Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte ottava

Vergato, 1953.
«Bruna, vieni qua in furia», urlò Emma dal giardino, una vicina che leggeva i tarocchi e, con preghiere lasciatele dalla madre, toglieva il malocchio, se era di poca cosa, segnava i piccoli che tettavano di malavoglia e il fuoco di Sant’Antonio. Si faceva pagare per questi servizi né tanto né poco cosicché in casa quasi nulla mancava, come si intendeva dagli odori di brodo e arrosto intorno alla casa. Il suo quieto vivere si riscontrava anche dai capelli acconciati dalla parrucchiera e dagli abiti quasi eleganti per una montanara di mezza età.
Bruna spesso si recava da Emma, non tanto per farsi leggere il futuro quanto perché aveva trovato in lei una persona comprensiva e discreta con cui confidarsi; in questo era meglio della madre Caterina, sempre prodiga di ordini, rimbrotti ma non di comprensione. Conscia della propria limitatezza nel temperare i lividi e le piaghe della sfortuna, volendo aiutare la ragazza, sperando per Bruna in un buon matrimonio che migliorasse la sua condizione, Emma promise d’avvertirla allorché fosse passato in paese uno stariån, uno stregone, della città che ospitava saltuariamente nella sua casa per servire la gente bisognosa d’aiuto contro la sfortuna e la cattiveria.
«Arrivo subito, Emma», rispose la ragazza, dalla porta a vetri.
«Quel signore ti aspetta in casa mia…», disse la donna ammiccando con l’occhiolino, a tono basso perché le malelingue non intendessero le loro questioni private.
Bruna sistemò la sfoglia appena impastata in una terrina che coprì con un piatto, andò a lavarsi le mani impiastricciate di uova e farina; gettò su di una sedia il grembiule con il fazzoletto annodato alla nuca quindi raccolse i capelli alla bell’e meglio con delle forcine, indossò un giubbino, e corse all’abitazione della vicina.
Lo stariån, il fattucchiere, di Bologna raggiungeva il paese ogni primo lunedì del mese in concomitanza del mercato che si teneva dietro all’abside della chiesa in uno spiazzo delimitato da un bizzoso torrente, il Vergatello, che qualche decina di metri dopo, passando sotto il ponte della ferrovia, immetteva le proprie acque nel Reno. Riccardo aveva una gran nomea per tutta la montagna ma nessuno sapeva che cosa facesse esattamente, se fosse un cartomante, un esorcista oppure un guaritore. Nel paese si diceva che fosse perfino una specie di medico. Tutti sapevano che senz’altro faceva del bene.
Aveva seguito l’arrivo di Bruna da una finestra, nascosto dalle tendine; non mostrò quindi alcuna sorpresa allorché si trovò innanzi una ragazza che avrebbe potuto partecipare a un concorso di bellezza pur essendo abbigliata per le faccende di casa con un’acconciatura frettolosa, senza rossetto, cipria e bistro.
Il Mago invitò la ragazza, con asciutta galanteria, scostando la sedia, ad accomodarsi al tavolo della sala da pranzo. E mentre mischiava le sue carte Navalde, le chiese quale fosse il motivo per cui intendeva conoscere il futuro. Salute? Interessi? Amore?
La ragazza squadrò l’uomo in doppiopetto, tra grigio e carta da zucchero, che non mascherava la corpulenza di uomo maturo, più grande del proprio padre, una camicia bianca con gemelli ovali, una cravatta argentata con un nodo semplice e, infine un fazzoletto nel taschino della giacca. Il risvolto dei pantaloni cadeva morbidamente sulle scarpe nere ben lucidate. A Bruna, che sapeva lavorare da sarta, parvero cose di buona fattura, per le feste o le grandi occasioni e pensò: «È un cittadino, non un montanaro.» Lo sguardo penetrante degli occhi cerulei sembravano leggerle l’anima. Per la prima volta, in diciannove anni di vita si sentì intimidita.
«Vorrei sapere soprattutto della salute di mia mamma e degli interessi.» Un ingenuo pudore impedì a Bruna di dire d’essere interessata anche all’amore; ma questo, per un uomo di mondo come il Mago, era scontato poiché a quella giovane età l’amore non può essere assente dai pensieri di una bella ragazza.

(Continua)

 

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