Voci nel Giorno della Memoria

Auschwitz. Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche scoprirono gli orrori del campo di concentramento e sterminio. Pochi sopravvissuti. Tra gli italiani, Primo Levi, Liliana Segre, Piero Terracina e Sami Modiano.

Lì morì un numero imprecisato di esseri umani. Forse un milione. Forse un milione e mezzo.

Cosa significa eliminare quasi un milione e mezzo di persone? Significa trasformare in deserto una città come Milano.
A cosa corrisponde uccidere quindici, venti milioni di persone? Potrebbe corrispondere allo svuotamento di tutte le principali città italiane, le più popolose.

E quest’ultimo numero sarebbe una stima aggiornata di quanti uomini, donne, vecchi, bambini,  furono uccisi dal governo nazista e dai suoi governi fantoccio.
Ebrei, oppositori politici, omosessuali, rom, sinti, testimoni di Geova, persone con problemi fisici, mentali, e tutti gli indesiderabili.

La Shoah.

Le leggi razziali.

Sessant’ anni dopo, nel 2005, le Nazioni Unite designarono che, il 27 gennaio, i Paesi dovessero commemorare le vittime dell’Olocausto.

Il Giorno della Memoria.

Ricorrenza di grande importanza: da una parte, occasione per ricordare un orribile passato, dall’altra parte, giorno dedicato alla riflessione su di un futuro che si profila sempre più incerto.
Per gli uomini e le donne che professano la religione ebraica gli eventi di quegli anni terribili sono scritti indelebilmente nel profondo del cuore.
Per tutti gli altri non è sempre così. La memoria collettiva degli uomini si mostra assai breve e labile.
Il Giorno della Memoria sembra essere, perciò, più importante per chi non professa la religione ebraica che per gli ebrei.
Appare necessario continuare a rappresentare lo sterminio nazista in tutto il suo orrore affinché le anime di chi non è ebreo non perdano la sensibilità nei confronti di queste atrocità. Per fustigare l’indifferenza. Per combattere quella pericolosa tendenza attuale rappresentata dal cosiddetto revisionismo storico.

Per evitare che la Storia si ripeta.

Penso che carnefice non fu solamente chi impartì gli ordini, chi eseguì materialmente quei crimini feroci, chi sostenne manifestamente regimi nazisti e fascisti.
Tra la gente comune stavano tanti piccoli-grandi correi, una moltitudine di gente apparentemente senza colpa che qualcosa sapeva. Che lasciò fare.
La testa bassa e il consenso – la paura – furono complementari a quei crimini.

Tenendo la schiena dritta, con il contributo di ogni individuo, la Storia avrebbe imboccato un’altra strada.

Narrerò ora di alcuni artisti lirici che, non ebrei, né vittime dei nazisti, tentarono di tenere la schiena dritta, oppure furono dissidenti nei confronti dei governi nazisti, filo nazisti e fascisti, o artisti che mai collaborarono con la propaganda di regime.

Narrerò, infine, di chi semplicemente aiutò persone in bisogno o in pericolo di morte.

Piccole storie, poche cose.

In Italia ricordiamo tre cantanti, il tenore Luigi Fort, e i due grandi soprani leggeri Toti Dal Monte e Lina Pagliughi.

Luigi Fort

Luigi Fort  (1907-1976), torinese, cantava come tenore lirico-leggero. Si ritirò dal palcoscenico allorché l’Italia cadde sotto il controllo dei tedeschi, e combatté con i Partigiani.
Lasciò definitivamente le scene agli inizi degli anni sessanta. Morì a Milano.

Toti Dal Monte

Chi non conosce Toti Dal Monte (1893-1975), almeno di nome? Il suo vero nome era Antonietta Meneghel e nacque a Mogliano Veneto. E’ meno noto che aveva uno zio di religione ebraica, Renzo Sacerdoti, quasi coetaneo. I nazisti lo catturarono. Si dice che la celebre cantante si adoperasse per salvarlo chiedendo, invano, aiuto a Claretta Petacci.

Avvenne però che, nel 1944, la Toti si esibisse davanti a Hitler e questi volle congratularsi con lei per l’esecuzione del concerto. La Toti non perse l’occasione di chiedere al Führer la liberazione dello zio. Passò poco tempo e l’artista ricevette dalla Segreteria del dittatore la comunicazione che, con rincrescimento, Renzo era morto ad Auschwitz. Il soprano nascose la fine dello zio. Solo dopo quasi tre anni Toti dal Monte trovò il coraggio di mostrare quella tragica lettera alla moglie di Renzo Sacerdoti.

Nel 1945 si ritirò dalla vita lirica e continuò come attrice goldoniana nella compagnia del grande Cesco Baseggio. Fece anche dei film, uno per tutti Anonimo Veneziano di Enrico Maria Salerno.

Lina Pagliughi

Essendo nata negli Stati Uniti, a New York, la corpulenta Lina Pagliughi  (1907-1980) non era benvista dal regime  fascista. E non volle mai cantare per i tedeschi.
Sfuggì, quindi, alle retate naziste nascondendosi nelle campagne romagnole.

Dopo la Guerra, a quarant’anni, si ritirò dalle scene dedicandosi alle esecuzioni in forma di concerto, per abbandonare definitivamente l’attività lirica nel 1956. Morì a Gatteo a Mare.

Frida Leider

In Germania, Frida Leider (1888-1975), splendido e celebre hochdramatischer Sopran berlinese, sposò il violinista ebreo Rudolf Deman. Ebbe forti pressioni affinché  si separasse dal marito. Ma si rifiutò. A lei, wagneriana di gran rango, fu impedito di cantare in tutti i teatri tedeschi.

Ritornò a Berlino dopo la Guerra, dove finì i suoi giorni.

Lotte Lehmann

Lotte Lehmann (1888-1976), soprano di storica caratura, pure lei tedesca, decise di emigrare negli Stati Uniti nel 1938. Al Covent Garden dovette rinunciare ad una produzione di Der Rosenkavalier, pur essendo la Marescialla per eccellenza (cantò, però, anche il ruolo di Oktavian), perché alcuni colleghi tedeschi di fede nazista  ebbero un comportamento intollerabile nei suoi confronti. Diventò cittadina americana.

Terminata la Guerra, Lotte Lehmann ritornò  a cantare in Europa solo per l’inaugurazione dell’Opera di Vienna, su invito del governo austriaco. Si spense a Santa Barbara, in California.

Tra i suoi allievi ricordiamo Grace Bumbry, Marilyn Horne e Carol Neblett.

Delia Reinhardt

Delia Reinhardt, (1892-1974), soprano tedesco, fece una bella carriera internazionale. Fu allontanata dai teatri sia perché aveva sposato un ebreo, sia per questioni politiche. Cadde in disgrazia. Nel 1943 la sua casa di Berlino cadde sotto i bombardamenti. Di lei si interessò Wlhelm Furtwängler e così poté cantare nei concerti ma non in opera. Solo nel dopoguerra attraverso l’interessamento di Bruno Walter le sue precarie condizioni economiche poterono migliorare. Morì vicino a Basilea.

Fernand Ansseau

Il grande tenore vallone Fernand Ansseau  (1890-1972) si ritirò dalle scene allorché i nazisti invasero il Belgio, rifiutandosi di cantare per loro.

Dal 1942 al 1944 insegnò al conservatorio di Bruxelles, per poi dedicarsi definitivamente alle sue passioni: la pesca e il giardinaggio.

Era celebre per il suo Werther. Morì nel paese natale, a Boussu-Bois.

Herbert Janssen

Il baritono Herbert Janssen  (1892-1965) nacque a Colonia. Fuggì dalla Germania perché le sue idee politiche erano assai distanti da quelle naziste. Durante una recita di Otello, nelle vesti di Jago, ebbe  un atteggiamento molto provocatorio nei confronti addirittura di Hermann Göring ed Emma Sonnemann. Il cantante si spense a New York.

Kerstin Thorborg

Il mezzosoprano svedese Kerstin Thorborg (1896-1970) troncò il suo contratto con il Teatro dell’Opera di Vienna nel 1938, dopo una recita di Tannhäuser, per dimostrare solidarietà con i perseguitati. Continuò una fulgida carriera al Covent Garden e al Metropolitan. Nel 1930 era stata notata da Bruno Walter. Essenzialmente wagneriana, cantò anche in Aida, Il trovatore, Un ballo in maschera, Samson et Dalila. Morì in Svezia.

Aksel Schiøtz

Il tenore danese Aksel Schiøtz (1906-1975) rifiutò di esibirsi in pubblico durante l’occupazione della Danimarca e cantò in concerti segreti per raccogliere fondi a favore della Resistenza. Diventò un simbolo della Resistenza danese.

Nel 1946 subì l’asportazione di un tumore all’orecchio che lo aveva paralizzato al volto e al collo. Con il sostegno di amici e parenti, soprattutto della moglie, si rimise a studiare canto diventando baritono. Morì a Copenhagen.

Max Hirzel

Seppur svizzero, il tenore  Max Hirzel (1888-1975) cantò essenzialmente in Germania. Nel 1936 dovette lasciare il teatro di Dresda e il suolo nazista in quanto era un noto oppositore politico del regime. Morì a Zurigo.

Martial Singher

Il baritono francese Martial Singher (1904-1990), divenne cognato del direttore d’orchestra Fritz Busch. Il cantante abbandonò la Francia per mettere in salvo la moglie Margareta, essendo figlia di un oppositore del regime nazista.

Dopo guai con le autorità americane, dal 1943 fece parte della Golden Age del Metropolitan. Morì a Santa Barbara, in California.

Emmy Bettendorf
Emmy Bettendorf

Il soprano tedesco Emmy Bettendorf (1895-1963) si ritirò dalle scene nel 1931 per motivi di salute. Rimase vedova nel 1938 ed ebbe difficoltà finanziarie. Per riprendere a cantare, però, le fu chiesto di iscriversi al partito nazista, ma rifiutò. La Bettendorf accettò solo il compromesso di cantare per i soldati in Polonia, Russia, Grecia ed Albania. Durante il conflitto condusse a Garmisch anche un albergo.

Nel 1947 divenne insegnante di canto al Conservatorio di Berlino e qui morì.

Anni Frind

Anni Frind (1900-1987), soprano boemo, rifiutò la tessera del partito nazista e dovette abbandonare le scene. Favorì la fuga clandestina di molti ebrei e fu interrogata più volte dalla Gestapo nonostante non esistessero prove contro di lei. Venne così messa di fronte ad un aut-aut: o cantare per i militari al fronte o essere internata in un campo di concentramento. Scelse la prima strada, cantò per qualche tempo per le  truppe, poi ritornò in patria come infermiera del padre che svolgeva l’attività di chirurgo.

Nel 1951 emigrò a New Orleans, li insegnò e morì.

Cantante di grande popolarità, espresse la sua arte sia nell’opera che nell’operetta.

Lauritz Melchior

Il celeberrimo  Lauritz Melchior  (1890-1973), danese, debuttò come baritono per diventare l’heldentenor di riferimento, forse il più grande. Le opere wagneriane costituirono il suo repertorio principale ma non disdegnò di cantare i ruoli di Otello, Samson, Radames, Canto e Turiddu.

Rifiutò ogni offerta di cantare nella Germania nazista, nonostante il diretto interessamento di Hermann Göring.

Dopo il 1933, cantò principalmente al Metropolitan di New York.

Nel 1950 lasciò questo teatro per via di grosse incomprensioni con Rudolf Bing, il famoso direttore artistico di origine austriaca ed ebraica. Melchior dimostrò belle capacità anche come attore brillante in film musicali, radio e televisione. Diventò cittadino americano nel 1947.

L’ultima apparizione in pubblico avvenne a San Francisco nel 1966, dirigendo delle musiche di Johann Strauss. Morì a Santa Monica ma riposa a Copenhagen.

Jarmila Novotna

Altro soprano fermamente antinazista fu la cecoslovacca Jarmila Novotna (1907-1994). Nacque a Praga. Donna di fascinosa bellezza, partecipò a diversi film.

Troncò ogni contratto con i teatri tedeschi fin dal 1933, e cantò in Austria fino al 1938. Invitata da Toscanini nel 1939 a cantare La Traviata negli Stati Uniti, riuscì, da lontano, a salvare l’intera sua famiglia poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Per commemorare le vittime del massacro di Lidice, villaggio raso al suolo in rappresaglia all’uccisione di Reinhard Heydrich, noto come il «boia di Praga», la Novotna incise una raccolta di canti popolari boemi. Il pianista fu un altro profugo, Jan Masaryk. Il soprano morì a New York.

Consola sapere che, in quei tempi veramente difficili ed estremi, anche nel dorato mondo dell’opera, sempre molto vicino ai potenti e ai vincenti, ci furono persone che seguirono degli ideali di libertà e umanitari.
Non tantissimi.
Ma ci furono.

 

Tre millantatori all’Opera – Un paltò da tenore (Parte Prima)

Era freddo. Pioveva come se fosse stato pieno autunno.

Una giornata triste. Sembrava il giorno dei morti e invece attendevamo la Pasqua di Risurrezione.

«Un paltò da tenore…è già calato nel ruolo», pensai prima che mi dicesse con un franco sorriso e sguardo schietto:

«Ciao, molto piacere. Io sono Rufo»

Alto, moro, capelli ricci, era senza alcun dubbio un bel ragazzo dal sorriso accattivante e schietto.

Indossava un paltò di cammello dal colore avana, a doppio petto, con un’importante martingala. Un collo di pelliccia scura rivestiva gli ampi rever. Insomma un paltò da invidiare.

«Finalmente ti conosco in carne ed ossa! Questo strano individuo mi ha straparlato di te», dissi indicando Tullio.

Sotto il paltò, Rufo indossava un pullover a V, una camicia bianca e una cravatta di maglina intrecciata. I pantaloni erano ben stirati con la piega e aveva delle scarpe lustre lustre, solo appena bagnate dalla pioggia battente. Di primo acchito, tutto questo avrebbe fatto pensare ad un composto bravo ragazzo cresciuto in una famiglia borghese.

Poche parole bastarono per dissolvere questa idea ed anche l’ostilità in me alimentata da Tullio. Rufo era un tipo estroverso. Allegro.

E simpatico, anche per il vivace appetito: si mangiò nel giro di due ore, mezza colomba pasquale con tre tazze di tè e non so quanti ovetti di cioccolato con cioccolatini FIAT.

Mi apparve ancor più simpatico quando disse apertamente che era di sinistra. Tullio per questa dichiarazione ebbe, invece, un tuffo al cuore…un altro filo-comunista sulla sua strada!

L’amico che il ‘bello’ aveva portato con sé si chiamava Gabriele e indossava un loden blu e jeans.

“Questo è segno che non sta a sinistra”, mi dissi. “Quelli di sinistra hanno il loden verde. Speriamo che sia solo democristiano”.

Gabriele pareva un bambinone, biondiccio remissivo e timido. Lo sguardo languoroso evitava di incrociarsi con il mio. Seduto, fissava inerte il vuoto innanzi a sé tenendo le braccia conserte e stringendo il naso con l’indice.

Quasi non sentii la sua voce poiché si limitava ad assentire con il capo quando parlava l’altro, come se le parole di Rufo rappresentassero anche i suoi pensieri.

“Mi sa che questo Rufo sia un accentratore. Molto simpatico, ma…”

Tullio finalmente chiese a quello che, secondo lui, era l’erede di Tamagno:

«Rufo, ti va di farci sentire l’Esultate?»

Ma questi, essendo già ’tenore’, assai più del previsto – e non solo per il soprabito di cammello- rispose laconicamente:

«No. Oggi non mi sento bene».

Rufo raffreddò le scontate aspettative con tono fermo, addolcito da un sorriso serafico.

Ed io pensai:

“Ecco, fa il divetto. Almeno è un divo simpatico, per fortuna!”

«Però lui canterà ‘Prendi l’anel ti dono’», disse il divetto.

Gabriele finalmente si risvegliò dal torpore:

«Ma come? Perché dovrei cantare io?»

Rufo lo zittì:

«Su, avanti avanti, canta!»

Mi venne da ridere:

“Che coppia!”, mi dissi, “Lo comanda a bacchetta. Ci manca solo che gli dica ’sitz’, ‘platz’, ‘fuss’. Ma forse se lo merita…”

Il mite Gabriele obbedì senza fiatare. Obbedì meglio di tanti cagnolini da grembo con fiocchetti e fiocchettini.

Gabriele s’alzò in piedi giunse le mani e fissò il soffitto.

Prendi: l’anel ti dono

Che un di recava all’ara

L’alma beata e cara

Che arride al nostro amor.

Pareva di assistere alla lettura di una letterina natalizia.

«Bravo, vero?», disse immediatamente Ruffo per bloccare ogni critica. E spiegò:

«Studia con il mio maestro da due mesi. Hanno preparato insieme solo questo pezzo».

Tullio, come se fosse il presidente di una commissione giudicatrice, chiese:

«Ora Gabriele cos’altro ci canti?»

E lui, guardando Rufo con la coda dell’occhio, rispose:

«Va bene il Lamento di Federico?».

Il Capo annuì.

È la solita storia del pastore…

Il povero ragazzo voleva raccontarla

E s’addormì.

«Ha buon gusto, vero?»

In verità, Gabriele non mi aveva entusiasmato: a me piacevano i tenori temperamentosi anche un po’ strafalari. Però non cantò male. La sua voce mi parve gradevole ma zuccherosa, talora malferma, talora nel naso.

Non mi esposi troppo dal momento che la nostra conoscenza era incominciata un’ora e mezzo prima:

«Belle mezze voci. A tratti ricorda Tito Schipa!».

Questa risposta era come quando si dice che una persona ha dei begl’occhi se non si ha nulla di meglio da dire.

La faccia di Gabriele, fino a quel momento priva di emozioni apparenti, si illuminò di felicità, come succede a un bambino mentre scarta un regalo: il tenore di Lecce era, infatti, il suo tenore preferito e queste parole le sentiva dire ripetutamente dal suo insegnante Floriano Mantovani. E qualcun altro se n’era accorto!

Rufo decise che il pomeriggio era finito. Si portò via con sé gli altri due dopo aver preso gli accordi per il pranzo del lunedì.

Due giorni dopo, alle tredici, sempre puntuale come un orologio svizzero, arrivò Teresa la farmacista, l’altra mia partner di scantarellate. Un bel volto regolare come quello delle bambole in celluloide sui letti matrimoniali o sulle cassapanche. Rideva con facilità e di gusto, ogni risata veniva anticipata da un leggero rumore di un motorino appena avviato. Cantava con una voce argentina alla Pagliughi le cose più disparate, l’Otello, il Barbiere di Siviglia, la Norma, il Don Carlos, mantenendo sempre la stessa espressione paciosa.

Era una brava cuoca e portò un bel cabaret di tartine e salatini.

Dopo qualche minuto suonò alla porta Tullio con un fardello caldo in mano, avvolto di carta stagnola e poi ancora in un burazzo da cucina per non scottarsi. Aveva preparato un ‘prosciutto in crosta’.

E precisò:

«Ho pensato di fare questo perché avevo in frigorifero un prosciutto cotto scaduto»

Conoscevo bene la filosofia di Tullio in cucina: non si doveva buttare via nulla, come ai tempi dell’autarchia. Quando preparava qualcosa da mangiare io temevo sempre di passare la notte in bagno con i dolori di pancia.

«E come hai fatto la crosta?» chiesi. Trattenni il riso perché prevedevo la risposta.

«Con della pasta sfoglia inutilizzata che avevo in frigo. L’avevo comprata per Natale».

Mi dissi:

“Tanto male non potrà fare…è stato cotto in forno. Io non lo mangerò, nemmeno se mi pagano”.

E lui:

«Vediamo di sbolognarlo tutto, tagliando delle fette grosse. Non vorrei riportarlo a casa. Quel che rimane lo diamo a Rufo per il bis, tanto quello mangia tutto fino a scoppiare».

Suonò Edmondo con Evelina. Il primo aveva con sé un arrosto farcito di frittata e spinaci, l’altra un pesce finto di tonno e patate. Non avevo ancora capito se la loro relazione fosse stata consumata oppure se perdurasse la contemplazione platonica di Evelina.

Si presentò Rufo con il suo bel paltò e due bottiglie di vino:

«Buona Paaasquaaa», augurò a squarciagola, distribuendo saluti e sorrisi a tutti.

«Ecco, è arrivato il grande tenore. Potrei avere un autografo? Ahahaha…», fece Tullio.

Ed Evelina accorrendo verso Rufo:

«Oooooh finalmente sei arrivato! Pieranti, sento il bisogno di essere baciata da te!»

Ma fu lei che lo baciò.

E anche Teresa espresse ammirazione:

«Rufo, quanto sei bello oggi…con la giacca e la cravatta! Anche la sciarpa di seta! Elegantissimo». In effetti pareva provenire da una prima teatrale.

Dietro all’Astro Raggiante, in penombra, c’era Gabriele con una faccia da fototessera e un uovo pasquale in mano. Aveva lasciato il loden ‘di destra’ nell’armadio della sua stanza per indossare un cappotto inglese con la mantellina. Pure lui aspettava di ottenere qualche attenzione, ma non ebbe alcun complimento. Con Rufo gli succedeva sempre così, ad ogni festa, ad ogni pranzo, ad ogni cena.

Teresa si limitò a dirgli:

«Ciao Gabriele, come stai? Che bell’uovo di Pasqua! E’cioccolato fondente o al latte?»

Come sempre, mancava la Corinna. Sembrava che il suo orologio fosse sincronizzato con il Meridiano di Greenwich poiché i suoi ritardi arrivano all’ora ed anche oltre.

Qualche giorno prima, Teresa mi disse:

«Perché alla Corinna non dici che l’appuntamento è alle dodici e un quarto?»

Mi parve un ottimo espediente. Ed eseguii.

La Corinna mi rispose:

«Non è un po’ presto?»

«Sì, ma Edmondo ed Evelina devono andare in parrocchia dopo aver mangiato…», fu la prima cosa che mi venne in mente.

Corinna suonò il campanello della porta quasi all’una e un quarto. Lo stratagemma di Teresa si dimostrò pienamente efficace.

E l’ultima ad arrivare esclamò compiaciuta:

«Aaaaah, vedo che siete tutti ritardatari!»

«No, cara! Noi siano stati puntuali» rispose l’inopportuno Tullio. Gli affondai un’energica gomitata per zittirlo.

La ritardataria, forse confusa, non rilevò il piano che Teresa ed io avevamo architettato.

Con la sua svestizione ci fu la rivincita di Gabriele: la Corinna stornò ogni attenzione da Rufo su di sè.

Iniziò la danza dei sette veli.

Si tolse una specie di colbacco in peluche, un modello da magazzini GUM sulla Piazza Rossa, allacciato al mento con dei bei pompom. La Corinna poi sdipanò dal collo e dalla tracolla, piena di cianfrusaglie, la sciarpa fatta a ferri mentre guardava Happy days e Star Trek. Il cappotto alla Mary Poppins era un orribile principe di Galles multicolore dal disegno gigantesco.

Potemmo infine ammirare il capolavoro di sartoria fatto dalla zia sarta che Corinna esibiva con evidente orgoglio: una gonna fino alle caviglie e un bolerino fatti di un vellutino nero con tante ellissi chiare grandi come un uovo. All’interno di ogni ellisse, un mazzo di fiori tenuto insieme da un nastro. Il colpo d’occhio era quello di un camposanto.

La Corinna mi mise in mano una casseruola sigillata con un coperchio:

«Ho portato i piselli al prosciutto per contorno…Scaldali aggiungendo un po’ d’acqua perché si sono asciugati».

Asciugati? Erano piselli in scatola strinati come caldarroste, una roccia vulcanica con qualche dadino di prosciutto annerito.

Io avevo preparato due dolci presi dall’Artusi: il budino di semolino e conserve di frutta, ricetta N.658, e le Tazzine, ricetta N.686, una gustosissima crema a base di mandorle tostate, tuorli d’uovo, cannella ed acqua di zagare.

Le lasagne di mia madre emanavano un odore inebriante.

Era freddo: si poteva mangiare e bere in allegria.

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