Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte ventitreesima

I giorni e la convivenza mitigarono la distanza tra il babbo, uomo sulla strada dell’anzianità, e la mamma che, con la sua giovinezza e l’esuberanza caratteriale, ne aveva ravvivato la fiamma interna affiochita dall’età; nel contempo, questo legame la maturava più velocemente, con maggiore profondità.
La mamma però ben presto si trovò davanti alla durezza della realtà prevista da altri ma non da lei: maltrattato dalle troppe sigarette e dalla temerarietà che manifestava nell’attività di mago, il vecchio cuore del babbo fu squassato da un infarto qualche mese prima del matrimonio. Superata la crisi, il babbo, qualora si fosse ripresentata un recidiva della malattia, avrebbe sposato la mamma in extremis, ma non ve ne fu bisogno.
Il primario dell’ospedale aveva ordinato a Riccardo di piantarla con il suo fricandò di sigarette che gli avevano ingiallito le dita e le unghie della mano destra. Basta totalmente con le Alfa, Nazionali, Serraglio, Macedonia, Diana, Mercedes, trappole nocive per il cuore.
Il medico della mutua disse al convalescente:
«Riccardo se non vuoi morire, dimezza almeno le sigarette e non devi essere più temerario con il tuo lavoro.»
E il babbo obbedì a modo suo.
Qualche settimana dopo, il dottor Agostini rinnovò la domanda:
«Allora ora quanto fumi? Hai fatto quel che t’ho detto?»
«Si, dottore. Ne fumo quaranta», rispose Riccardo fissandolo con un tono che stava tra la provocazione polemica e la presa in giro.
«Quando cambierai? Tra poco sposerai una donna che potrebbe essere almeno tua figlia e sarai padre», disse il medico ma sapeva quanto fosse difficile smuovere l’uomo da qualsiasi idea.
I miei genitori si unirono in matrimonio il 9 agosto 1955 al Santuario di San Luca. La mamma era incinta di me e quindi, per non dare adito a maldicenze, il matrimonio fu celebrato con dispensa dalle pubblicazioni in presenza dei soli testimoni, nemmeno in presenza di Aristide e Caterina, che erano stati tenuti all’oscuro d’ogni cosa, sebbene a celebrare il rito fosse stato proprio parroco di Vergato. Subito dopo noleggiarono un taxi e la mamma, bellissima, vestita con l’abito della cerimonia, annunciò con raggiante semplicità e lo stupore dei familiari:
«Incû am sån spuṡè», oggi mi sono sposata.
E qualche mese più tardi, il 20 gennaio 1956, feci la comparsa nella fabula di questo racconto: la mamma mi partorì poche ore prima che il Sole abbandonasse il cielo del Capricorno; e questa combinazione comportò che l’ascendente fosse nel segno del Leone. Nacqui in casa, come ancora spesso avveniva in quegli anni; probabilmente per questo motivo il babbo ingaggiò due levatrici, ed era presente anche la nonna Caterina, venuta da Vergato. L’esatta data di nascita era stata individuata dagli spiriti che gli prestavano i servigi, data che la mamma rispettò con precisione, perché il babbo doveva creare per me un oggetto magico, un pentacolo. Si era recato per questo presso un orefice perché incidesse una medaglia d’oro di forma circolare: su una faccia un motto antico, Mors tua vita mea che, richiamato dal babbo, alludeva a un significato esoterico e sull’altra un sacro emblema costituito da una croce radiante sovrastante forse un nome, ma non so di chi, o forse una magica parola, di cui non conosco il significato o la funzione, Neurat.
Il parto fu complicato non tanto dai due giri di cordone ombelicale intorno al mio collo quanto da una strana circostanza: la levatrice più anziana prese a urlare sentendo due inesorabili mani invisibili stringerle il collo con forza; questa mentre tentava di liberarsi dalla costrizione abbandonò la mamma e me. Se fu un attacco di panico non si manifestò nel momento migliore.
Mio padre inveì contro questa e urlò all’altra levatrice di risolvere la complicazione.
Mi presentai così al mondo con un bel colore bluastro e il babbo, per la tensione rinforzata dallo spavento, dopo aver constatato che non avevo malformazioni, si sentì male.
Conosciuta l’esatta data di nascita, il babbo esorcizzò il pentacolo affinché mi accompagnasse nel percorso della vita formando esso, intorno alla mia persona, una specie di bozzolo protettivo per favorire l’avvento di cose buone e attutire i colpi delle inevitabili sorti avverse. Questa particolare atmosfera è costituita da centurie di spiriti che raddoppiano, di anno in anno, secondo quanto il babbo-mago mi disse allorché avevo raggiunto appena l’età per capire e per ricordare.
Alla mamma regalò una parure in oro composta da un collier con una medaglia riccamente decorata ritraente la Madre Celeste e da orecchini, due anelle che accentuavano i lineamenti da Carmen della mamma.

(Continua)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte ventiduesima

Le persone sono unite da legami che permangono nel tempo. Dopo di sé non è semplice ritrovarsi in un complicato labirinto ma le anime affini si cercano incessantemente: prima o poi, trascorreranno anni, secoli, si rincontreranno.
«Io e tuo padre ci incontrammo in una vita precedente a questa. Così mi disse.»
«Come lo apprese? Forse durante la catalessi?»
«Non so, ma dopo quella notte disse qualche parola, fece qualche allusione, qualche ammissione a spizzichi e bocconi e allora iniziai a insistere. Sai bene che ho la testa dura, come diceva sempre il babbo. E poi un bel giorno, mi raccontò questa storia.»
Lontano, a metà del diciassettesimo secolo, in una lontana valle sormontata dalle solenni montagne d’ Oriente, le fitte piogge di fine estate avevano reso limacciose le strade. Dall’alto, una nebbiolina fitta, densa, si mischiava al fumo proveniente dalle pire in riva al fiume che incenerivano miseri corpi deturpati dal vaiolo. L’aria sapeva di carne, grasso e ossa bruciati, un fetore nauseante a cui si mischiava il profumo del legno di sandalo che ardeva nelle pire accatastate per i ricchi.
Riccardo, aveva quindici anni, tirava con fatica a mano un carretto carico di terraglie per ritornare nella sua casupola fuori dalle mura della città. Ogni passo gli costava fatica che si tramutava in rivoli di sudore che grondavano a fiotti sulla ruvida giacchetta di canapa coperta di cenere umana e i pantaloni erano luridi di melma. Un cappello di paglia sfilacciata riparava i grossi capelli bluastri dalla greve atmosfera umida e una pezzuola di lino, annodata alla nuca da cui spuntavano i vivaci occhi neri, ne attenuava il macabro odore.
Vendere quelle pesanti, fragili, merci? A chi? La città era stata decimata dall’epidemia e i sopravvissuti avevano altro a cui pensare anziché comprare orci e stoviglie. Non aveva più alcun parente, tutti presi dal vaiolo. Prima di andarsene, la madre aveva però insufflato a Riccardo, unico figlio, una polvere di sue croste infette, così come aveva sentito da un bramino, che l’aveva reso immune al morbo. Era salvo per la madre ma non ne sapeva il perché. Ormai non si chiedeva più il perché di nulla, pensava solo al faticoso andare avanti.
Fuori dalle mura della città, avviandosi per la propria capanna, Riccardo incontrò una bambina in lacrime che vagava piangendo senza meta da un ciglio all’altro della strada. era scivolata sulla melma e cadendo s’era lordata le mani, il volto e il bell’abito di seta rossa. Il giovane si avvicinò per soccorrere la bambina e repentinamente le si prosternò davanti. Il giovane riconobbe in Bruna la Dea vivente bambina. Era scivolata, le pietre avevano abraso le mani nell’attenuare la caduta. La melma aveva lordato il volto e la bella tunica di seta rossa ricamata con fiori dorati e bianchi loti. Fini gocce di pioggia avevano sciolto l’occhio di fuoco sulla fronte, il bistro che marcavano gli occhi era colato sulle guance, come avevano scolorato l’acceso rosso delle labbra.
Riccardo tra le gente festante durante il corteo d’intronizzazione la vide bellissima riccamente vestita, agghindata di monili dorati, seduta sul carro sgargiante di fiori tirato da una coppia di buoi per ogni strada della città. Ora delle pustole di vaiolo sul volto e sulle mani, nel corso di una notte, assai prima del menarca, le avevano corrotto la perfezione e lo spirito della Dea aveva abbandonato subitamente l’involucro del corpo di Bruna. Gli intendenti del Palazzo della Dea applicarono l’inflessibile regola, e detto fatto la bambina perse il trono.
Tenuta a grande distanza, un servo del tempio condusse Bruna davanti alla casa da cui era partita qualche anno prima, lasciandole un sacchetto di monete. Ma  nessuno la accolse: terrorizzava perfino la remunerazione che aveva con sé quale divinità detronizzata.
Il morbo non aveva offeso i lineamenti nobili del volto poco fanciulleschi: labbra carnose, scrigno di denti lucenti come perle, occhi neri dalla forma perfetta, sormontati da sopracciglia ben disegnate. Lo sguardo della piccola sfortunata, dolce, intenso, forte, penetrò così profondamente in Riccardo che provò da subito sincero amore, così Bruna contraccambiò il medesimo sentimento per il giovane uomo.
Riccardo raccolse la bambina e se ne prese cura. Costruì una seconda capanna non lontano dalla sua, vi allestì un semplice giaciglio, la riempì con qualche povera suppellettile, cucì per lei delle semplici tuniche di tela di lino. L’intero corpo si coprì in breve di vescicole così immergeva Bruna in un ampio bacile di rame con acqua di riso per alleviarle il prurito, poi delicatamente con delle giovani foglie spalmava sulla pelle una poltiglia di curcuma e succhi di piante lenitive raccolte nella foresta. 
E il ragazzo chiese aiuto a un medico. Questi lasciò un amuleto ed un farmaco, ma non s’ebbe alcun miglioramento: la febbre aumentò poi la piccola passò al delirio. Riccardo, tenendola sulle ginocchia, piangendo, invocò allora la Dea che l’aveva abbandonata perché avesse pietà della fanciulla e la conducesse nella dimora celeste oltre le montagne.
Allorché il piccolo cuore cessò di battere, l’anima di Bruna, staccandosi dal corpo, giurò di ritrovare Riccardo per contraccambiare il bene da lui ricevuto.
Non avevo mai seguito alcun racconto con maggior attenzione.
Scrutai il suo volto: la mamma aveva quasi sessant’anni ed era ancora bella come nei giorni lontani della giovinezza. I lucidi capelli neri, il bei denti perlacei, la forma dei grandi occhi, le labbra carnose, il colore olivastro della pelle, ancora ben tesa erano una sottile eredità proveniente da secoli passati e da terre lontane?
E la mamma concluse:
«Chi ama profondamente, prima o poi, restituirà il bene in egual misura. Come in una bilancia l’equilibrio tra i piatti si ottiene con lo stesso peso, così non può essere che qualcuno dia di più e un altro di meno. Il vero amore va regolato così.»

(Continua)

 

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