Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte quindicesima

E presto venne il giorno della visita a Caterina in sanatorio; quella volta Bruna non ebbe la forza di andare da sola e prese con sé la sorella.
Maria entrò nella camerata. Si avvicinò alla madre e le disse che Bruna l’attendeva fuori, all’entrata, sul ballatoio. La madre si sentì mancare.
Bruna aveva il capo coperto con un fazzoletto e gli occhiali da sole nascondevano gli occhi arrossati per il pianto. Abbracciò fortemente la madre poi, scoppiando in singhiozzi, Bruna riuscì solamente a dire:
«Mamma…mamma…mamma…Sapessi che disgrazia!» Le tristi circostanze e i sogni furono descritti da Maria. Caterina si commosse profondamente al racconto della fine del ragazzo; conosceva bene il giovane carbonaio. Ma quando sentì le idee che frullavano nel capo della ragazza alzò la voce per sgridare Bruna: «Smettila immediatamente con i rimorsi di coscienza! Tu che c’entri con la sua morte? Ora il suo spirito non ha pace…» E si fece il segno della croce.
«Fai dire da Don Enzo delle messe per quel povero ragazzo.»
Durante le giornate che seguirono, le ospiti del sanatorio furono costrette da Caterina ad ascoltare le meste vicende in cui Bruna s’era trovata. Le donne in adunanza trovarono una spiegazione tra il reale e il soprannaturale, un’ipotesi quasi formulata a maggioranza, inaspettata per Caterina, che l’angosciò: non era lo spirito del povero Giuseppe ad aggrapparsi alla ragazza, pervadendone  pensieri e sogni, ma era l’amore di Bruna, ancora troppo vivo, a legare l’anima del giovane uomo all’unica donna che lo aveva amato. I sentimenti della ragazza impedivano a Giuseppe di volare via. Chiunque fosse quello che dovesse lasciare andare l’altro, Caterina intendeva porre rimedio a quella situazione in qualunque modo e in fretta, non volendo che Bruna seguisse la strada del padre verso un esaurimento nervoso.
Un’inserviente del sanatorio che distribuiva i pasti le disse a bassa voce:
«Se volete dare una mano a vostra figlia, ditele che vada dalla Sampîra.»
Non rimaneva che Bruna affrontasse il sacrificio un piccolo viaggio per andare dalla Sampîra, nessuno ne conosceva il nome vero, e indicò il luogo con il dito, sulla collina dietro a quella collina.
La mattina successiva Caterina fece chiamare la figlia al telefono pubblico dell’ufficio postale ordinandole di anticipare la visita. Bruna arrivò in ospedale  angustiata. La madre espose senza fronzoli quanto doveva essere fatto, poi una donna le spiegò come fare per raggiungere la Sampîra.
Ai familiari Bruna raccontò una bugia: doveva fare delle commissioni in città per la madre.
Bruna prese il treno e poi, in Città, si recò a piedi dalla stazione fino al capolinea del tranvai verso Rastignano. Il bigliettaio l’aiutò a salire, tanto era carica dei doni per la Sampîra, pagò e si sedette vicino al conducente. Assorta nei propri casi, sudata, stanca, quasi non si accorse dalle ferite che durante la Guerra avevano sfregiato la vecchia città, né d’altra parte avrebbero potuto richiamare la sua attenzione perché gli edifici in rovina sono tutti uguali e Vergato di rovine ne aveva ancora in abbondanza.
Davanti ai Giardini Margherita, dopo le mura di cinta, il tranvai iniziò a salire verso la collina. Scese al capolinea, da una parte qualche casa, dall’altra una strada polverosa e sconnessa. Sembrava di essere chissà dove, eppure si trovava solo a un chilometro e mezzo da Porta Santo Stefano. La ragazza non era nemmeno troppo lontano dal Sanatorio, visibile a occhio nudo se solo avesse saputo dove guardare di preciso. Le indicazioni della conoscente della madre llerano state chiare: doveva percorrere la strada a piedi fino al ponte di un torrente, dopo di esso c’era Via del Pero a Rastignano, all’angolo l’Osteria del Pero, sopra di essa viveva la Sampîra con il marito. Si incamminò, ogni tanto guardava dietro di sé sperando che giungesse qualche corriera. Nulla. Dopo qualche centinaio di metri, da una strada laterale spuntò un birocciaio che trasportava dei grossi zocchi di legna da ardere.
«Signorina, signorina! Avete bisogno?», domandò l’anziano uomo con una voce acuta fermando il mite bardotto che tirava il carretto.
Bruna accettò il passaggio, visto che seguiva la direzione giusta. «È brava, fa del bene a tanta gente. Vedrete signorina…So quello che dico…»
Il vecchio aveva intuito quale fosse la sua destinazione: tutte le donne sole a piedi su quella strada si recavano dalla Sampîra.
L’uomo del biroccio raccontò quel che si diceva sulla Sampîra: nacque nei pressi Imola vestita di una bianca tunica traslucida che la conteneva per intero, dal capino fino ai minuscoli piedi. L’ostetrica si fece il segno della croce e pregava tra le lacrime mentre lacerava il sacco amniotico. A contatto con l’aria riscaldata dal camino il piccolo torace si riempì e poi si svuotò con forza e, finalmente la piccola Giulia iniziò a strepitare come tutti i bambini del mondo. L’ostetrica prese una pezza di canapa linda e in essa avvolse la membrana santa che, privata del proprio liquido, già incominciava a disseccarsi.
«Era nata con la veste bianca…Mi avete capito?»
Bruna non aveva capito proprio nulla di quel che l’uomo intendeva; alzò le sopracciglia, non sapeva cosa rispondere, annuì in maniera esagerata.
Il biroccio si fermò a qualche decina di metri dalla destinazione.

(Continua)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e mia madre) – Parte dodicesima

Gli accadimenti sfavorevoli, la malattia nervosa del padre, il ricovero della madre e la morte di Giuseppe, il ragazzo di cui s’era innamorata, avevano cambiato Bruna. Avvertiva che quella vita com’era diventata non le apparteneva. E  non aveva neppure diciannove anni. Voleva ritornare alla sua leggerezza, quella di quando, scesa dal treno, al ritorno dalla fabbrica, Caterina avvertiva provenire dalla stazione, che distava duecento metri, il vociare e le spensierate risate di Bruna, luminose, squillanti, che volavano per l’aria, diventando il segnale che era giunto il momento di mettere sul fuoco l’acqua per la cottura della pasta.
Pur continuamente circondata da un nuvolo di filarini, ed era la più bella del paese, non aveva alcun moroso. Caterina, immaginando le malignità paesane, le faceva delle interminabili paternali, che Bruna non ascoltava: lei era libera dai giudizi della gente e si ribellava a ogni limitazione. Di fronte alle chiacchiere, tirava dritto per la propria strada perché riteneva di non fare alcunché di male. Una sera d’estate, dietro a una persiana, Bruna restò a spiare un codazzo di otto spasimanti a cui aveva dato appuntamento alla stessa ora, con la complicità della sorella Maria e della cugina Paola, davanti al passaggio che conduceva in fiume. Più male parole e urla giungevano dalla strada, quegli otto stettero per mettersi le mani addosso, e più Bruna rideva di loro insieme alle due che le avevano tenuto bordone. Svanirono, in questo modo, un ben di dio di pretendenti che ogni altra madre avrebbe desiderato per la figlia da accasare. Scuotendo il capo, Caterina le diceva:
«Così non ti sposerai mai… Li farai scappare tutti. Sei troppo selvatica.» Terminava con una premonizione puntando l’indice:
«Ma avverrà, prima o poi, che qualcuno ti domerà!»
I polmoni di Caterina si ammalarono e sua dimora diventò il sanatorio Pizzardi sulla bella collina ventosa tra Bologna e San Lazzaro di Savena: la miseria sulla montagna, gli stenti durante guerra e le ristrettezze prolungate dopo di essa, indebolirono la donna nonostante che fosse una robusta quercia montanara. Prima di partire Bruna ebbe le consegne dalla madre per la conduzione della casa, da eseguire con precisione.
La ragazza prese a viaggiare da sola per recarsi a visitare la madre, così si rese conto della distanza tra la sua vita in un paese di montagna e quella delle eleganti vie nel centro della città. A Bruna sarebbe piaciuto vestire sempre bene, seguendo la moda ma l’abitare tra le montagne e l’avere poco denaro deprimevano ogni possibilità di non apparire come una che veniva giù con la piena, come dicevano i cittadini.
La ragazza non si perdeva d’animo. Si recava da una vicina di casa, la Gelsomina, che aveva un negozio di indumenti usati, la Strazzamérica. Bruna metteva sottosopra gli scatoloni, si provava gli abiti specchiandosi davanti al vetro dell’entrata, immaginando le cuciture necessarie, riprese, orli, asole, perché diventassero come quelli indossati dalle ragazze di Bolero Film o di Sogno. Correva quindi dalla zia sarta per aggiustarli. E Bruna aveva gusto nell’abbinare i colori, nello scegliere le fogge; indossava quella roba da poche lire con portamento signorile, ritta come un fuso, e con il passo franco di una modella.
Un sabato sera Bruna si recò al cinema. Al termine dello spettacolo, alzandosi per andare verso l’uscita con la cugina Paola e la sorella, Bruna attirò l’attenzione di alcuni uomini vicino a loro, che dissero a voce alta:
«C’è la Ferrero!»
«Guardate la Bruna, la figlia di Aristide! »
«Sì, sembra proprio Anna Maria Ferrero!»
E allora la cugina:
«Parlano di te, sai?»
«Ma va là», facendo spallucce.
Una donna si avvicinò e la prese per il braccio:
«Ma come sei bella oggi! Sai che oggi assomigli a un’attrice?»
Arrivata a casa, vide allo specchio che quella gente aveva detto il giusto.
Sulla scia di questa somiglianza cinematografica, Bruna decise di farsi fotografare in pose da attrice. Terminati i lavori di casa, si rassettava, si ravviava i capelli, dipingeva le gote e le belle labbra turgide. Con un fazzoletto di seta per coprire gli abiti casalinghi, correva dal ritrattista del paese per giocare davanti all’obiettivo del fotografo.
A Bruna, in quei momenti, pareva d’udire il fruscio di un bell’abito da sera, la stola di visone sulle spalle e il contatto sulla pelle di una parure preziosa. E sognava di tenere tra le braccia un mazzo di rose rosse profumate con Arpège che lanciava a folle di ammiratori adoranti. Voleva scrollarsi di dosso la miseria.

(Continua)

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