Il cenone di Natale

Non ho mai partecipato in vita mia a un cenone natalizio. Durante l’infanzia, e anche più in là, mi è sempre apparso usanza di origine prevalentemente centro-meridionale, così come per molti altri bolognesi o emiliani in genere.

Il giorno della vigilia di Natale lo si dedicava alla preparazione della festa. In quanto vigilia, almeno i grandi avrebbero dovuto mangiare meno rispetto agli altri giorni e soprattutto, sia a pranzo che a cena, non si sarebbe dovuto consumare alcun tipo di carne.

Il menù del 24 dicembre prevedeva quasi obbligatoriamente gli spaghetti conditi con il tonno sott’olio. Per me questa questa minestra è una delizia, ora considerata un mangiare veloce per chi non sa cucinare o per studenti fuori sede. Una ricetta di rifugio. Io direi, piuttosto, una ricetta semplice e, proprio perché semplice, deve essere fatta bene.

Si faceva imbiondire la cipolla tagliata finemente nell’olio con uno spicchio d’aglio, quindi si aggiungeva il tonno sbriciolato con qualche filetto di acciuga sott’olio, e ancor dopo la conserva, cioè la passata di pomodoro, possibilmente fatta in casa durante la tarda estate. Se questa mancava, la si sostituiva con il triplo concentrato di marca Mutti, una sapidissima malta quasi color viola in tubetto o in barattolo, buona anche spalmata sul pane. Si versava un poco d’acqua per permettere una cottura del pomodoro non veloce, a fuoco basso, fino a quando il sugo diventava arancione e denso. Questo dava il segnale che il sugo di tonno poteva essere versato sugli spaghetti cotti contemporaneamente. Null’altro, se non un po’ di prezzemolo tritato, ma a piacere. E a me, infatti, in questo caso, il prezzemolo non piace.

Altra prelibatezza era il baccalà. Si doveva necessariamente prenotarlo con un certo anticipo: sarebbe stata un’impresa impossibile trovare il baccalà dissalato fin da qualche giorno prima della vigilia.

Mia mamma lo preparava in maniera semplice, lessato, condito con olio, limone, aglio e prezzemolo. Tanto gustoso quanto semplice era il contorno, le patate bollite con olio e aceto.

Trovavano posto sul desco della vigilia anche i pesciolini birichini, piccole creaturine infarinate, poi fritte poi messe e marinare in una salamoia di olio e aceto. Si acquistavano in salumeria, venduti a peso, avvolti in carta oleata e poi ancora in una ruvida carta gialla per raccogliere le gocce di liquido. A me piacevano assai, nonostante il gusto assai deciso non sempre grato al palato dei bambini.

Si mangiava poc’altro, frutta secca – io ero avido di noccioline tostate – castagne secche, magari cotte in acqua con una foglia di alloro e servite a mo’ di minestra con il loro brodo rossastro.

E come si trascorreva la sera della vigilia? Non si usava fare regali, nemmeno ai bambini. I regali arrivavano solamente alla mattina della Befana.

Durante la vigilia di Natale non si allestiva nemmeno l’albero perché era già al suo posto fin dal giorno dell’Immacolata.

Che si faceva, allora?

Si preparava il pranzo di Natale che, a Bologna, doveva principiare con la regina delle minestre, i tortellini in brodo. Occorreva tempo ed anche fatica per fare un chilogrammo di tortellini! Innanzitutto il ripieno di carne a base di lonza di maiale, prosciutto crudo, mortadella, parmigiano, noce moscata e uovo. La mamma tirava la sfoglia a mano, con il matterello, sul tagliere. Questa era la fase più faticosa. E dopo giungeva la fase della pazienza. Tagliava i quadratini di pasta con una speronella d’ottone che suonava come un campanellino. Ovviamente la sfoglia all’uovo doveva rimanere elastica e umida, ma non troppo, per essere lavorata a forma di ombelico racchiudendo una punta del ricco ripieno di carne.

Venivano disposti in fila, coperti fino al giorno successivo da un burazzo in canapa.

Verso le otto della sera iniziava la preparazione del brodo in cui cuocere i tortellini. Si tuffavano nell’acqua fredda gli odori, cioè carota, sedano, cipolla, una patata e un pomodoro e poi tanta carne di manzo, acquistata secondo i consigli del macellaio, qualche osso, una mezza gallina. Schiumato il futuro brodo più volte con la ramina, il pentolone sonnecchiava sul fuoco della cucina economica fino alla mezzanotte. Ma il prezioso liquido ma non era ancora pronto: occorreva togliere lo strato di grasso in superficie e gli straccetti di sangue misti a frammenti di carne e verdura. La pentola veniva riposta sul davanzale della finestra per cui la mattina di Natale sarebbe stato assai facile eliminare il grasso diventato solido e giallo. Dopo esser stato riscaldato, veniva filtrato attraverso una garza o un colino assai fitto. Guai se qualcosa avesse galleggiato perché non sarebbe stato un bel vedere. Solo così il brodo per i tortellini era pronto.

I lavori della vigilia terminavano approntando le carni da arrostire al forno. Si cospargeva il coniglio, il pollo e la faraona con un trito fine d’aglio, rosmarino, alloro e salvia a cui si aggiungeva una bella presa di sale grosso. Con uno spago sottile, gli animali venivano legati, deposti nelle teglie, le ruole. Unti di olio, si insaporivano durante notte.

Non si mangiavano dolci per Natale? Certamente, ma non si potevano preparare durante la sera della Vigilia. C’era troppo da fare, e poi i dolci tradizionali di queste parti possono o devono essere fatti tempo prima.

Il Certosino, dolce natalizio bolognese per eccellenza, doveva essere  preparato non meno di un mese prima. Dolce antico, austero e sontuoso. Bello a vedersi.

L’impasto – farina, pinoli, mandorle, miele, cedro candito, zucchero, cioccolato fondente, vino rosso aromatizzato spezie e buccia d’agrumi grattugiata – doveva riposare al fresco almeno per una settimana. Poi si facevano tante ciambelle con il buco in mezzo. Ogni certosino veniva ricoperto con un ricco mosaico di frutta candita tagliata a pezzi grandi e una generosa mano di mandorle intere pralinate. E quindi andavano in forno.

Una volta raffreddati, i certosini venivano lucidati con il miele diluito con qualche cucchiaiata di acqua e poi avvolti con carta oleata fino al giorno di Natale.

Io vado pazzo per il certosino.

Altro dolce ricorrente sulla mensa di Natale era la Pinza, una pasta frolla tenace distesa sul tagliere con il matterello, poi cosparsa generosamente con un composto di mostarda bolognese – una marmellata compatta che non bolle durante la cottura, nera, composta da pere, mele, mele  e pere cotogne, scorze di limone e arance – uva passa ammollata nel vino o nel vermut con le spezie, cioccolato fondente, pinoli e cubetti di cedro candito. Si avvolgeva il tutto su se stesso, dando alla pinza una forma ellittica assai allungata, un tozzo dirigibile. Una volta cotte, le pinze dovevano riposare per qualche giorno, per essere tagliate a larghe fette trasversali.

La pinza è uno dei miei dolci preferiti.

Si poteva cucinare anche la torta di tagliatelle. Un sottile strato di pasta frolla rivestiva lo stampo da forno rotondo, si versava una golosa poltiglia ben tritata di cedro candito, mandorle, amaretti, zucchero, cioccolato fondente e burro. Delle taglioline all’uovo sottili sottili spolverate con zucchero e mandorle ricopriva tutto quel ben di dio. Tolta dal forno la torta doveva essere spruzzata con il liquore Strega. Insomma, un capolavoro.

E poi si poteva fare la crostata con la mostarda bolognese, la ciambella tenera, magari marmorizzata, la ciambella dura, il fiordilatte…Dolci casalinghi, certezza di bontà.

Dopo i preparativi della vigilia chi voleva si recava alla Messa di Mezzanotte. Chi non riusciva a tenere gli occhi aperti si avviava a dormire nel letto riscaldato con il prete elettrico o con le braci.

Una volta le stanze da letto erano sempre al freddo perché, la notte, le stufe dovevano stare spente.

Una volta? Pardon, volevo dire «quand’ero bambino».

Buon Natale.

Un altro amore per Turandot

La singolarità del negozio ”Dischi Salizzoni“ consisteva nell’avere due entrate opposte, essendo situato dove il Sottopassaggio si sdoppiava in percorsi paralleli. Per il resto era anonimo e poco attraente come tutti i negozi sotterranei.

Vendeva prevalentemente musica  leggera e rock ad una clientela di passaggio, senza troppe pretese. I cultori della musica classica non avrebbero mai trovato  opere rare o  edizioni succulente, quelle che facevano bella mostra alla Casa del disco o da Bongiovanni, negozio sormontato perfino dalle insegne del Toson d’oro e i blasoni dei reali spagnoli, al posto dell’Osteria dei Tre Re. Glorianna, la proprietaria, sopperiva allo scarso assortimento ordinando i dischi classici sistematicamente mancanti, che giungevano però senza fretta. Ai pochi giovani in cerca di musica classica, la negoziante faceva dei consistenti sconti perchè coltivassero più assiduamente la propria passione.

Piccolina e minuta, la Glorianna aveva degli occhi malinconici alla Edith Piaf. Esprimevano mitezza. Il suo animo, in effetti, si manifestava gentile e paziente con tutti, perfino con una mia compagna di classe, la Corinna Strocchi, in grado di fare perdere la pazienza anche a un santo. Io pensavo che la signora Salizzoni fosse tormentata dalla mia amica. Una vittima, insomma.

Sempre sorvegliata nello spendere il denaro e contando sugli extrasconti per gli studenti, la Corinna acquistava esclusivamente le opere nel sottopassaggio, ma ad ogni cavata di papa e, per questo, ogni compera diventava un avvenimento che subivamo tutti. I dischi dovevano essere assolutamente perfetti. Ma la perfezione non sembrava mai lambire i dischi venduti dalla signora Salizzoni alla Corinna: questa infatti, ogni volta lamentava che le opere producevano fruscii, crepitii, dei pic e dei pac. I rumori comparivano ovviamente a casa della Corinna, e scomparivano allorché la signora Glorianna ascoltava con il proprio giradischi per controllare i difetti. Era il fruscìo fantasma.

La Corinna scaricava, allora, la colpa sull’apparecchio della negoziante:

«Eeeeeh, ma lei c’ha un pick-up troppo pesante. Per forza che non sente i rumori!»

E la Salizzoni di rimando:

«Forse avrà lei una puntina vecchia. Da quanto tempo è che non la cambia? E pulisce i dischi con un panno elettrostatico?»

Con questa manfrina dei fruscii, la Corinna riuscì a farsi cambiare la Carmen diretta da von Karajan per ben tre volte senza essere mandata a ramengo.

La negoziante sudò freddo, rassegnandosi al peggio, allorchè la Corinna fu posseduta dalla passione wagneriana: con L’anello del Nibelungo la perfezione si sarebbe dovuta estendere a ben diciannove dischi! La venditrice esperta affidò la propria sorte alla nota qualità della gialla Deutsche Grammophon.

In una città di sinistra, a quei tempi ancora molto ideologizzata, la signora Glorianna si professava anticomunista. Aveva civile riserbo nell’esprimere le proprie idee controcorrente, essendo temprate dall’opportunismo del commerciante.

Capitava che facesse qualche battuta sulla giunta cittadina, ostaggio dei compagni: vedeva ovunque informatori mandati dal Palazzo Comunale e proprio tra i pensionati incontinenti del sottopassaggio, stanziati a pochi metri dalle latrine pubbliche, si annidavano le spie del signor sindaco.

La signora Glorianna mi prese a benvolere come una zia, dopotutto parevo un nipote perfetto per tutti i tipi di zie, con quella faccia da bravo ragazzo studioso che mi trovavo, sempre vestito in maniera elegante, e con la passione per la musica classica.

Nonostante che il mio cuore battesse politicamente a sinistra, non essendo un indiano metropolitano, né sostenevo gli espropri proletari con sampietrini per svuotare i negozi, la signora Glorianna aveva una considerazione molto indulgente sulle mie idee, pensando che fossi solo influenzato da professori filocomunisti.

Una volta le uscì dalla bocca qualche parola in più:

«Scommetto che lei ha un professore comunista…», disse ammiccando

«Credo di sì. Quello di filosofia penso che sia comunista. Iscritto al PCI», risposi.

«Vede? Ho ragione io allora!» e continuò:

«Passerà, passerà…Certe idee passeranno come passano morbillo e varicella quando i bambini vanno all’asilo o alle elementari. Al liceo, invece, gli adolescenti sono contagiati dalla propaganda dei professori di sinistra»

«Il suo è l’entusiasmo giovanile dello studente che legge tante cose…quando sarà più grande, e penserà con la propria testa, cambierà idea. Vedrà, vedrà!»

Giocai allora una briscoletta nascosta:

«Ah! Dimenticavo… Abbiamo un altro professore comunista… quello di religione»

La Glorianna sgranò gli occhi. E continuai:

«Deve essere addirittura un extraparlamentare. Viene a scuola con eskimo, chitarra e saccoccia».

«Quanti anni ha?», chiese lei.

«Non so. E’ giovane, si è laureato da poco in lettere. Tutte le ragazze sono innamorate di lui, dicono che è anche bello»

«E cosa ci fa con la chitarra?»

«Fa cantare pezzi religiosi arrangiati come nella messa beat, e poi Guccini, De Andrè, Dylan. Cantano soprattutto le femmine, anche la Corinna»

«E quando non cantate?»

«Ci parla di Dio, di Gesù, di Marx, di capitalismo, sfruttamento, lavoro, terzo mondo, mai di partiti politici»

E allora la Glorianna:

«Mo’ sorbole!  Sta a vedere…che dietro a questo professore prenderei una barca anch’io. La prossima volta che passa, farò il terzo grado a Corinna…», chiudendo la questione dei comunisti con divertita furbizia.

Se nei bar è possibile incontrare degli avventori che per ore stanno a far chiacchiere o guardare la gente senza bere nemmeno un caffè o un crodino, così la signora Glorianna ospitava alcune persone, sempre le stesse, con diversi gradi di stranezze, dei perditempo che non compravano mai nulla, nemmeno un quarantacinque giri di Gianni Morandi.

Tra queste c’era senz’altro la Corinna che, considerando la giovane età, dimostrava grande talento naturale per le stranezze. Ma almeno lei qualche disco, seppur saltuariamente, lo acquistava.

Conobbi uno strano – o meglio, imparai a riconoscerlo più che a conoscerlo – signore benestante sulla sessantina. Entrava dalla Glorianna, si appoggiava ad una scansia e lì rimaneva con lo sguardo fisso. Una statua grezzamente intagliata nel legno con gli occhi uguali ai bottoni del paltò. Si chiamava Amedeo Masetti, così disse la Glorianna. Un uomo assai laconico, trisillabico. Poiché nessuno ci presentò, i nostri discorsi andavano a mala pena oltre i saluti, esaurendo in fretta la sua disponibilità quotidiana di sillabe. Per questa educata maleducazione mi sentivo spesso imbarazzato e, allora, per mettere in pace la coscienza, pronunciavo un impersonale Salve rivolto a tutti e a nessuno. La grande stranezza di Amedeo Masetti era che collezionava esclusivamente i dischi del Rigoletto. Nient’altro. E’ facile immaginare che la sua raccolta si fosse completata in breve tempo.

La signora Glorianna alzava gli occhi al cielo quando, ogni giorno, entrava un appiccicoso pugliese conosciuto solo per nome, Pino. Raccontò una sola cosa della sua vita privata: possedeva un disco della Traviata con Maria Malibran! Un solo racconto e, per giunta, una balla. Scelse male il soprano. Maria Felicia Malibran, infatti, se ne andò poco prima che Verdi iniziasse a comporre opere, quasi vent’anni prima della Traviata e assai prima dell’invenzione del grammofono.

L’uomo aveva sempre al seguito un figlio nullafacente, mellifluo quanto lui, sui diciotto anni. Non sembrava un fulmine di intelligenza, forse renitente alla scuola, e forse era venuto al mondo per partenogenesi dal momento che né l’uno né l’altro parlava mai della rispettiva moglie o madre.

Anche la professione del pugliese era avvolta dal mistero. Decidemmo con la Glorianna che fosse cameriere di ristorante, indossando sempre pantaloni e mocassini neri con una camicia bianca.

Pino si manifestò furbo e intrigante con un piano preciso a favore del figlio. Tessette una tela tra cui la signora Glorianna rimase intrappolata.

Il negozio Salizzoni era condotto normalmente dalla proprietaria e, all’occorrenza, arrivava il rinforzo della sorella. Con il passare dei mesi, Pino e il figlio, senza che la Glorianna avesse mai chiesto nulla, iniziarono a servire la clientela come veri commessi. La mite negoziante non ebbe mai il coraggio di dire nulla. Per qualche tempo mancai di passare nel negozio del sottopassaggio e mi sorpresi assai vedendo che la signora Glorianna aveva assunto stabilmente il figlio di Pino come commesso. Pensavo che le fossero antipatici come a me. Forse mi sbagliai. Così preferii non approfondire.

Diedi il nomignolo di Teschietto ad un tizio senza nome con cui facevo conversazione. Il suo volto, ovviamente, era smunto, scavato e molto segnato, con gli occhi fuori dalle orbite e una sfavillante dentiera prominente che spuntava dalle labbra violacee. Il colore della pelle ricordava quello dell’epatite virale acuta. Parlava generalmente, con una voce che proveniva dal sottoscala,  di cantanti scomparsi. Tra tutti prediligeva Apollo Granforte, la cui valentìa vocale, secondo Teschietto, era commisurata e dovuta, non solo metaforicamente, alle gonadi del cantante particolarmente sviluppate. Vox populi, vox Dei.

Passava dal negozio un soprano del Teatro Comunale ormai prossimo alla pensione, anche due volte al giorno, a seconda delle prove. Si chiamava Clelia Vannini. Aveva il fisico da boiler dell’arzadoura bolognese, essendo alta sul metro e cinquanta con un seno prosperoso su un fisico senza fianchi. La piccola testa ovale era sormontata da dei capelli appena ingrigiti, acconciati con una crocchia tenuta insieme da pettini. I grandi occhi spiovevano a lato e il naso aquilino anelava congiungersi con le labbra che atteggiava con un’espressione severa o schifata. Viveva con la mamma non troppo lontano da casa mia. Diceva di essere un soprano drammatico e d’avere come cavallo di battaglia nientemeno che In questa reggia dalla Turandot di Puccini e l’aria d’entrata della Lady Macbeth di Verdi.

Aveva un carattere esuberante e gioviale. Simpatica. Bastava darle un po’ di corda e conversava su tutto, con chiunque.

La signora Vannini raccontò senza troppe pruderie un episodio che altre donne avrebbero tenuto nascosto.

Mi fece:

«Non ho mai voluto tanti uomini attaccati alla stanella. Sa?».

La cosa non mi stupì. Pensai che nemmeno quand’era giovane potesse vantare una particolare bellezza.

Cantò a mezza voce, a proposito del suo essere zitella,

«Nessun m’avrà», dalla romanza in cui eccelleva.

Spiegò che prese la decisione di tagliare i ponti con gli uomini dopo essersi innamorata di un cantante lirico, omosessuale noto a tutti, tranne che a lei. La storia della principessa di gelo scongelata non ebbe un lieto finale e, quindi, la piccola Turandot si rinchiuse in una ghiacciaia sentimentale  da cui mai più uscì. Così almeno disse l’interessata.

«Pericle Livraghi…L’avrà senz’altro sentito cantare al Comunale».

«Stia bene attento, perché quello cerca i ragazzi come lei».

Livraghi e la Azzaroni si conobbero da un maestro di canto e, dopo qualche tempo, presero a vedersi anche fuori dall’ambito lirico.

Non rimanevano mai soli perché Livraghi sempre portava con sé un terzo incomodo, un professore di lettere.

«Gentile, una cara persona, molto colto…ma sempre tra i piedi. Pericle mi invitava fuori all’opera, al cinema, alla prosa. Ad ogni appuntamento si presentava con questo. Alla fine diventai, per forza, amica anche con lui».

Andavano in giro a far gite tutti e tre insieme allegramente. Arrivarono perfino a Parigi.

«Che bel viaggio e che nostalgia per quei tempi spensierati, che risate! E poi eravamo giovani…»

A Versailles il professore si storse un piede e dovette sedersi.

«Non può immaginare la scenata di Pericle al professore perché non riusciva a reggersi in piedi! Voleva vedere il Trianon a tutti costi. Si mise a fare i capricci. Battè i piedi per terra. Così andammo a visitarlo io e lui…mano nella mano»

«E poi?» chiesi divertito.

«Trovammo un angolino con poca luce e…mi diede un bacino sulla guancia. Ma non pensi che…non andammo oltre. La cosa finì lì, insomma»

Mi prese da una parte e sussurrò coprendosi la bocca:

«Era un busone»

«Ma ha capito chi è?»

Intervenì, allora, la signora Glorianna:

«Clelia, ma che cosa sta raccontando, che dice? E poi la smetta di annoiare questo povero ragazzo con la solita gnola»

La signora Vannini continuò invece sottovoce.

«Mi prese in giro, io ero la sua copertura».

Chiesi:

«Come fece a capire che…»

«Aaah, se fosse stato per me non l’avrei mai capito. Quant’ero ingenua, una gnocca…però quanto ci divertivamo! Come stavamo bene! Un bel giorno mia mamma trovò nella buchetta una lettera anonima a lei indirizzata. La frase più gentile fu: Tua flglia fa pena quando regge il moccolo a quei due busoni. Capisce anche lei che dovetti allontanarmi, mia madre si sentiva lo zimbello della gente. Dei vigliacchi. Invidiavano la mia felicità».

E sospirò.

«Dopo questo episodio, ho dato un taglio agli uomini», facendo un eloquente gesto con le mani.

«Pericle era un bell’omarino, gli piaceva vestire elegantemente. Si atteggiava a fare l’artista, l’esteta con la testa tra le nuvole…»

E aggiunse con tono pieno d’orgoglio «Sa che ebbe anche una relazione con Danny Kaye?», come se la relazione con Kaye l’avesse avuta lei o se fosse una referenza di particolare rilievo.

Ed io:

«L’attore di Hollywood? E come fece a conoscerlo?»

Poi chiesi stupito:

«Livraghi ha cantato in America?»

«No, niente America. Lo conobbe in via D’Azeglio, Pericle cantava a Palazzo Rusconi per una sfilata di moda. C’era a quel tempo, in quel palazzo, la famosa sartoria di Maria Venturi…abiti da sera bellissimi. Fu invitato a cantare delle romanze da salotto mentre passavano le mannequin… Musica Proibita, Ideale, Sogno. La sartoria aveva invitato non so quale marchesa e questa si presentò raggiante al braccio di Danny Kaye, che passava per Bologna»

E chiesi:

«Andò anche lei alla sfilata?»

«Macché, chi c’aveva i soldi per un abito elegante da stare in mezzo alla crème della società? C’erano le prime signore di Bologna! Così durante il rinfresco scoccò la scintilla tra i due».

«Il professore fece una tragedia greca. Un litigio che tremavano i muri»

«E come finì?», feci io incuriosito.

«Pericle disse che sarebbe andato fino in fondo, che avrebbe seguito il proprio destino e il proprio amore. Il professore  rispose che, se avesse continuato nel suo intento, si sarebbe buttato al piano di sotto. L’altro iniziò a ridere in maniera beffarda alla Paola Borboni. Il professore, allora, aprì la porta prese la ricorsa…e si fermò sul pavimento del pian terreno. Quattro costole incrinate, la spalla lussata e un femore rotto…»

Non riuscii a trattenere il riso.

«Se avesse aspettato una settimana non sarebbe finito al Rizzoli perché Danny Kaye prese l’aereo…senza nemmeno dire addio a Pericle dal finestrino». Il soprano del Comunale sembrò avere finito.

La signora Glorianna intercettò il mio sguardo facendosi il segno della croce.

Fui io, invece, a continuare il discorso.

«Il professore di chimica si chiamava forse Apolli?»

La signora Clelia sembrò vivificata da una scossa elettrica:

«Sì. Rolando Apolli…Lo conosce? E mi fa sgolare per un’ora?»

«Ma come fa a conoscerlo?»

«Non mi dica che pure lei…», aggiunse ridendo.

Risposi ridendo:

«Guardi che non gliel’ho mica chiesto io di raccontarmi ‘sta storia. Il professor Apolli insegnava nel mio Liceo. La Corinna è perfino andata a casa sua per delle ripetizioni di latino».

Nominata la Corinna, Turandot si calmò e fece un’espressione delusa. Sperava in  qualche cosa di sostanzioso, di qualche maldicenza piccante.

«Il professore organizzò un gruppo di studio sull’Otello. Fu lì che io e la Corinna lo conoscemmo. Non insegnava nella nostra classe. Apolli raccontò alla mia amica, andando a lezione, che conosceva tanti cantanti, in modo particolare Pericle Livraghi, un suo amico intimo»

Riprese sottovoce ma con grande concitazione:

«Macché amico intimo! Erano finocchi, se lo davano nel c…»

A quel punto la signora Glorianna, avendo sentito tutto, sbottò:

«Basta Clelia, la smetta di pronunciare queste parole! Pensa forse di vendicarsi facendo questi racconti? E’ passata tant’acqua sotto i ponti».

La Vannini sarebbe andata avanti ancora chissà per quanto.

Tagliai corto e dissi, salutando entrambe:

«Il suo racconto, signora Clelia, ha fatto quadrare un cerchio che mi portavo dai tempi del liceo».

Tornai a casa convinto che la signora Vannini avesse veramente amato Pericle Livraghi.

E l’impossibile amore della piccola Turandot era  in ghiacciaia, con lei.  Mai  svanito.

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