Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte sedicesima

Bruna ringraziò il vecchio birocciaio e si avviò verso l’Osteria con il suo carico di doni. Entrò nell’osteria; un uomo stava scopando il pavimento con una ramazza di saggina, forse era il padrone.
«Mi scusi, abita qui la signora…Sampîra?»
L’uomo rispose allegramente:
«Ma certo! Aspetti un momento!» Uscì e urlò con robusta voce:
«Signora Giuliaaa…Zuffiii…Zufiii!»
Con tono più basso spiegò: «Carati è il nome del marito.»
E con tono ancor più basso, come se fosse un consiglio: «Non la chiami Sampîra…la chiami Giulia. Signora Giulia.»
Zuffi, il marito della Sampîra, scese ad aprire il portoncino, prese le cose che Bruna aveva con sé.
«Sono per la signora Giulia», spiegò la ragazza che, intanto, sentiva salire il cuore in gola. La scala terminava in un pianerottolo con due porte, da una si intravvedeva una grande cucina, dall’altra una sala da pranzo arredata in maniera semplice con mobili tenuti lucidi con cera dall’odore pungente, dove l’uomo disse di mettersi comoda. Bruna si sedette stanca, rivolgendo i pensieri a tutto e a niente.
La Sampîra apparve così silenziosamente da una porta che Bruna fece un salto sulla sedia. Anziana, alta, allampanata, l’incarnato aveva da tempo dimenticato il bagliore del sole. I capelli grigi, poco ondulati, erano sottili fili metalli argentati. Gli azzurri occhi rotondi spuntavano da occhiaie profonde.
«Buon giorno, signorina. Ha bisogno di me?» Il volto ascetico era immobile, senza espressione. Dalla sua persona proveniva ordine e pulizia, come dalla sua casa. Indossava un lungo grembiule nero da cui in fondo spuntava una gonna di colore grigio e sopra una camicetta bianca ricamata a giorno. Gli abiti senza una piega, come se fossero stati appena stirati, emanavano il piacevole odore del sapone di Marsiglia.
«Sì, signora. Da qualche tempo faccio dei brutti sogni, piango spesso e…mi vengono in mente dei pensieri tristi.»
«Quali pensieri?», chiese la Sampîra.
«Ho sempre davanti agli occhi il mio moroso…è finito male.»
Bruna raccontò l’ultima sera e l’ultima mattina di Giuseppe mal reprimendo il pianto.
«E poi…ho avuto tante disgrazie, pochi soldi. Mia madre…ora è ammalata ai polmoni…da mesi è al Pizzardi.»
«Signorina, lei come si chiama?”
«Bruna.»
«Bene, Bruna, venga con me.»
Si recarono nella cucina. La Sampîra versò del latte in un bricco smaltato, aprì la bombola del gas e lo mise a bollire sul fornello. Appoggiò sul piano del tavolo in marmo grigio una tazza e un cucchiaio di legno, Bruna si sedette davanti.
«Mescoli e tenga ferma la tazza con la sinistra.»
Il latte si rapprese formando una specie ricotta semi liquida. Bruna improvvisamente emise un urlo e con uno scatto repentino scacciò la tazza che si fracassò sul pavimento spargendo il contenuto di latte cagliato.
La Sampîra si avvicinò per stringere delicatamente il capo di Bruna contro il seno sussurrando:
«Quel ragazzo non ritornerà più nei suoi sogni.»
Pulirono insieme la cucina, raccolsero i cocci, asciugarono il pavimento e Bruna volle lustrarlo. Tutto ritornò come prima.
La ragazza prese la busta con del denaro dalla giacca e la porse alla Sampîra:
«Non voglio nulla. Tenga questi soldi per sua madre. A casa bruci l’abito dell’ultima volta che vi siete visti con Giuseppe.» Il vestito del ballo al Montone!
E aggiunse:
«I ricordi fanno male.»
Bruna scese la scala, salutò la signora dal basso e chiuse dietro di sé il portocino.
Sulla soglia pensò, con un po’ di scoramento, che la giornata ancora non era terminata e che l’aspettava ancora il viaggio di ritorno. Guardò l’orologio, era l’una passata da poco. La prima corriera per Bologna sarebbe passata verso le tre e mezzo. Decise, così, di incamminarsi a piedi ma vide il biroccio che prima l’aveva condotta alla meta e sopra c’era il vecchio. Lo salutò con la mano quindi si avvicinò.
«Ha visto signorina? Sono rimasto ad aspettarla. Se vuole la accompagno alla fermata del tramvai.»
Bruna accettò con felicità sedendosi accanto all’uomo.
« È rimasta soddisfatta?»
«Oh sì, è una brava signora…» Non aggiunse altro, Bruna non voleva parlare di sé. Il tramvai era fermo al capolinea e il vecchio, tirate le redini del cavallo, la esortò a scendere in fretta. La ragazza lo baciò stringendolo con un braccio e lo ringraziò in un orecchio.
Sul tranvai Bruna si sedette ancora davanti, vicino all’uscita. Guardò indietro, ma il biroccio era sparito. Che avesse preso un’altra strada, oppure una scorciatoia per ritornare a casa? Quel vecchio fu provvidenziale perché gli aveva fatto guadagnare tanto tempo, sarebbe arrivata a casa presto, in tempo per la cena. Pensò che fosse l’inizio di nuova fortuna.
Rivolse il pensiero a Giuseppe e recitò a mezza voce il Requiem aeternam, e poi disse a sé stessa con sollievo:
«È finita.»

(Continua)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte tredicesima

Bruna si recava ogni settimana al sanatorio Pizzardi per visitare la madre; il venerdì partiva dalla stazione ferroviaria di Vergato con il primo treno della giornata fino a Bologna, poi correva per prendere la corriera che la conduceva nei pressi del sanatorio. Raccontava a Caterina le cose accadute; la madre a sua volta dava disposizioni su tutto, elargiva predicozzi e sermoni, le faceva mangiare una parte del suo pranzo poiché non era infettiva, tanto le porzioni del sanatorio erano abbondanti. E dopo seguiva il viaggio di ritorno, in tempo per preparare la cena.
A un banco di stoffe al Mercato della Piazzola, Bruna trovò un giorno quel che faceva al caso suo, una bella pezza di stoffa dal colore del cielo sull’imbrunire. Se la fece mostrare, era di rayon ma pareva seta lucida e cangiante, sufficiente per cucire un abito intero con la gonna a ruota sotto il ginocchio come quelli delle attrici. Non costava molto così Bruna comprò anche la stoffa per il sottogonna e la fodera. La mattina successiva corse con le stoffe dalla zia Teresa, nel negozio della sarta presso cui lavorava, dove anche Bruna faceva qualche ora. Cercarono fra diversi cartamodelli e idearono quello che Bruna aveva in mente: un abito come le dive cinematografiche da spianare al ballo, per la festa del paese, all’Albergo del Montone, il giorno della Domenica in Albis. Bruna voleva essere la più bella e prendersi una rivincita sul passato.
Qualche settimana dopo portò con sé l’abito ancora da rifinire in una valigia per mostrarlo a Caterina. Lo indossò nei bagni del sanatorio davanti alla madre e ad altre donne in cura, sfilando come una mannequin delle Sorelle Fontana o di Maria Venturi quando proiettavano La Settimana Incom.
«Così mi sembri una principessa. Ci vorrebbe una collana…mettiti le mie ingranate… e anche i miei orecchini.» Caterina la sosteneva poiché la figlia si avvicinava ai vent’anni e il matrimonio era un traguardo che nemmeno si intravvedeva. Si commosse pensando al passato, alla miseria, alla sfortuna che non la abbandonava e all’impossibilità di dare un buon futuro ai figli. E pensò a quella zingara che, davanti a casa, le mise una mano sulla schiena, non avendo voluto allungare delle monete, e dopo i polmoni si ammalarono.
Caterina la strinse fortemente tra le braccia commuovendosi e, pian piano, attraversando i ballatoi del sanatorio all’aria aperta, l’accompagnò all’uscita.
Tornando dall’ospedale Bruna si fermò davanti ad un negozio di calzature che esponeva delle scarpette rosse con la punta aperta. Il prezzo le fece accelerare il cuore perché era più dei risparmi nel borsellino. Ma che importava? Gli occhi esprimevano il desiderio di averle: erano perfette per l’abito. Ottenne uno sconto e così se le portò con sé a Vergato.
Finalmente arrivò la Domenica in Albis. Alle otto in punto della sera, Bruna, Maria e il padre entrarono nella sala dell’Albergo Montone. Aristide indossava l’abito buono scuro, di stoffa pesante, una camicia bianca con il solino chiuso, la catena della cipolla d’acciaio che penzolava come un piccolo festone tra i bottoni e la piccola tasca del gilet. Si alzava, cavandosi il cappello in feltro con un gesto ampio, per salutare, aggiungendo un piccolo inchino. Pure Maria era nel suo abito delle grandi occasioni, bianco a pois blu con la gonna plissettata e con gli orecchini della nonna Margherita.
Si sedettero in prima fila attorno a un tavolino non distante dall’orchestra. Un organetto bolognese, un clarinetto, una chitarra e un contrabbasso aprirono con un valzer veloce alla filuzzi dalla melodia banale. La pista in pochi minuti, una coppia dopo l’altra, si riempì di vita.
I balli erano iniziati eppure Bruna stava seduta con il cappotto addosso dando le spalle alla pista, quasi non volesse esser vista dalla gente. Sentiva una grande agitazione: troppi sogni ad occhi aperti prima della festa, ora temeva la gente, gli sguardi invidiosi, le male parole. Le gambe pesavano come il piombo sentiva che non sarebbe mai riuscita a mettere un piede dopo l’altro sul ritmo della musica.
Un momento di pausa, le coppie rimasero ferme, e quindi l’orchestra attaccò un secondo valzer. Aristide alzandosi dalla sedia si tolse allora il cappello, si inchinò davanti ad Bruna e la condusse per mano in mezzo alla sala. Accennando un inchino di galanteria con il capo, diventò il suo primo cavaliere.
Eeeee ùun-duè-tre, ùun-duè-tre,ùun-duè-tre…Padre e figlia iniziarono a ruotare nel valzer. Finalmente la gente poté vedere la radiosa bellezza della ragazza.
Il vestito le stava da dio. La zia Teresa guardava in mezzo alla gente:
«Bruna sei bella…Se-i bel-la!», scandì portando le mani alla bocca a mo’ di megafono per farsi sentire bene.
«Aristide hai fatto proprio una bella figlia!», urlò un uomo e gli altri applaudirono.
Le piroette al ritmo della musica schiudevano le pieghe della gonna come un fiordaliso sotto il sole del mattino, l’aderente corpetto smanicato terminava in basso con punta, spiccavano cinque bottoni di madreperla bianchi e si chiudeva sotto il collo con un fiocchetto annodato che formava un sottile spiraglio da cui si intravvedeva il décolleté. Il blu cangiante dell’abito faceva contrasto con il vivace cremisi delle scarpe e della borsetta in raso tenuta al polso destro. Bruna era ora un’attrice del cinema come aveva sognato, solo le ingranate sbrilluccicanti di Caterina, i gioielli dei poveri, ne tradivano le origini montanare.
Al termine della musica, ben quattro cavalieri l’aspettavano per una polka; Bruna essendosi rinfrancata nell’animo, disse loro, con sorridente civetteria, che con pazienza avrebbe danzato con tutti e stabilì il turno.
Aristide si tolse di mezzo e, ritornato al tavolino, prese per mano Maria, non ancora invitata da alcun cavaliere, mostrando quanto gli altri uomini avrebbero dovuto fare con le donne sedute.
Bruna, terminati i cavalieri, pensò di riposarsi per il tempo di un ballo.
Sentì una voce da dietro:
«Ci conosciamo ancora?»

(Continua)

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