L’ombra della Rocchetta (7)

Giunse finalmente il giorno del processo. Avevamo tanti testimoni, come un processone da film americano, insieme ad amici semplicemente curiosi di vedere il grugno della Mâta.
La Mâta, sola, era difesa in gratuito patrocinio da un famoso legale appartenente ad una illustre dinastia di azzeccagarbugli. Ogni cittadino ha il diritto di difendersi.
Il nostro avvocato stabilì un copione preciso. Avrei cioè deposto per primo dinanzi al giudice perché più controllato e razionale, esponendo con ordine i fatti. Il compito della mamma sarebbe stato quello di confermare le mie parole, rispondere in breve alle domande del giudice e, soprattutto, piangere, piangere e ancora piangere. Le lacrime avrebbero rafforzato la verità. Dovevamo convincere il giudice a tutti i costi, anche con qualche crudeltà a scapito della mamma.
E rispettammo puntualmente il copione.
Venne il momento di sentire l’imputata Fiocchetti Angiolina.
La Mâta indossava abiti semplici ma decorosi – cappotto in vellutino marrone, pantaloni plumbei, sciarpa di lana bianca fatta a mano e borsetta nera a tracolla -. La figura era tozza, senza fianchi, senza collo. Fronte bassa, aveva capelli ondulati non folti, sbiaditamente castani; poiché erano stati lavati di fresco, dalla scriminatura centrale cadevano a ventaglio sulle spalle. La pappagorgia inghiottiva mento e boccuccia, mentre i grossi zigomi avevano a loro volta inghiottito gli occhi quasi privi di sopracciglia. Lo sguardo era privo di espressione ed anima.
Aveva ascoltato la mia deposizione e quella della mamma con indifferenza, come se nulla la riguardasse.
La Mâta confermò interamente le nostre dichiarazioni di parte lesa: sì, telefonava perché la mamma era responsabile della morte della sorella Iolanda, perché possedeva le fotografie e non intendeva restituirle.
Rispondeva al giudice con tono monocorde, da beghina che recita il rosario, guardando il pavimento, all’apparenza una persona timida, come aveva detto la sorella Carla.
«E in che modo morì la signora Iolanda Fiocchetti?», domandò il giudice.
«Per un incidente stradale causato da quella donna».
«Come avrebbe causato l’incidente, visto che la signora qui presente non guida l’automobile?».
«Mia sorella è morta con il pendolo manovrato sulle fotografie da quella donna».
«Intende un orologio a pendolo…sarebbe morta con un orologio a pendolo?»
«No, no, intendo a causa di questo pendolo».
E la Mâta, di fronte al proprio avvocato, basito e impotente, porse al giudice, tardo nel capire, un rotocalco: una copia stropicciata di Cronaca Vera.
Il giudice lesse con attenzione come si fa con un documento di particolare importanza. E riprese a interrogare la Mâta.
«Dunque sua sorella Iolanda Fiocchetti sarebbe morta per malocchio o per incidente stradale?».
«Per malocchio».
«Ma non morì per incidente stradale?».
«Sì, ma l’incidente è stato causato da quella là che ha fatto il malocchio a mia sorella con il pendolo e le fotografie in suo possesso. È un’assassina!!!», urlando. Finalmente alzò gli occhi e puntò il tozzo indice contro la mamma, aggrottando ridicolmente la fronte rubizza per esprimerle odio.
A questo gesto la mamma reagì con veemenza e, come se non si fosse trovata nell’aula di un tribunale, ringhiò contro la Mâta:
«Bušèeedra, t î bušèeedraaa!». E scoppiò in un pianto dirotto. L’avvocato s’alzò prontamente per calmare e rassicurare la mamma poi la fece sedere vicino a sé, portandola a braccetto. Le cose stavano seguendo la sottile regia: le lacrime incontrollabili, impulsive, disperate, descrivevano meglio di qualsiasi racconto la persecuzione subita per anni e palesavano il disastro prodotto dalla Mâta nell’animo della mamma. Anche durante il processo la mamma era la vittima di questa donna, vivendo la sofferenza dinanzi al giudice.
Il nostro avvocato chiese di ammettere, tra le prove del processo, le registrazioni. Il giudice assentì. Avevo portato un registratore e quindi fui richiamato per fare ascoltare qualche telefonata farneticante.
Il giudice chiese alla Mâta se riconoscesse la propria voce. E confermò che era la sua. La registrazione, d’altra parte, era piuttosto buona; sarebbe stato arduo riuscire a sostenere il contrario. Furono ascoltati altri nastri presi a caso e ci imbattemmo anche in Salvatore, il palermitano, di cui la Mâta non seppe fornire chiarimenti adeguati. Forse non sapeva nemmeno chi fosse veramente.
Pareva che la Mâta fosse guidata da uno spiccato autolesionismo giacché riconosceva costantemente la veridicità dei fatti a lei contestati.
L’avvocato della Mâta mal tollerava la propria assistita, anzi ne era evidentemente infastidito, come aveva confessato in occasione di telefonata informale che era intercorsa con il nostro avvocato. Tra legali di parte opposta spesso intercorrono contatti sottotraccia. Questa complicità professionale deriva dal fatto che due medesimi avvocati si possono scambiare i ruoli di accusatore e difensore, a seconda dei processi.
Avevamo in tal modo saputo che, ogni giovedì, la Mata si presentava nello studio del malcapitato difensore senza appuntamento e, soprattutto, senza che ve ne fosse bisogno. In sala d’attesa non rimaneva spaparanzata sul divano ma ne spostava i cuscini, muoveva i quadri alle pareti per vedere il retro, frugava tra le foglie delle piante, alzava i tappeti. Quindi spargeva qui e là delle misteriose polverine facendo strani gesti. L’avvocato sperava di chiudere in tutta fretta la partita con la Mâta.
Il nostro avvocato quindi chiamò i testimoni. Deposero per ultimi i due che videro la Mâta vagare sulle scale di casa mia nel 1987, l’anziana signora che s’affacciò dalla soglia di casa e l’amico venuto in mio aiuto, il cui racconto delle circostanze fu decisivo. La Mâta, infatti, lo riconobbe e ne confermò ogni parola.
Fulmineamente l’avvocato della Mâta s’imbestialì sbattendo i pugni sul tavolo:
«Insomma, stia zitta!».
Le uniche parole che spese a difesa dell’imputata.

(Continua)

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