Tre millantatori all’Opera – Il bis di Vissi d’arte

Il passato della prozia stava in una scatola di cartone, tenuta insieme da alcune strisce di carta gommata. Dopo averla collocata ben visibile su di una mensola in cantina, nessuno le fece più caso, nessuno più la toccò. Si ricoprì di polvere.

Per anni Divina Pieranti fu dimenticata.

Qualche settimana prima degli avvenimenti che stiamo narrando,  l’antenata fiorentina forse guidò lo sguardo di Rufo sulla scatola, suscitando in lui una nuova curiosità.

«Icché ci sarà qui dentro?», pensò Rufo.

La aprì e vide delle carte interessanti. Starnutendo per la polvere, riportò con sè l’urna di cartone in casa, tra le cose vive.

E il giovane tenore finalmente seppe che una Pieranti fu ammaliata, come lui, dall’arte del canto.

E che, in un teatro assai lontano, si conquistò onori e fama.

Una valigetta in similpelle era la nuova dimora che Rufo aveva dato ai cimeli della prozia e li mostrava a me e a Tullio, uno per volta, con divertita semplicità.

Sia i ritagli dei quotidiani che le pagine strappate dalle riviste, per prolungarne l’integrità, erano stati incollati da Lodovico Pieranti, il nonno di Rufo, con dovizia di gomma arabica su del cartoncino bristol ruvido, . Così s’erano s’erano assai incartapecoriti ed avevano preso odore di stantivo.

I brandelli di carta stampata uruguaiana, da El País, El Día, El Telégrafo, The Montevideo Times, La Razón, rappresentavano con tratti efficaci l’arte di Divina Pieranti.

I cronisti dipingevano una voce di bel timbro luminoso, nobile e dolce, ben modulata, eppure in grado di diffondersi nella sala del teatro Solís di Montevideo come un torrente in piena. Certamente era un soprano lirico spinto.

Descrivevano anche la bella figura, l’attrice affascinante, padrona del gioco scenico.

Insomma, Divina Pieranti pareva che fosse un’artista veramente coi fiocchi.

I primi giornali risalivano al 1919, allorché Divina Pieranti aveva sostituito la celebre ‘divina’ Claudia Luzzio in una Tosca con il celebrato Beniamino Valmigli. La ‘divina’ Claudia, dopo la prova generale, si prese un bel raffreddore, rimanendo afona per la prima. Fino a quella occasione, la prozia di Rufo aveva fatto solo le parti, come dicono alcuni in teatro, cioè la comprimaria. Anzi, il maestro Tullio Delli Angeli le aveva assegnato il ruolo del pastore, odiando le voci sempre stonate dei bambini.

Ma anche le ‘divine’ per fortuna si ammalano.

Suffumigi d’eucalipto, fumenti con bicarbonato e camomilla, bagni caldi, decotti d’erisimo e gargarismi d’acqua e aceto, non aiutarono la Luzzio a ritrovare la voce.

«Mors tua, vita mea», dissi.

«Ahaha, sì una vera botta di culo», chiosò Rufo ridendo. «Un’opportunità che può cambiare il corso dell’esistenza. Se tutto va  per il meglio, ovviamente…»

E in quella mite primavera d’Ottobre sul Rio de la Plata il vento del destino parve spirare dalla parte giusta, gonfiando le vele di Divina Pieranti.

Il pubblico del Teatro Solís, così raccontavano i cronisti della serata, tributò un grande omaggio di successo ed onori non solo alla Pieranti ma anche al grande tenore Beniamino Valmigli, quella sera debuttante a Montevideo.

In una lettera della mattina successiva alla prima, il soprano descriveva al fratello com’era andata quella serata fortunata e, soprattutto, quanto i critici non poterono vedere. Dietro al sipario si ebbe un grande spettacolo senza canto, parallelo a quello della Tosca.

Il celebre tenore durante le prove aveva già messo in conto che dovesse fare il bis dopo ‘E lucevan le stelle’, al terzo atto dell’opera. D’altra parte questa romanza costituiva il suo cavallo di battaglia che infarciva di splendide mezzevoci, singhiozzi e svenevoli sospiri. La Pieranti però, dopo ‘Vissi d’arte’, al secondo atto, fu tanto acclamata che toccò le toccò di dover bissare per prima.

Lasciamo ora posto al racconto di Divina Pieranti.

Cantai Vissi d’arte come un bere un ovo.

E con gran garbo.

E stavolta non saresti stato proprio a riguardarmi le bucce.

Tu sai ch’io dico solo il vero. Pane al pane…chianti al chianti.

S’ebbero cinque minuti di applausi, non s’andava più avanti. Feci un cenno a Tullio Delli Angeli, che mi accompagnò da dio, e replicai. Alla fine della replica gli erano tutti più scalmanati di pria.

Calò il sipario. Nei camerini sentii che il Valmigli sbraitava con gran clamore. “Non faccio il terzo atto, chiamate un corista qualsiasi, oppure che Spoletta faccia il terzo atto al posto mia con quella fortunata sconosciuta”, egli diceva, anzi urlava. “Una cantantucola che conta meno il due di coppe quando la briscola è denari” aveva osato metterlo in ombra! Avevo ridicolizzato un celebre tenore! Guai mai!

Feci un gran malestro a scapito suo!

Icché si doveva anticipar l’atto o non dovea replicar la romanza per i suoi begl’occhi?

E Delli Angeli insieme all’impresario Bonetti, arrivati di corsa, gli fecero delle moine invano:

«Beniamino, non far così! Stasera stai cancellando il ricordo di Caruso».

Arrivò pure la Luzzio, ancora afona. Per riconoscenza ella m’avea fatto dono di un bel portagioie. Che donna squisita!

E si prese la briga di dar man forte ai due per convincerlo.

«Al posto della mia collega avrei dato anch’io il bis», gli disse per difendere la povera sostituta e per fargli capire di non rompere tanto le scatole, qualora si fosse risanata per cantare alla seconda recita.

Niente. Non servì a nulla.

Anzi, quel buzzone s’incapricciò di più. Sembrava che ci volesse della bella e della buona per far tornare il Valmigli in scena.

Per rabbonirlo, Bonetti gli promise il dieci per cento in più del compenso.

No, no, no e ancora no. Non esco!

Passavano i minuti. L’orchestra attendeva ammassata nella buca. Il publico rumoreggiava.

Pensai ch’io sola avrei potuto farlo rinsavire.

Mi infilai la mantella di scena, presi un mazzo di rose che m’avean regalato, escii dal camerino e bussai alla porta del tenore.

Entrai a testa bassa. Una ciuca con un viso umile e pentito:

«Può una piccola donna porgere le proprie scuse al grande artista?». E gli porsi i fiori.

Così blandito, quella testa di fava subitamente cadde nella mia trappola !

Valmigli cantò ‘E lucevan le stelle’ la prima volta bene, anzi benissimo. Da Valmigli, insomma.

Concesse il bis…Non puoi immaginare di quante smancerie e sbracature l’avesse infarcito.

Tante esche per attirare le trote. E il pubblico abboccò.

Gl’è punto bravo Valmigli, ma per due applausi in più porterebbe via il fumo alle candele.

Sicché sortii in scena io…La Pieranti però volea la sua rivincita. E tenni la ‘lama’ fino a che c’avevo fiato nei polmoni. Il ‘do’ mi venne talmente bello, grande, sicuro, ch’oscurai il Grande Tenore. Le gote gli presero il colore dei lamponi maturi.

Finito ‘O dolci mani’ ci fu un lungo applauso e lui mi ordinò, sottovoce, cupo:

«Attenzione a quello che fa! Niente code nel duetto!»

Tu m’hai sempre detto:

«Che chiorba dura tu t’hai!»

Te tu c’hai ragione.

Caro Lodovico decisi di fare una zingarata a dispetto del Sublime Artista. Son nessuno, ma a me nessuno comanda. Tanto meno quello zotico d’un babbaleo quale Valmigli.

A dispetto gli feci corone lunghe e dovette combattere con i miei fiati. Impresa difficile, come sai bene.

BimBumBam. Cavaradossi venne fucilato.

Valmigli finalmente a terra. Il palcoscenico era solo mio.

Gesticolai, mi disperai, tramenai da ossessa.

E poi dalla cima del Castel Sant’Angelo un ‘O Scarpia avanti a Dio’, lungo, anzi lunghissimo, tanto che il pubblico principiò ad applaudirmi coprendo l’orchestra. Urlarono tutti. Bonetti urlava a sua volta con le mani a mo’ di megafono. Anche Delli Angeli si spellava le mani dalla buca!

Non puoi immaginare il Valmigli e la solfa che mi fece allorché si chiuse il sipario! Sembrava una petonciana, tant’era scuro in volto. C’avea pure la gora che gli puzzava da sotto le ascelle della camicia.

«Per fortuna che lei è una donna e che io sono un gentiluomo…», mi si rivolse con le mani sui fianchi, come un’orcio per l’olio.

E urlò a Bonetti:

«In questo teatro di merda m’avete umiliato. Non canterò mai più qui. Mai più, mai più…Andrò all’Urquiza! L’anno prossimo c’andrò anche per metà del compenso!»

Nella sala il pubblico faceva una gran baraonda.

Scarpia escì da solo come terzultimo ed ebbe belle acclamazioni.

A Cavaradossi, penultimo, fu tributato un trionfo di applausi e di bravo.

Questi ritornò al di qua del sipario, io quindi mi avviai per incassare il mio successo, ma Valmigli mi trattenne prendendomi per il costume.

«No, guardi, lei non escirà da sola»

«Icché sta scherzando?» gli domandai.

«Non sto assolutamente scherzando, usciremo tutti e due insieme, tenendoci per mano»

«Neanche per sogno, l’opera s’intitola o non s’intitola Tosca? Uscirò da ultima e da sola!»

Allora Valmigli m’avvinghiò la mano. Gl’aveva perso il senno.

E allora, io levai il vino dai fiaschi: davanti a tutti, mollai al Valmigli un bel calcio negli stinchi.

«O bischero se te tu non ti levi da costì, il prossimo te lo fo sui coglioni che t’udran fin i santi in Orsanmichele»

Il Valmigli mollò la presa ed iouscii ritta come un fuso per prendermi un trionfo che mai scorderò per il resto della mi’ vita.

Io e Tullio eravamo piegati in due per le risate.

«Non fine ma efficace» dissi io.

«Hihihi, la mattina successiva l’impresario Bonetti sarà andato in chiesa per chiedere la grazia che la Luzzio si rimettesse in fretta…Non voglio immaginare le scintille tra la Pieranti e Valmigli durante una seconda recita», considerò Tullio.

Rufo prese fuori dalla scatola altre locandine. E così apprendemmo che l’indomita prozia di Rufo cantò nuovamente al Solís la Tosca con Miguel Fleitas, l’ Aida con Aureliano Perticher, e ancora altre opere come l’Otello al Colòn di Buenos Aires Nicola Lusati e, in giro per l’America australe, la Manon Lescaut, La forza del destino, Il Guarany. L’ultima locandina era La cena delle beffe con John O’Pellyran a Montevideo. Portava la data del 1926.

Rufo rivelò il contenuto di un fagottino in velluto rosso. Era monile da teatro senza valore, un diadema con tante gemme.

«L’ho lavato con il detersivo. Guardate come luccicano questi fondi di bottiglia!»

Forse il diadema della serata più preziosa di Divina Pieranti?

E poi trovammo altre lettere dirette al nonno di Rufo, scritte con una calligrafia di una volta, fitta, leggermente inclinata, affusolata nei ”l„, nelle “g„ e in tutte le maiuscole. Principiavano con “Mio adorato Lodovico…”, e nel fondo la data.

L’ultima lettera recava 30 settembre 1926, scritta dopo la prima dell’opera di Giordano.

E Rufo:

«Dopo questa data non vi sono più lettere e la vita della prozia è un mistero. So che mio nonno stette molto male e rimase lontano da Firenze per tanto tempo…forse persero i contatti. O tante altre cose. Forse che La cena delle beffe sia stata la sua ultima opera?»

«Andare in ricerca di Divina Pieranti potrebbe, allora, essere il pretesto per fare un bella vacanza! Non pensi?», risposi guardando le fotografie della prozia poste sul pianoforte.

Tre millantatori all’Opera – Un paltò da tenore (Parte terza)

«Ora sta a te. Cosa ci canti di bello?», mi chiese Tullio.

«L’ Addio alla madre», gli comunicai.

«Auguri…», commentò quello.

Il tono esprimeva chiaramente disapprovazione.

«Contento tu…», sembrava voler dire Tullio.

O ancor più:

«Se t’andrà male sarà peggio per te».

In un battibaleno sentii il motore andare al massimo dei giri. Avrei potuto prendere il volo.

Tanta agitazione, e poi, all’improvviso, più nulla. Caddi in preda alla calma e all’indifferenza che precedono un’esecuzione capitale.

Le scantarellate, direte voi, non avrebbero forse dovuto essere un divertimento? Un gioco?

Attaccai la romanza di Mascagni:

Mamma,

Quel vino è generoso, e certo

Oggi troppi bicchieri

ne ho tracannati…

Cantavo per una strana platea.

Edmondo si allungava su di una sedia accostata al muro per far defluire il pranzo, controllando ripetutamente l’orologio al polso.

Tutti gli altri stavano disposti intorno al tavolo da pranzo.

Tullio era freddo e immobile come una statua.

Evelina scarabocchiava i fogli di carta del Gioco dei nomi. La Corinna, con gli occhi semiaperti, pareva in deliquio.

Gabriele fissava l’ultimo rottame di uovo pasquale rimasto nel piatto. Fece per prendere il pezzo di cioccolato, ma Rufo, predatore infallibile,  zac, fu più veloce di lui.

Allorché giunsi a cantare

E poi… mamma… sentite…

S’io… non tornassi…

Voi dovrete fare

Da madre a Santa, Edmondo s’alzò di scatto per recarsi in cucina.

Lo scorsi lavare al lavandino il tegame con cui aveva portato l’arrosto.

Le sue spalle sobbalzavano: rideva.

Lavava la teglia e rideva di me.

In quel momento Edmondo rideva però a non me non fregava niente. Dovevo andare avanti. Mancava poco per terminare la romanza, ma la strada rimasta ora presentava una salita repentina e ripidissima: la semibreve del si bemolle sulla «a» di S’io non tornassi… con quasi una corona. Mascagni indicò sullo spartito «a piacere» perché, su questa nota, il tenore dovrebbe fare sfoggio delle sue capacità. Sul palcoscenico, con questa nota Turiddu si gioca tutto.

Un bacio, un bacio, mamma!

Un’altro bacio…

Addio…

S’io non tornassi…

Ed io steccai il si bemolle.

Clamorosamente.

Una stecca, forse più un raglio d’asino.

Un brivido elettrico giù per la schiena mi riportò tra i vivi.

Sentii bene che Edmondo, scuotendo la testa, commentò e rise:

«Ooosssignùr…hohohooo»

Ero bollente, sudato, rosso in faccia. Mi sentivo un febbrone da broncopolmonite.

Non ce la facevo più e piantai lì le ultime frasi della romanza.

Tullio mi fece la morale del grillo parlante.

«Beh, se tu avessi cantato L’ultima canzone questo non sarebbe successo…», in altre parole chi troppo vuole nulla stringe, oppure chi è causa del suo mal pianga se stesso.

Quanto mi urtavano le paternali! E quanto mi urtano ancora!

Tutto vero. Con la romanza di Tosti non avrei corso pressoché alcun rischio di fare una stecca.

E si rivolse a Rufo con un lieve ammiccamento sardonico:

«Non si può certamente dire che lui abbia una voce pallente…»

Rufo non gli diede ascolto e si rivolse a me:

«Dai, non fare quella faccia arrabbiata. Capita a tutti di steccare!»

Ma a me, più della stecca, pesavano come macigni le risate di Edmondo. Il tegame era stato un pretesto per ridere liberamente, pensando di non essere visto.

Ora quello stava nuovamente seduto davanti a me. Come se nulla fosse successo.

Si risvegliò la Corinna:

«Rufo, sta a te! Sei l’ultimo. Cosa ci canti?»

E Tullio:

«Ci fai l’Esultate? Hihihi…»

Evelina alzò la testa dal foglio scarabocchiato ed esortò Rufo con la consueta prosaicità:

«Avanti, su, Pieranti, scanterella mo’ in fretta, così faccio qualche peccato con la vista prima di andare in Parrocchia a confessarmi…non ho mai niente da raccontare al prete!»

«No, l’Esultate no. Faccio La donna è mobile», rispose Rufo.

«Ho comprato il Rigoletto da poco» disse la Corinna in dodici toni. «La signora Salizzoni aveva l’edizione migliore a poco, quella con Fischer-Dieskau, la Scotto e Bergonzi», fini sproloquiando senza che nessuno le desse retta.

Rufo bevve un sorso d’acqua e finalmente s’alzò in piedi.

La donna è mobile

qual piuma al vento

muta d’accento

e di pensiero…

Caro lettore, ben saprai quanto sia facile descrivere il Brutto. Bastano poche pennellate di difetti. Tutto il resto non conta.

Le parole tendono al Bello ma sono incapaci di renderlo appieno. Un bel volto, un bel corpo, vengono descritti con labirintiche fiumane verbali però quello che gli occhi vedono è altra cosa.

Le parole ci permettono di dire ‘bel profumo’, ‘brutto odore’, ‘ bel tepore’, ‘un brutto sapore’. Queste commistioni di parole che non c’entrano nulla sono una sinestesia, una figura retorica, ma nessuno penserà mai che siano reali. Non esprimono un’ effettiva bellezza. Un profumo non può essere bello perché non lo vediamo.

Le orecchie sono privilegiate. La bellezza, infatti, spunta tra i suoni e, ancor più, è visibile nella musica.

Qualcuno di noi avrà apprezzato maggiormente, e quindi trovato più bello, il suono di un particolare violino o di un pianoforte rispetto a un altro. Così come tutti avremo detto, almeno una volta, d’aver ascoltato sia musiche belle che musiche brutte.

I bei suoni e le belle melodie, però, sfuggono alle descrizioni più di un bel volto.

Quali parole possono descrivere la bellezza di una voce? I frequentatori di teatri e delle sale da concerto spesso tentano la strada del confronto, fidandosi della memoria. I discorsi tra melomani? Tante Torri di Babele senza senso. Afasie nei foyer teatrali. Confronti inutili, tant’è che pare d’avere ascoltato cantanti totalmente differenti in giorni differenti.

Per la voce di Rufo, ogni confronto era inutile, perché non assomigliava a nessun’altra voce rubricata come bella. Pareva bella quanto quella di Giacomo Aragall o Giuseppe Di Stefano, ma non assomigliava né all’uno né all’altro.

La voce di Rufo aveva un timbro nuovo e non reincarnava nessun altro tenore. Apparteneva unicamente a lui.

Un grande giornalista, Rodolfo Celletti – a quel tempo in gran voga, tanto da essere per tutti noi un evangelista – astrologò una particolare metafora dal sentore buddista volendo descrivere la voce di Magda Olivero. Dura sfida. Non vantando un colore vocale particolarmente attraente, una limitazione per i detrattori, la penna abile e astuta del critico scrisse che Magda Olivero, con una voce in bianco e nero, riusciva ad evocare tutti i colori dell’arcobaleno. Furono le più belle parole mai scritte per descrivere un cantante. Evviva!

Non posso seguire le orme della metafora di Celletti. Sarebbe questo fuori luogo perché la voce di Rufo era piena di colori che si percepivano a mano a mano. Come accade nei profumi, le varie fragranze della voce – testa, cuore e fondo – si sprigionarono nel breve tempo della romanza.

Ci sarebbero volute le parole all’apparenza senza senso della Corinna per rappresentare la voce di Rufo.

Delle scemenze per descrivere la bellezza?

La voce, quindi, a me parve bellissima e squillante.

Certo,  da un lato Rufo  doveva ancora migliorare dal punto di vista tecnico – era ancora giovane –  dall’altro lato, ciò che mancava per essere un tenore coi fiocchi in quel momento non aveva alcuna importanza.

Finita la canzonetta del Duca di Mantova, Evelina sintetizzò immediatamente con il garbo che la contraddistingueva:

«Oooh, Pieranti… soccia te sì che c’hai una bella voce. Cazzarola, se farai strada».

Ed io:

«Peró…Questo qua mi aveva detto che la tua voce era bella» dissi serio a Rufo, indicando Tullio, «Ma, come sempre, questo qua non capisce mai nulla».

E terminai fissandolo negli occhi per esprimergli la mia sincerità:

«La tua voce è bellissima, una delle più belle che abbia mai ascoltato».

Rufo sorrise e corrispose allo sguardo a suggello dell’inizio di una profonda amicizia.

La Corinna non fece alcuna metafora con curve e controcurve:

«Accipicchia. Se ti sentisse mia madre! Verrai anche tu a mangiare le tigelle, vero?»

Il mentore di Rufo non stava nella pelle, il sorriso gli congiungeva le orecchie, gli occhi sbrillucicavano.

«Rufo Pieranti…ora facci sentire l’Esultate, avanti avanti!».

L’Esultate è pur sempre l’Esultate, un feticcio per la maggior parte dei melomani.

Il tenore finalmente cedette:

Esultate! L’orgoglio musulmano

sepolto è in mar.

Nostra e del ciel è gloria.

Dopo l’armi lo vinse l’uragano.

La platea davanti a Rufo diventò festante come tifosi allo stadio.

Applaudivamo tutti. Avremmo voluto putipù, triccheballacche e scetavajasse.

Erano passate le cinque del pomeriggio. Pesanti nuvole plumbee oscuravano il cielo ma non pioveva.

Per mangiare, avevamo mangiato. Per giocare, avevamo giocato. Per scantarellare, avevamo scantarellato.

La festa si avvicinava al termine.

Edmondo guardò l’orologio: finalmente era l’ora di andare. Evelina lo seguì più per opportunità, il passaggio in automobile, che per sincero bisogno di andare in chiesa.

Rimasero quattro ospiti ancora per un po’. Sarebbero usciti tutt’insieme poiché abitavano a poca distanza l’uno dall’ altro.

Le parole di Rufo avevano decisamente ridimensionato il dramma della mia stecca. Cantare la Cavalleria Rusticana era stato un azzardo, e non tutti gli azzardi hanno una fine felice.

Mi pareva una figuraccia appartenente a un passato lontano anche se era successa non più di mezz’ora prima.

Ormai lontana per me, ma non per Tullio. Questi si rivolse al suo protetto indicandomi:

«Rufo, pensi che sia possibile correggere i suoi problemi di intonazione?»

In parole piane, Tullio domandò se mai sarei riuscito a non stonare.

La stecca, in confronto, appariva poca cosa. Semplici parole ma efficaci come una bomba che esplode nelle cantina di una casa.

Rufo prontamente rispose alla domanda:

«Certamente. E’ possibile. Occorre impostare bene la voce. Se non si canta nella posizione giusta, l’intonazione può essere sbagliata».

«Aaaaah, tu pensi?», chiese Tullio quasi dubbioso.

Rufo rispose seccamente:

«Non lo penso io»

E scandì:

«E’ co-sì»

«Meno male, allora», fece Tullio. «Ecco…Mi sembrava strano dal momento che lui conosce bene la musica. Non capivo il motivo di tutte queste stonature». E continuò a interessarsi per me: «Pensi che il tuo maestro di canto lo prenderà a lezione?»

«Sì, Floriano Mantovani lo prenderà. Ma prima studierà un po’ con me»

«Ti va?», mi chiese Rufo sorridendo.

Io assistevo immobile a questi discorsi.

Paralizzato per l’umiliazione.

Tullio applicò a me un suo principio, cioè che la verità deve essere sempre detta così com’è, senza fronzoli e arzigogoli. La verità nuda e cruda, però, non sempre cura, corregge o salva. Tutti lo sanno: la verità può diventare un’arma spietata per colpire nel punto di maggiore debolezza.

Per quanto mi riguarda, non avevo alcuna seria velleità di fare cantante. Il canto non era una vera debolezza da poter bersagliare. Ben sapevo che non avrei mai avuto il coraggio di salire su di un palcoscenico, nemmeno se avessi avuto la migliore voce al mondo. Cantavo per divertirmi, un gioco adolescenziale che si stava protraendo nel tempo, insomma.

Dove si piantò la freccia scoccata da Tullio? In quale parte di me?

Ferì l’amore per me stesso, umiliò la mia dignità.

Compresi che, cantando, venivo deriso.

Edmondo aveva riso di me, e in casa mia.

La domanda di Rufo, se m’andava di studiare canto con lui, mi distolse da questi tristi pensieri.

Il suo sorriso era una mano tesa. Ed io annuii con un sorriso.

Avevo trovato il mio primo maestro di canto.

Erano le sei passate. I quattro si alzarono per prendere i loro cappotti.

La Corinna sulla porta barcollava confusa come non mai. La sua parlata dodecafonica mi restituì il buonumore:

«Mi sono scappellata per le risate»

«Scappellata! Ahahah…ma che dici, Corinna?», feci io.

«Uuuuuh…non capisco»

«Te lo spiegherò con calma…ma solo se tieni lontano tua madre dalla cornetta del telefono!»

Guardai Rufo scendere le scale per ultimo.

Pensai tra me e me:

«Eeeeeh sì, è proprio un bel paltò da tenore!»

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