Tre millantatori all’Opera – Il soprano bolognese (Parte prima)

Lessi di un episodio avvenuto al Caffè Florian di Venezia, non so in quale anno del boom economico. Un giovane direttore d’orchestra che avrebbe fatto una bella carriera incontrò, per caso, un corpulento signore oltre la settantina, dalla chioma bianca un poco scapigliata. In maniera esuberante raccontò di essere non solo un famoso tenore ma anche il rivale di Enrico Caruso al Metropolitan di New York. Disse di aver cantato con Arturo Toscanini.

“Ah, ah, ah! Lei lo conosce?» chiese il direttore d’orchestra al critico musicale che raccontava il fatto su una rivista, non ricordo se questi fosse Rodolfo Celletti o Giorgio Gualerzi.

«Ha detto che il suo nome è Giovanni Martinelli”, continuò mettendo implicitamente in dubbio la veridicità delle parole. Insomma un fanfarone da caffè di lusso.

Il signore «canuto» aveva raccontato, né più né meno, la verità.

Tenore lirico-spinto, gli americani consideravano Giovanni Martinelli l’erede del grande cantante napoletano, uno dei protagonisti della Golden Age del Metropolitan. Nacque nel 1885 a Montagnana, vicino a Padova, città assai fortunata quanto a tenori, poiché diciotto giorni dopo Martinelli nacque Aureliano Pertile.

La cosa paradossale di questo episodio fu che, narrando la verità, il celebre tenore passò per un pittoresco racconta frottole. Come non sapere chi fosse Giovanni Martinelli?

Sic transit gloria mundi.

Andando al Circolo Lirico Bolognese, soprattutto quando era nella sede di Palazzo Tanari vicino a casa mia, si incontrava una certa varietà di innocui gradassi. Spesso tenori che, a detta loro, avevano tutti voce da tenori spinti o drammatici. I ruoli erano Pollione, Manrico, Alvaro, Andrea Chenier, Turiddu, Canio, Calaf e Otello. A proprio dire, possedevano voci migliori sia di Franco Corelli che di Mario del Monaco. Le rare ed ovviamente deludenti esibizioni al Circolo Lirico si concludevano con complimenti sperticati davanti ma, dietro le spalle, tutti li derivano. Macchiette non completamente innocue.

Nell’ambito dell’opera, in pochi anni, ho conosciuto tre millantatori con i fiocchi, un soprano bolognese, un altro ferrarese e un tenore statunitense. Millantatori che costruirono le prove per dare veridicità alle menzogne.

Conobbi la prima millantatrice, quella bolognese, attraverso un vicino di classe del liceo con il quale non mi ero più visto da prima della mia Maturità. Era il 1977.

Entrambi collezionavamo dischi e opere dal vivo ma avevamo gusti musicali differenti: io ascoltavo dalla musica del romanticismo fino a quella contemporanea, Tullio si arrestava alla musica romantica. Adoravamo entrambi tre soprani, Magda Olivero, Montserrat Caballè e Joan Sutherland. Tullio, a differenza di me, non sopportava Maria Callas perché la sua voce ballava e gli acuti erano strillati.

Da quella conversazione uscì fuori che tutti e due cantavamo in casa sopra ai dischi come i matti del Circolo Lirico. Io tenore, lui basso.

Quando Tullio sentì questo gli si illuminarono gli occhi. Mi raccontò che faceva divulgazione lirica: essendo la madre maestra, Tullio cantava davanti ai bambini, mimando l’azione con costumi e qualche semplice oggetto di scena. Allevava una nuova generazione di frequentatori del melodramma. Non solo si esibiva personalmente ma aiutava la madre nello spiegare le opere ai bambini prima di accompagnarli agli spettacoli che il Teatro Comunale riservava alle scuole. L’ultima opera che i bambini avevano visto al Teatro Comunale fu Il Signor Bruschino diretto da Donato Renzetti, e tra i cantanti c’erano Saverio Durante, Silvia Baleani, Franco Federici e l’amico Floro Ferrari. Già in quegli anni si rilevava una crisi delle vocazioni liriche tra i giovani e tutto questo mi parve una piccola attività degna di qualche interesse.

Tullio, però, aveva in mente qualcos’altro. Quasi fosse un impresario, pensava di allestire una breve stagione lirica da rappresentare nella classe della madre: di lì a poco avrebbe messo in scena La Serva Padrona di Pergolesi. Era quasi pronta, aveva terminato le prove con il soprano, a suo dire molto bravo e con una voce bellissima. Una semiprofessionista. A Tullio mancava qualcuno che facesse Vespone, ruolo da mimo. E dopo l’opera di Pergolesi sarebbe venuto L’elisir d’amore. Per questa non aveva ancora trovato il tenore per il gravoso ruolo di Nemorino.

«Tu tenore? Splendido, ti scritturo. Puoi fare sia l’uno che l’altro».

Questa proposta non mi entusiasmò perché ben conoscevo la mia scarsa propensione ad apparire davanti al pubblico, seppur costituito da «cinni» delle elementari. Io ero un cantante che si esibiva in stanza da bagno, mica in una sala da concerto!

E poi, se adoravo L’Elisir d’amore, La Serva Padrona mi faceva addormentare. Tutt’ora con questo intermezzo mi faccio dei bei sonnellini.

La mia risposta fu, dunque, «no».

Ma Tullio non mollò. Ci eravamo, infatti, scambiati i numeri di telefono, e il giorno dopo mi telefonò: mi invitò a casa sua per due chiacchiere, qualcosa da mangiare, per vedere la sua collezione di nastri, ascoltare un po’ di musica. Infine per presentarmi Evelina, il soprano.

E andai.

Ascoltammo nastri, dischi e poi venne il turno di una registrazione di Evelina.

Ascoltammo È strano, Ah forse è lui, Sempre libera degg’io, un bel biglietto di presentazione.

Il brano aveva l’accompagnamento orchestrale. Tullio mi raccontò che il ragazzo di Evelina, caballeiano a trecentosessanta gradi, aveva trovato la base orchestrale dell’edizione completa diretta da Georges Prêtre senza, appunto, Montserrat Caballé.

Il soprano Evelina aveva una voce di timbro molto gradevole, ben emessa, agilità perfette e sciolte. Forse solo un po’ fredda come interprete, se proprio si voleva cavillare qualcosa. Non potetti che dire belle parole e, soprattutto, sincere.

«Accidenti…che brava. Sai una cosa? Mi ricorda la voce di Anna Moffo».

Nella registrazione di Evelina c’era anche il tenore fuori scena:

«È il maestro di Evelina, R.A., un tenore del coro del Comunale», mi spiegò il solerte ospite.

«Evelina canta a teatro?»

«No, è al secondo anno di architettura»

«Come l’hai conosciuta?»

«Ė la ragazza di un mio amico. Insegnano catechismo nella stessa Parrocchia»

«Ha fatto audizioni presso agenzie o teatri?»

«Per ora i genitori non hanno piacere e vogliono che prima si laurei»

Suonò il campanello e Tullio, con uno sguardo che dimostrava di essere al settimo cielo, portò Evelina in salotto a braccetto.

La voce aveva evocato altre fisionomie e un altro modo di essere.

La Diva indossava una pelliccia di lince ottenuta da animali in peluche. Magra, bassa ma con tacchi a spillo, portava dei jeans attillatissimi per metter in mostra il sedere. Mora corvina, una frangia leggermente crespa arrivava oltre le sopracciglia. Il volto terminava con un mento a punta, il naso aquilino spuntava da due zigomi sporgenti, labbra sottili, occhi scuri vivaci leggermente ravvicinati. Non era bella ma, come si dice, «un tipo».

Evelina aveva un carattere estroverso, rideva fragorosamente e con facilità. Parlava starnazzando con la pesante cadenza delle mie parti e poi le essce, le szeta, le tci bolognesi, che avrebbero decimato eleganza e fascino perfino a Grace Kelly.

(Continua)

L’Opera al cioccolato – Una ricetta

«Non amo la cucina francese», dissi a una collega, una di quelle persone che detengono la verità e che vogliono avere ragione a tutti i costi. E modi dalla femminilità assai moderata.

Detta la frase, mi morsi la lingua subito dopo.

La signora prese la sigaretta fumante che pendeva dall’angolo della bocca e mi fulminò con un’occhiata da quattordici milioni di volt.

«Ma che caaazzo dici!», accompagnando la frase, non proprio da fanciulla sullo scalone al ballo delle debuttanti, con una imperiosa oscillazione della mano, a dita congiunte, davanti il naso.

E continuò:

«Sai che quella francese e quella cinese sono cucine codificate?»

Io dissi una sciocchezza, come la maggior parte delle generalizzazioni lo sono, ma la frase della mia rustica collega non fu meno sciocca.

«Ma che c’entra questo? Io parlo dei miei gusti. E se è per questo, la cucina cinese non mi piace per niente», risposi per farle maggior dispetto.

A proposito di cibo e di circostanze francesi, uscì dalla mia bocca un’altra sciocchezza. Di questa, però, sono tuttora molto orgoglioso.

L’occasione fu una gita scolastica a Parigi nel 1982 come insegnante accompagnatore.

Mangiai tra il male e il malissimo, escludendo un gigantesco panino al Marché aux Puces fatto con un ottimo pane, farcito con patate fritte e salsicce di montone.

Mangiai il malissimo una sera che decisi di cenare con i ragazzi al ristorante offerto dal pacchetto della gita.

Mi trovavo una ragazzina di quinta ginnasio ovunque, simpatica ma invadente, blesa come me nella erre.

E pvofessove di qua e pvofessove di là.

Da dietro mi copriva gli occhi con le mani:

«Chi sono, pvofessove

«Sei Mavinavdi»

«Bvavo pvofessove, come ha fatto a indovinave

Durante l’orribile cena parigina la Marinardi mi stava seduta accanto. Servirono dapprima una zuppa liofilizzata con qualche crostino, seguì una wiener schnitzel molliccia con un contorno di spaghetti scotti, sconditi, grossi quanto un ferro da calza, sicuramente gettati nell’acqua fredda. Io non sono schizzinoso, ma quella roba era pressoché immangiabile. La cosa giusta sarebbe stata piantare tutto e andare in giro per cercar miglior fortuna, pure da McDonald’s. Non lo feci perché ero assai stanco, affamato e volevo andare a dormire. Escogitai un espediente. Per coprire la sensazione di incommestibilità, condii gli spaghetti con olio e sale, poi feci piovere pepe nero a volontà su tutto per ingannare le papille gustative.

La strategia non passò inosservata.

«Pvofessove, utilizza sempve così tanto pepe?»

Pensai tra me e me «che mal fec’io?». E mi sforzai di essere cortese.

Così risposi senza pensare:

«No, solamente a Pavigi»

La risposta scema fu efficace. La Marinardi replicò con un semplice

«Aaaaah».

Forse mi prese per scemo. Oppure era scema lei, considerato che si saziò di quella risposta.

La cena terminò con un gelato alla vaniglia. Una Viennetta sarebbe stata di gran lunga migliore.

Non ricordo di aver mai cucinato ricette francesi, con buona pace della mia belligerante collega, né credo che possa essere considerato «piatto francese» una cosa squisita, ma elementare, come il roquefort sbriciolato sulle patate bollenti.

Ho utilizzato, invece, ricette francesi per fare dolci, traendole da un bel libro di un famoso pasticcere di Lyon, Maurice Bernachon, che porta il titolo La passione del cioccolato. Un libro-ricettario che si onora della prefazione del famoso saggista Jean Paul Aron.

I dolci descritti da Bernachon che ho provato a riprodurre sono stati veramente eccellenti.

E’ anche opportuno dire che, lavorando il cioccolato, i risultati ottenuti da un pasticcere non di mestiere sono alterni. Nella pasticceria l’arte si sposa con la scienza, ma la lavorazione del cioccolato è veramente difficile, occorrendo esperienza e strumenti che spesso in casa non si hanno. Non ci si illuda di riprodurre facilmente certi dolci al cioccolato. Se li abbiamo scelti perché  «belli», potremmo subire qualche frustrazione tentando di riprodurli.

Un dolce che mi ha sempre dato grande soddisfazione è una torta che sembra fatta apposta per i melomani.

Si chiama L’Opéra.

E’ una torta a strati: tre dischi di pasta succes, una specie di morbida meringa alle mandorle, intervallati da strati di ganache al caffè e crema al burro aromatizzata con il caffè.

Questa è la ricetta.

Gli ingredienti per la pasta succes:

Sei chiare d’uovo

180 grammi di zucchero semolato

180 grammi di mandorle sgusciate

Una presa di sale fine

Un pizzico di farina

Una noce di burro

Si prenda della carta da forno e si ricavino tre dischi dal diametro di 22 cm. Imburrare e spolverare con la farina per facilitare il distacco dei dischi di pasta.

Si collochino su delle teglie metalliche.

Montare le chiare a neve ferma dopo avervi aggiunto il sale. Si mischino le mandorle macinate con lo zucchero e unire delicatamente alle chiare, mescolando dal basso verso l’alto.

Con un sac à poche, se si vogliono fare le cose come un pasticcere, stendere partendo dal centro l’impasto facendo una spirale. Io, invece, divido l’impasto sui tre dischi e lo livello con una spatola.

I dischi devono essere cotti nel forno a 250° per sette-otto minuti fino a che appariranno leggermente dorati. Devono rimanere morbidi. Guai se si essiccano.

Gli ingredienti per la crema al caffè:

40 gr di burro

Mezzo cucchiaio di caffè molto concentrato

30 cl di latte

Mezzo baccello di vaniglia

Due tuorli d’uovo

75 gr di zucchero

25 gr di farina

Una presa di sale fine

Lavorare i tuorli con lo zucchero e il sale fino a che il composto diventa spumoso e di un bel colore giallo chiaro brillante. Aggiungere la farina a pioggia con un setaccino.

Portare in ebollizione il latte con la stecca di vaniglia ed aggiungerlo bollente ai tuorli lavorati mescolando con un cucchiaio di legno. Mettere sul fuoco continuando a mescolare fino a che la crema sarà cotta.

Si faccia raffreddare la crema e si unisca il burro montato a temperatura ambiente. Aggiungere il caffè mescolando.

Gli ingredienti per la Ganache al caffè:

300 gr di cioccolato fondente al caffè, oppure 300 gr di cioccolato fondente e una bustina di caffè liofilizzato

300 gr di panna liquida

Si faccia bollire la panna per un minuto, togliere dal fuoco e si faccia sciogliere il cioccolato nella panna. Si lasci riposare per mezza giornata.

Ora si può comporre la torta.

Si stacchino delicatamente i dischi di pasta succes.

Il primo disco verrà ricoperto con metà della ganache ammorbidita, mescolandola, a bagnomaria.

Il secondo disco di pasta success verrà ricoperto di crema al burro. Infine, sul  terzo disco di pasta verrà versata la rimanente ganache. Le creme dovranno essere ben livellate.

Per terminare, si deve sciogliere a bagnomaria un etto di cioccolato fondente e con esso ricoprire la cima e il bordo della torta.

E’ finita.

Conviene tenere la torta L’Opéra  in frigorifero per almeno un giorno perché non deve capitare che gli strati, facendo le porzioni, si separino.

Dall’aspetto sembra una Torta Sacher ma, a differenza di questa, L’Opéra non stanca perché non è molto dolce. Direi che abbia un sapore molto virile.

Una delizia per gli amanti del cioccolato senza che sia necessario amare l’opera lirica o…la cucina francese.

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