erano cose o discorsi per bambini.
Frequentava la nostra casa anche un religioso, un padre francescano, Giacomo di nome, non per ottenere le magiche prestazioni, ma perché intercorreva con mio babbo una bella amicizia che risaliva ai tempi della prima moglie. Mio padre era vedovo.
Padre Giacomo era a tempo pieno padre cappellano su navi da crociera. Passava, infatti, a trovarci  dopo lunghi viaggi intorno al mondo, in clergyman guarnito di piccole ancore dorate e copricapo da ufficiale di marina.
Ricordo la sua cordialità, la bonomia e lo sguardo vivo. Era un uomo colto e intelligente. Aveva una mente aperta, sapeva benissimo quale erano le attività di mio babbo, ma questo non intaccò mai la stima e l’amicizia nei confronti del mago. Fece, anzi, due doni assai particolari al babbo: delle stole benedette per aiutare le persone ammalate o perseguitate dalla mala sorte. Sapeva che, tra le mani di mio babbo, erano ben riposte.
In maniera assai diversa invece andò quando mio padre si recò con la prima moglie a San Giovanni Rotondo per confessarsi con Padre Pio da Pietrelcina. Il babbo ovviamente disse tutta la verità, non avrebbe avuto senso mentire a un uomo santo; questi lo scomunicò in malo modo allontanandolo dal confessionale e dalla chiesa.
La prima moglie, donna assai religiosa, non ebbe pace fino a quando, in San Pietro, a Roma, erano ancora i tempi di papa Pio XII, il babbo ottenne la remissione della scomunica da un prete tedesco con una nuova confessione, seguita da un solenne, forse suggestivo, rito. E dietro questo ci fu la discreta quanto abile tessitura di padre Giacomo.
Ricordo che il babbo discorreva con mia mamma delle debolezze di Giacomo: le donne. D’altra parte per la Chiesa Cattolica il celibato non è un Dogma. Mio padre, pure lui donnaiolo impenitente, gli dava piena assoluzione. E un’amante la conobbe proprio in casa nostra, una milanese bionda che gli succhiò una bella quantità di denaro.
Ma fu proprio con padre Giacomo che avvenne il mio primo incontro con una persona nera. Ovviamente di sesso femminile.
Ricordo distintamente l’episodio, nonostante che avessi più o meno tre anni. Giacomo si presentò con una donna originaria di non so quale parte del Corno d’Africa. Comunque era la sua amante. Era molto espansiva, perciò mi prese in braccio per farmi dei complimenti. Io però non la vidi nera ma nerissima e ricordo che esplosi in un pianto dirotto. E allora, per nulla stupita o contrariata, anzi ridendo, la signora mi mise tra le braccia della mamma.
Nel 1968 padre Giacomo venne a salutarci, ma mio babbo se ne era andato. Dopo il doloroso stupore e una preghiera per l’amico, raccontò che si sentiva stanco e aveva deciso di ritirarsi in una sperduta parrocchia montana. Ritornò ancora una volta e si interessò ai miei dischi d’opera. Allorché vide la mia prima Traviata in quattordici dischi con Gianna Galli ed Ennio Buoso storse il naso:
«Dovresti ascoltare quella con Maria Callas e Giuseppe Di Stefano». Come dargli torto?
Questo è l’ultimo ricordo che ho di padre Giacomo. Qualche anno dopo, andò a trovare mio babbo in cielo.
Diventato grande ho appreso che padre Giacomo ebbe una vita assai avventurosa durante la quale distribuì tanto bene, subendo anche serie sofferenze.
San Pietro avrà accolto Giacomo a braccia aperte per le belle cose che fece in vita e anche perché in Paradiso le persone intelligenti sono sempre benedette.

L’ombra della Rocchetta (1)

In questa narrazione c’è poco di normale, tanto da apparire un’invenzione. Storie distanti nel tempo che si incrociano, persone e luoghi inanellati. Fantasie? Verità? Che importa? Anche la verità è un’interpretazione.
Mi limito a fornire due chiavi di lettura: ingarbugliando sia personaggi reali che di fantasia ho costruito un racconto troppo cervellotico per essere vero, oppure l’intreccio di vicende è realmente accaduto dimostrando che la fantasia è un blando sottoinsieme di quel che accade nella vita?
Pensatela come volete, direbbe mia mamma.
Tutt’ora possiedo i mobili della camera da pranzo che mio babbo, nel 1960, comprò da un famoso commerciante di Vergato, suo parente alla lontana, per centocinquanta mila lire. In quegli anni era una somma corrispondente in media a tre stipendi mensili da operaio e a quasi due da impiegato. Il commerciante si chiamava Primo Stefanelli, soprannominato nel paese di Vergato come Mercantone. Il prezzo fu abbastanza conveniente, tenendo conto che si trattava di mobili pregiati provenienti dalla Rocchetta Mattei, della quale la moglie del Mercantone, Elsa Sapori, era diventata proprietaria appena l’anno prima.
La Rocchetta Mattei è uno strano castello in stile eclettico, medioevale-moresco, situato su di una montagnola sopra a Riola di Vergato, seppur nel territorio del Comune di Grizzana Morandi, vicino alla confluenza tra il torrente Limentra e il fiume Reno. La prima pietra di questa bizzarria architettonica fu posta nel 1850 per volere del conte Cesare Mattei, bolognese di recentissima nobiltà. In vita, Mattei ebbe grande notorietà quale inventore dell’ Elettromiopatia, rinominata Elettromeopatia; più che una variante dell’omeopatia era una nuova medicina con principi originali. Dell’efficacia dell’Elettromiopatia si ha significativa testimonianza ne ‘I fratelli Karamazov’ allorché Fëdor Dostoevskji mette in bocca al Diavolo queste parole: «Ma che filosofia e filosofia, quando tutta la parte destra del corpo mi si è paralizzata e io non faccio che gemere e lamentarmi. Ho tentato tutti i rimedi della medicina: sanno fare la diagnosi in maniera eccellente, conoscono la tua malattia come il palmo delle loro mani, ma non sono capaci di curare…Disperato, ho scritto al conte Mattei a Milano, che mi ha mandato un libro e delle gocce, che Dio lo benedica».
L’elettromiopatia di Mattei curò perfino disturbi di teste coronate quali lo zar Alexandr II Romanov, Ludwig III di Baviera, si dice incontrandoli di persona. E poi alleviò la principessa Sissi, cioè l’imperatrice Elisabeth d’Austria, dall’emicrania. Ed anche il Papa Pio IX manifestò entusiasmo per le cure elettromeopatiche, ampliandone la notorietà.
I rimedi del Conte ebbero un tale chiaro ed indiscutibile successo, una tale diffusione, che nel corso tempo, per soddisfare la richiesta, egli creò una grande rete di centossette depositi sparsi in tutto il mondo. Una multinazionale che da Riola di Vergato, passando per Bologna, si diramava con i suoi depositi a Roma, Napoli, Torino, Firenze, Padova, in Francia, Germania, Svizzera, Inghilterra, Polonia, Russia, Spagna, Alsazia, Olanda, India, Giappone, Argentina, e poi in Belgio, Stati Uniti, Haiti e Cina. La grande popolarità avrebbe dovuto essere un riconoscimento empirico e garanzia dell’efficacia dei farmaci prodotti dal Mattei. L’elettromiopatia, quanto a diffusione, superò l’omeopatia classica hahnemanniana e korsakoviana, ma il successo a furor di popolo non costituì mai un criterio di scientificità per la medicina allopatica. Anzi i moderni allopatici dichiararono guerra aperta contro la Nuova Medicina di Mattei come, peraltro, succedeva contro l’omeopatia classica. C’è da dire che Mattei non era medico e ciò costituiva, indubbiamente, un suo limite non trascurabile. Inoltre, per la scienza moderna, l’elettromiopatia aveva un sentore che sembrava mischiare l’alchimia e la stregoneria.
La stessa Rocchetta si fondava su di un oscuro progetto esoterico. Sembra che nella Stanza delle Visioni, collegata con le energie cosmiche attraverso particolari antenne disposte in maniera non casuale nel castello, Mattei ottenesse le intuizioni e l’Energia Vitale necessaria per la creazione dei suoi farmaci.
Elsa Sapori, moglie del Mercantone, nel 1959 acquistò il castello dall’ultima erede di Mattei, la signora Iris Boriani. Ed io, ancora bambino, conobbi questa signora. Per due volte accompagnai la mia mamma nella sua sontuosa casa in Strada Maggiore 46, già proprietà del Conte Mattei, ove era anche situato il magazzino in cui si confezionavano i medicamenti prodotti nella Rocchetta.
Mi ricordo l’immenso scalone che conduceva all’abitazione e l’altrettanto immenso, alto, ingresso, con un grande tavolo al centro e cassapanche ai muri. Quando si è bambini tutto sembra assai più grande rispetto al reale. Senz’altro ora percepirei quella casa in maniera differente.
Ci venne incontro la cameriera e poi, affabilmente, la signora Boriani, che noi in casa chiamavamo Contessa Fadda oppure la Contessa senza che fosse contessa e tanto meno era conte il marito il noto dottor Giovanni Maria Fadda, medico proctologo e venologo.
Da perfetta padrona di casa, la Contessa ci mostrò la sua dimora, quella sì veramente nobiliare, una fuga senza fine di magnifiche stanze comunicanti l’una con l’altra ed arredate con bellissimi mobili antichi. Ricordo bene che il salotto avrebbe potuto contenere il mio modesto appartamento di Via Galliera!
Alla prima visita la cameriera con grembiule e crestina bianchi mi fece accomodare in una cucina ovviamente molto ampia, mentre la mia mamma si assentò con la signora Boriani dai modi garbatamente sofisticati.
In cucina un’altra cameriera, assai più giovane, che pettinava sulla lavatrice un gatto d’angora bianco dagli occhi smeraldini.
Quando ritornammo in quella casa da sogno, rimasi invece nel salotto insieme alla mamma ed alla signora Boriani. Io seduto su di un bel divano, loro ad un tavolo alle mie spalle. Per passare il tempo mangiai una bella quantità di cioccolatini che la cameriera più anziana mi porse su di un piatto d’argento quadrato.

(Continua)

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