Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte tredicesima

Bruna si recava ogni settimana al sanatorio Pizzardi per visitare la madre; il venerdì partiva dalla stazione ferroviaria di Vergato con il primo treno della giornata fino a Bologna, poi correva per prendere la corriera che la conduceva nei pressi del sanatorio. Raccontava a Caterina le cose accadute; la madre a sua volta dava disposizioni su tutto, elargiva predicozzi e sermoni, le faceva mangiare una parte del suo pranzo poiché non era infettiva, tanto le porzioni del sanatorio erano abbondanti. E dopo seguiva il viaggio di ritorno, in tempo per preparare la cena.
A un banco di stoffe al Mercato della Piazzola, Bruna trovò un giorno quel che faceva al caso suo, una bella pezza di stoffa dal colore del cielo sull’imbrunire. Se la fece mostrare, era di rayon ma pareva seta lucida e cangiante, sufficiente per cucire un abito intero con la gonna a ruota sotto il ginocchio come quelli delle attrici. Non costava molto così Bruna comprò anche la stoffa per il sottogonna e la fodera. La mattina successiva corse con le stoffe dalla zia Teresa, nel negozio della sarta presso cui lavorava, dove anche Bruna faceva qualche ora. Cercarono fra diversi cartamodelli e idearono quello che Bruna aveva in mente: un abito come le dive cinematografiche da spianare al ballo, per la festa del paese, all’Albergo del Montone, il giorno della Domenica in Albis. Bruna voleva essere la più bella e prendersi una rivincita sul passato.
Qualche settimana dopo portò con sé l’abito ancora da rifinire in una valigia per mostrarlo a Caterina. Lo indossò nei bagni del sanatorio davanti alla madre e ad altre donne in cura, sfilando come una mannequin delle Sorelle Fontana o di Maria Venturi quando proiettavano La Settimana Incom.
«Così mi sembri una principessa. Ci vorrebbe una collana…mettiti le mie ingranate… e anche i miei orecchini.» Caterina la sosteneva poiché la figlia si avvicinava ai vent’anni e il matrimonio era un traguardo che nemmeno si intravvedeva. Si commosse pensando al passato, alla miseria, alla sfortuna che non la abbandonava e all’impossibilità di dare un buon futuro ai figli. E pensò a quella zingara che, davanti a casa, le mise una mano sulla schiena, non avendo voluto allungare delle monete, e dopo i polmoni si ammalarono.
Caterina la strinse fortemente tra le braccia commuovendosi e, pian piano, attraversando i ballatoi del sanatorio all’aria aperta, l’accompagnò all’uscita.
Tornando dall’ospedale Bruna si fermò davanti ad un negozio di calzature che esponeva delle scarpette rosse con la punta aperta. Il prezzo le fece accelerare il cuore perché era più dei risparmi nel borsellino. Ma che importava? Gli occhi esprimevano il desiderio di averle: erano perfette per l’abito. Ottenne uno sconto e così se le portò con sé a Vergato.
Finalmente arrivò la Domenica in Albis. Alle otto in punto della sera, Bruna, Maria e il padre entrarono nella sala dell’Albergo Montone. Aristide indossava l’abito buono scuro, di stoffa pesante, una camicia bianca con il solino chiuso, la catena della cipolla d’acciaio che penzolava come un piccolo festone tra i bottoni e la piccola tasca del gilet. Si alzava, cavandosi il cappello in feltro con un gesto ampio, per salutare, aggiungendo un piccolo inchino. Pure Maria era nel suo abito delle grandi occasioni, bianco a pois blu con la gonna plissettata e con gli orecchini della nonna Margherita.
Si sedettero in prima fila attorno a un tavolino non distante dall’orchestra. Un organetto bolognese, un clarinetto, una chitarra e un contrabbasso aprirono con un valzer veloce alla filuzzi dalla melodia banale. La pista in pochi minuti, una coppia dopo l’altra, si riempì di vita.
I balli erano iniziati eppure Bruna stava seduta con il cappotto addosso dando le spalle alla pista, quasi non volesse esser vista dalla gente. Sentiva una grande agitazione: troppi sogni ad occhi aperti prima della festa, ora temeva la gente, gli sguardi invidiosi, le male parole. Le gambe pesavano come il piombo sentiva che non sarebbe mai riuscita a mettere un piede dopo l’altro sul ritmo della musica.
Un momento di pausa, le coppie rimasero ferme, e quindi l’orchestra attaccò un secondo valzer. Aristide alzandosi dalla sedia si tolse allora il cappello, si inchinò davanti ad Bruna e la condusse per mano in mezzo alla sala. Accennando un inchino di galanteria con il capo, diventò il suo primo cavaliere.
Eeeee ùun-duè-tre, ùun-duè-tre,ùun-duè-tre…Padre e figlia iniziarono a ruotare nel valzer. Finalmente la gente poté vedere la radiosa bellezza della ragazza.
Il vestito le stava da dio. La zia Teresa guardava in mezzo alla gente:
«Bruna sei bella…Se-i bel-la!», scandì portando le mani alla bocca a mo’ di megafono per farsi sentire bene.
«Aristide hai fatto proprio una bella figlia!», urlò un uomo e gli altri applaudirono.
Le piroette al ritmo della musica schiudevano le pieghe della gonna come un fiordaliso sotto il sole del mattino, l’aderente corpetto smanicato terminava in basso con punta, spiccavano cinque bottoni di madreperla bianchi e si chiudeva sotto il collo con un fiocchetto annodato che formava un sottile spiraglio da cui si intravvedeva il décolleté. Il blu cangiante dell’abito faceva contrasto con il vivace cremisi delle scarpe e della borsetta in raso tenuta al polso destro. Bruna era ora un’attrice del cinema come aveva sognato, solo le ingranate sbrilluccicanti di Caterina, i gioielli dei poveri, ne tradivano le origini montanare.
Al termine della musica, ben quattro cavalieri l’aspettavano per una polka; Bruna essendosi rinfrancata nell’animo, disse loro, con sorridente civetteria, che con pazienza avrebbe danzato con tutti e stabilì il turno.
Aristide si tolse di mezzo e, ritornato al tavolino, prese per mano Maria, non ancora invitata da alcun cavaliere, mostrando quanto gli altri uomini avrebbero dovuto fare con le donne sedute.
Bruna, terminati i cavalieri, pensò di riposarsi per il tempo di un ballo.
Sentì una voce da dietro:
«Ci conosciamo ancora?»

(Continua)

Il Tempo e le Anime (A mio padre e mia madre) – Parte dodicesima

Gli accadimenti sfavorevoli, la malattia nervosa del padre, il ricovero della madre e la morte di Giuseppe, il ragazzo di cui s’era innamorata, avevano cambiato Bruna. Avvertiva che quella vita com’era diventata non le apparteneva. E  non aveva neppure diciannove anni. Voleva ritornare alla sua leggerezza, quella di quando, scesa dal treno, al ritorno dalla fabbrica, Caterina avvertiva provenire dalla stazione, che distava duecento metri, il vociare e le spensierate risate di Bruna, luminose, squillanti, che volavano per l’aria, diventando il segnale che era giunto il momento di mettere sul fuoco l’acqua per la cottura della pasta.
Pur continuamente circondata da un nuvolo di filarini, ed era la più bella del paese, non aveva alcun moroso. Caterina, immaginando le malignità paesane, le faceva delle interminabili paternali, che Bruna non ascoltava: lei era libera dai giudizi della gente e si ribellava a ogni limitazione. Di fronte alle chiacchiere, tirava dritto per la propria strada perché riteneva di non fare alcunché di male. Una sera d’estate, dietro a una persiana, Bruna restò a spiare un codazzo di otto spasimanti a cui aveva dato appuntamento alla stessa ora, con la complicità della sorella Maria e della cugina Paola, davanti al passaggio che conduceva in fiume. Più male parole e urla giungevano dalla strada, quegli otto stettero per mettersi le mani addosso, e più Bruna rideva di loro insieme alle due che le avevano tenuto bordone. Svanirono, in questo modo, un ben di dio di pretendenti che ogni altra madre avrebbe desiderato per la figlia da accasare. Scuotendo il capo, Caterina le diceva:
«Così non ti sposerai mai… Li farai scappare tutti. Sei troppo selvatica.» Terminava con una premonizione puntando l’indice:
«Ma avverrà, prima o poi, che qualcuno ti domerà!»
I polmoni di Caterina si ammalarono e sua dimora diventò il sanatorio Pizzardi sulla bella collina ventosa tra Bologna e San Lazzaro di Savena: la miseria sulla montagna, gli stenti durante guerra e le ristrettezze prolungate dopo di essa, indebolirono la donna nonostante che fosse una robusta quercia montanara. Prima di partire Bruna ebbe le consegne dalla madre per la conduzione della casa, da eseguire con precisione.
La ragazza prese a viaggiare da sola per recarsi a visitare la madre, così si rese conto della distanza tra la sua vita in un paese di montagna e quella delle eleganti vie nel centro della città. A Bruna sarebbe piaciuto vestire sempre bene, seguendo la moda ma l’abitare tra le montagne e l’avere poco denaro deprimevano ogni possibilità di non apparire come una che veniva giù con la piena, come dicevano i cittadini.
La ragazza non si perdeva d’animo. Si recava da una vicina di casa, la Gelsomina, che aveva un negozio di indumenti usati, la Strazzamérica. Bruna metteva sottosopra gli scatoloni, si provava gli abiti specchiandosi davanti al vetro dell’entrata, immaginando le cuciture necessarie, riprese, orli, asole, perché diventassero come quelli indossati dalle ragazze di Bolero Film o di Sogno. Correva quindi dalla zia sarta per aggiustarli. E Bruna aveva gusto nell’abbinare i colori, nello scegliere le fogge; indossava quella roba da poche lire con portamento signorile, ritta come un fuso, e con il passo franco di una modella.
Un sabato sera Bruna si recò al cinema. Al termine dello spettacolo, alzandosi per andare verso l’uscita con la cugina Paola e la sorella, Bruna attirò l’attenzione di alcuni uomini vicino a loro, che dissero a voce alta:
«C’è la Ferrero!»
«Guardate la Bruna, la figlia di Aristide! »
«Sì, sembra proprio Anna Maria Ferrero!»
E allora la cugina:
«Parlano di te, sai?»
«Ma va là», facendo spallucce.
Una donna si avvicinò e la prese per il braccio:
«Ma come sei bella oggi! Sai che oggi assomigli a un’attrice?»
Arrivata a casa, vide allo specchio che quella gente aveva detto il giusto.
Sulla scia di questa somiglianza cinematografica, Bruna decise di farsi fotografare in pose da attrice. Terminati i lavori di casa, si rassettava, si ravviava i capelli, dipingeva le gote e le belle labbra turgide. Con un fazzoletto di seta per coprire gli abiti casalinghi, correva dal ritrattista del paese per giocare davanti all’obiettivo del fotografo.
A Bruna, in quei momenti, pareva d’udire il fruscio di un bell’abito da sera, la stola di visone sulle spalle e il contatto sulla pelle di una parure preziosa. E sognava di tenere tra le braccia un mazzo di rose rosse profumate con Arpège che lanciava a folle di ammiratori adoranti. Voleva scrollarsi di dosso la miseria.

(Continua)

You cannot copy content of this page