Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Introibo

Il maggior vantaggio dell’età matura è l’aver trovato la forza di riconsiderare i fari della mia vita. Se per tanto tempo, in gioventù e oltre di essa, certi aspetti importanti dei miei genitori che mi hanno condotto a essere quale sono mi avevano generato imbarazzo sia con amici, conoscenti e colleghi di lavoro sia, soprattutto, con me stesso, ora questo malessere è definitivamente scomparso, sostituito da uno sfolgorante senso di orgoglio per tutto ciò che è stato e, ancor più, per tutto quello che ora è: gli anni mi hanno conferito forza e fierezza, dandomi consapevolezza dell’unicità della vita dei miei genitori e, conseguentemente, della mia. Un nuovo atteggiamento mi induce ora a descrivere l’altra faccia della Luna, a parlare per intero di accadimenti parzialmente conosciuti solo dalle persone più intime che mi attorniano, fatti importanti quanto la faccia invisibile del nostro satellite.
Con il cambiare del punto di osservazione, ovvero mutando l’abitudine mentale generata dalla prolungata, unica, permanenza in sé stessi e nel solo tempo designato per la propria esistenza, si otterranno differenti percezioni degli elementi che compongono il proprio mondo, nuove riflessioni, si vedranno orizzonti inaspettati. Durante una conferenza tenuta dalla mia professoressa di lettere del Liceo scaturirono in me, a sua insaputa, alcuni particolari pensieri: si aprì una nuova finestra da cui osservare me stesso secondo una nuova prospettiva. Rimasi molto coinvolto dalla rappresentazione di certi avvenimenti bolognesi a cavallo tra i secoli XVIII e XIX, cioè l’ascesa sociale della lughese Contessa Cornelia Rossi Martinetti, l’arrivo dell’imperatore e Re d’Italia Napoleone I, la descrizione del giardino all’inglese donato da Giovanni Battista Martinetti alla contessa Cornelia sua moglie che, insieme alla bella casa di via San Vitale, diventarono luoghi per uno dei più celebrati salotti europei in cui passarono Byron, Leopardi, Foscolo, Canova, Monti, Shelley, Stendhal, A. Valery, Giuseppina de Beauharnais, Chateaubriand, Ludwig di Baviera. Mi colpì particolarmente il malinconico tramonto della celebre Contessa Cornelia ma, soprattutto, l’anno della sua morte: il 1867, appena trentuno anni prima della nascita di mio padre. Con questi pensieri la Storia mi fu tutto a un tratto più vicina, come se mio babbo, essendo nato nel 1898, fosse una cerniera che univa una favolosa epoca lontana a quella attuale; attraverso lui, saltando almeno una generazione rispetto ai genitori dei miei coetanei, era come se avessi percepito quegli splendidi anni meno estranei al tempo in cui sono immerso: mio babbo diventava per me, uomo del XXI secolo, una lente di ingrandimento che mi avvicinava al XIX secolo. Pensai allora che forse è possibile trovare, che forse esiste, una catena spazio-temporale di persone e avvenimenti capace di individuare una connessione tra la mia persona attuale e, per esempio, Napoleone Bonaparte o qualsiasi altro personaggio storico. E sentii non così distanti le Mura della città con tutte le porte ancora in piedi, mi immaginai i canali, le canalette e i ponti sull’acqua scomparsi; quasi come se fosse un ricordo personale, mi raffigurai l’andirivieni notturno di carrozze davanti ai teatri bolognesi con il rumore delle cerchiature sul selciato e lo scalpicciare di docili cavalli; e poi la processione per gli Addobbi lungo le strade ombreggiate dai drappi damascati sovrastanti tesi da casa a casa, arredate con tappeti orientali, scintillanti cristalli, lucidi argenti e bellissimi dipinti portati dalla ricche case sotto i portici per suscitare invidia; quindi percepii la gazzarra della folla e dalle musiche della sontuosa Festa della Porchetta in Piazza Maggiore, odorando il grasso versato sulla folla dal balcone di Palazzo d’Accursio insieme al maiale arrostito e a una miriade di animali vivi da cortile… Queste epifanie di lontane epoche mai vissute fanno forse parte di un’ideale eredità trasmessami da mio padre, essendo esse state a lui assai più vicine rispetto alla mia contemporaneità, oppure sono solo pensieri rappresentanti un me stesso in disagio esistenziale verso gli attuali cambiamenti che si manifesta con il desiderio di non essere qui ma in epoche passate? Mia mamma, poco propensa a rimpiangere il già vissuto, attaccata all’hic et nunc e sempre tesa verso il futuro, ritenendo simili pensieri improduttivi, mi direbbe di piantarla. Eppure questi pensieri, applicati alla riflessione sulla mia vita, hanno avuto un seguito con dirette conseguenze su di me.
 In gioventù e per tanto tempo dopo, vedevo il trascorrere dei miei giorni come se fossi su una barca che segue la corrente di un fiume: una sorgente, un rigagnolo d’acqua che diventava torrente, poi il letto del mio fiume si ingrossava, ma senza avere dalla barca contezza della sua portata. In maturità, mi trovo fermo sulla foce e uno sguardo retrogrado mi mostra l’enorme volume di acqua che mi ha travolto e che tuttora non cessa di farlo. Mi rendo conto delle piogge cadute nel corso degli anni ma, soprattutto, constato il contributo degli affluenti, i miei genitori, altrettanto responsabili quanto le prime della travolgente piena finale. Questo sguardo dalla foce verso l’origine, prima che il fiume si disperda in mare, diventando il mio passato l’oggetto osservato, mi ha dato consapevolezza della spessa complessità del mio passato, che la sua singolarità è dovuta all’indissolubile intreccio della mia vita con quella dei miei genitori, tre anime tra loro avviluppate come nel gruppo del Laocoonte.
E ancora la professoressa di lettere, allorché narrai per bene alcune delle vicende che seguiranno, sgranò gli occhi poi, con gravità professorale, mi disse: «Hai a disposizione una trama che tanti scrittori ti invidierebbero…ti esorto a metterla per iscritto». E non potei raccontarle lo stupefacente colpo di scena finale perché non si era ancora inverato. Come nell’adolescenza, però, la presi sul serio. Mi affaccendai dapprima a progettare una fabula che utilizzava gli eventi accaduti inserendoli in una trama più ampia parzialmente fittizia per colmare i salti cronologici e dare omogenea coerenza alla narrazione; aggiunsi personaggi, delineai un intreccio che, però, avrebbe distolto dai fatti reali assai particolari, che avrebbe sminuito lo stupore da essi generato: questi sarebbero apparsi gemme sì preziose ma incastonate in un anello di bassa lega creato dalla mia fantasia, e ciò non poteva avvenire poiché, nel caso della mia famiglia, il vero è più succoso, croccante e ricco di qualsiasi storia immaginabile, anzi posso affermare che il viluppo tra le vite di mio padre e mia madre con la mia genera perfino un esubero di trama.
La narrazione inizierà quindi non tanto dal momento in cui mia madre mi partorì ma con la nascita, a Grizzana, di mio babbo Riccardo il 12 maggio 1898, motore primo di questa storia.

(Continua)

A occhi aperti

I racconti della mamma hanno aggiunto tante cose ai ricordi di quand’ero bambino, così ho compreso appieno quanto il matrimonio dei miei genitori sia stato particolare.
La mamma iniziava ogni aggiunta alle storie lontane con una domanda semplice, generica, come se niente fosse, per lo più durante una passeggiata, oppure mentre eravamo in automobile:
«Ma te l’ho mai detto che il babbo…?».
E man mano che fluiva il racconto, la guardavo senza parole strabuzzando gli occhi per lo stupore, oppure dovevo tenere ben stretto il volante per non sbandare. Dopo aver ascoltato, facevo qualche chiosa su certi aspetti del babbo, uomo difficile, seguita da un’inutile filippica sulla grande differenza d’età che intercorreva tra di loro.
La mamma prendeva male le mie parole verso il babbo e chiudeva in fretta la questione:
«Oooh, insomma… Smettila mo’ di mancare di rispetto a tuo padre! Io l’ho amato e se potessi ritornare indietro lo risposerei… E se proprio lo vuoi sapere io ero una bamboccia di vent’anni che non sapeva nulla della vita: tuo padre mi ha fatto diventare donna!». Grandi parole, parole che pesano.
Il matrimonio durò appena dodici anni, ma in pratica mai cessò. Anche dopo il trapasso, la mamma ha sempre ritenuto mio padre come guida imprescindibile. Parlava con lui. Lo incontrava in sogno. E nel tempo, questo strano rapporto nel tempo si è intensificato. Per la mamma il babbo non è mai morto.
L’anno scorso, dopo le dimissioni dall’Ospedale Maggiore la mamma – nel giro di poche settimane fu colpita da un ictus ischemico e da un raro ascesso cerebrale – venne ricoverata in lungodegenza presso un ospedale privato. Era il tre di aprile. Colpiva, in cima all’entrata del reparto in cui fu messa la mamma, un cartello che portava la scarsamente rassicurante dicitura Vegetativi, un eufemismo per evitare di scrivere Anticamera del cimitero.
La mamma era diventata emiplegica alla parte destra e totalmente afasica. Immobile per metà e muta. Con la mano sinistra si strappava i tubi, comunicava solo con sguardi e lacrime. Nonostante il verdetto dei medici, non riuscivo a rendermi conto della gravità perché quando si è nel pieno della tempesta l’unico pensiero è quello di governare il veliero. Non volevo accettare il repentino, disastroso, cambiamento della persona che amo di più. Non mi chiedevo che cosa ci sarebbe stato dopo. E poi ci sarebbe stato un dopo?
La sera successiva al ricovero in lungodegenza, un sabato, dopo avere somministrato la cena, mi trovai praticamente solo con lei, poiché la compagna di stanza era totalmente incosciente.
Abbassai le luci e le domandai:
«Mamma, hai sognato il babbo…? Il babbo ti ha parlato?».
Trascorse un breve istante quindi la mamma mosse la testa prima verso la finestra a destra, poi verso di me mosse le labbra:
«Io voglio che tu che io…», sussurrò malamente con flebile voce rauca. La frase proseguì ma riuscii a comprendere solo queste parole. La mamma però riusciva, in qualche maniera, ancora a parlare! Sapevo che il ricordo del babbo avrebbe generato qualcosa di inaspettato.
Provai un’emozione indescrivibile accentuata dall’atmosfera raccolta e intima. Fu un turbamento di rara intensità, quasi un’esperienza spirituale.
Non avendo capito, chiesi alla mamma di ripetere la frase. E lei così fece, senza che riuscissi a comprendere il senso perché evidenziava un’insormontabile difficoltà nell’articolare chiaramente le parole. Aveva in testa un pensiero ben preciso che non riusciva a dire. Questo disturbo del linguaggio si chiama disartria.
Tenevo come non mai a comprendere il tesoro nascosto dietro a quei suoni non casuali. Potevano essere raccomandazioni materne oppure estreme volontà oppure…
Così iniziai a suggerirle il significato andando un po’ a tentoni e un po’ per logica. Nulla. La mamma denegava con un cenno del capo, si innervosiva oppure si commuoveva. Preso emotivamente da questo rebus, persi la cognizione del tempo cosicché uscii ben oltre la chiusura dell’ospedale e dovetti cercare un infermiere per farmi aprire il cancello.
Nei giorni successivi non demorsi. Seduta in carrozzina nel soggiorno del reparto Vegetativi, dopo il pranzo la rassettavo, rimanevo accanto a lei, le parlavo, le mostravo fotografie del passato, dei gatti, perché non s’infrangesse il tenue ponte con il mondo di fuori… E poi, più volte, per diversi giorni, le chiesi:
«Mamma…so che hai delle cose da dirmi. Ti ricordi? Mi ripeti quello che il babbo ti ha detto?». E obbedendo sempre come una dolcissima bambina, rammentava bene il discorso da farmi:
«Io voglio che tu che io…», parole stentate, sillabe sconosciute, dette piano piano.
Si rendeva conto della frattura che ora ci divideva e per questo ogni tanto piangeva.
Togliendole le parole, il destino è stato veramente cattivo con la mamma, come se a Paganini un accidente avesse distrutto il suo miglior violino. La mamma era una chiacchierona, aveva vissuto sulle parole, con esse mi ha cresciuto e fatto studiare. E dalla sua bocca, terminata l’Università, sono uscite le più belle parole mai udite in vita mia, tutte per me: «Marco, a te piace tanto studiare…se vuoi farò ancora sacrifici perché tu possa prendere un’altra laurea». Mia mamma sapeva sorprendermi. Le sono ancora grato per questo, ma non approfittai dell’opportunità che mi offrì.
Il dodici marzo, sempre dopo aver mangiato, decisi di filmare le risposte per ascoltarle a casa con calma. Non c’erano persone che ci potessero disturbare, solo rumori distanti provenienti dalle camere e dalla sala degli infermieri.
«Mamma, dimmi che ti ha detto il babbo. Hai sognato il babbo?». E avviai l’iPad per riprenderla.
Aveva gli occhi ben vigili, seppure di persona ammalata.
Non mi rispose, dapprima sbuffò, fece no con il capo, socchiuse gli occhi. Accennò ad un sorriso facendo uno strano gesto con la mano sinistra quindi lo sguardo fu attratto da un punto davanti a sé. Strinse appena palpebre, un nuovo no, corrugò le sopracciglia… Poi fissando un punto, incominciò dapprima a parlare come se stesse leggendo delle parole scritte nell’aria davanti a sé.
Si interruppe per un istante.
Riprese senza più leggere parole invisibili, e da quel momento assistetti ad un dialogo intimo, da cui ero totalmente escluso, tra la mamma che aveva perso la parola con un qualcuno fatto di nulla, etereo.
E durante il colloquio rise, s’arrabbiò e pianse…
Quando riguardo questo video mi piace tanto pensare che la mamma abbia fatto a occhi aperti il sogno da lei più amato.

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