Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte sesta

Lo spazio interiore creato dal Professore in Riccardo era in contrasto diretto con la religione cattolica. Pur dissimulando per necessità chi effettivamente era, Riccardo non rilevava alcun conflitto tra l’essere mago che persegue solo il bene e i precetti religiosi, verso la religione cattolica ebbe sempre un atteggiamento di profondo rispetto. Non era praticante, come tanti a Bologna; della Messa avvertiva il misticismo dell’Elevazione, cioè quando il sacerdote, dopo aver recitato le formule di consacrazione del pane e del vino, innalza al di sopra di sé con entrambe le mani rispettivamente il Corpo di Cristo e il calice col Sangue di Cristo, ritenendo che quegli istanti fossero l’incontro tra Cielo e Terra, il disvelamento del Divino nelle cose del mondo; così come era attratto da santi teurghi come San Pio da Petrelcina a cui era devoto, all’epoca ancora semplicemente Padre Pio, come emanazione di un Essere Supremo.

A molti credenti cattolici non appare innaturale rivolgersi a cartomanti, astrologi, esorcisti, per sé o per altri allorché si incorra in fasi dell’esistenza dominate dalla mala sorte, da malattie, da amori declinanti o impossibili, da magre finanze, così Alda, sinceramente religiosa, accettò l’occupazione inconsueta di Riccardo senza conoscerne la sua profonda identità poiché con lei non la manifestò mai e sapeva che tutto era fatto per il bene altrui; quando Riccardo ottenne buona notorietà, anche al di fuori di Bologna, svolse la propria Opera lontano dai occhi della moglie.

E prima della Seconda Guerra Mondiale avvenne che Riccardo accompagnasse la moglie Alda in un pellegrinaggio a Pietrelcina per accostarsi al sacramento della confessione proprio con Padre Pio. Confidò in una indulgente comprensione da parte del religioso avendo confessato la parziale verità che gli pareva potesse essere accettata anche dall’autorevole religioso. Seguì invece una mala reazione del ruvido Cappuccino: cacciò Riccardo dalla chiesa, negandogli non solo l’assoluzione e, poiché non manifestò né pentimento per le azioni passate né intenzione di ravvedersi con l’immediato abbandono delle pratiche confessate, ritenute stregonerie, incorse ipso facto nella scomunica latae sententiae, cioè conseguente in maniera diretta dal fatto che si commette uno specifico delitto contro la religione o il diritto canonico. Questo comportò grande dolore oltre a Riccardo, nonostante fosse uomo orgoglioso e consapevole del proprio valore, ma soprattutto alla moglie Alda che si industriò affinché fosse riammesso nell’ambito della comunità cattolica. Ne seguì un viaggio a Roma per una seconda confessione in San Pietro con un sacerdote tedesco, più accondiscendente, al fine di ottenere la remissione della scomunica. Compiuta la confessione seguì un solenne rito che culminò nel momento in cui Riccardo, penitente, si inginocchiò recitando, a capo chino di fronte un crocifisso, l’Atto di dolore mentre il sacerdote simbolicamente gli percosse le spalle e la testa con una lunga pertica a cui seguì l’imposizione delle mani.

Il babbo aveva, invero, amici tra religiosi di mente non soverchiata dall’integralismo dogmatico. Ricordo le cordiali conversazioni a tavola con il sacerdote della parrocchia, e ancor di più, l’inveterata amicizia con un altro noto cappuccino: questi gli donò perfino due stole da lui benedette perché le utilizzasse nel soccorrere persone malate, sfiduciate, afflitte dalle avversità; evidentemente questi non riteneva che in questo ci fosse un’offesa a Dio o ai dogmi cristiani. L’affetto del padre cappuccino proseguì anche dopo la morte del babbo con visite alla mamma e a me. Conservo queste stole, ora assai sdrucite per l’uso e il tempo.

(Continua)

 

Il Tempo e le Anime (A mio padre e a mia madre) – Parte seconda

Alfredo non aveva denaro; nessuno, nemmeno il figlio, dimostrava interesse per lui, solo mio babbo. Abitava nel mio stesso palazzo in un tugurio, un basso ripostiglio, un’intercapedine tra due piani, a cui si accedeva per traverso da due gradini, dove era costretto, lui abbastanza alto, a camminare curvo; senza controsoffitto, senza luce elettrica, di giorno la luce veniva da una piccola finestra rettangolare e quando imbruniva da una candela stearica in una bugia metallica smaltata; i mobili erano un tavolo, una sedia impagliata, una branda, un piccolo armadio e una stufetta elettrica. Non aveva cucina né servizi igienici: si cuoceva il pasto in casa nostra (acquistava essenziali spartani alimenti a poco prezzo e senza marca, pasta, tonno, conserva di pomodoro, olio, fagioli presso una cooperativa di consumatori, progenitrice di un attuale colosso che da tempo ha perso di vista gli scopi delle origini di mutualità) così come veniva a svuotare il pitale ed espletare gli altri bisogni corporali; per la cura del corpo si recava in un bagno diurno in via dell’Indipendenza, di cui è rimasta memoria solo nel pavimento dinanzi all’entrata, accanto al cinema Metropolitan che, anch’esso, non esiste più. Amava tanto i libri, presi in prestito dalla biblioteca popolare vicino a casa nostra, leggendo appoggiato al tavolino sotto la finestra oppure a lume di candela.

Una permanente foschia di sigaretta, cupa atmosfera densa da sembrare di un altro pianeta, rendeva difficoltosa entrando la respirazione e faceva lacrimare gli occhi. E le inseparabili sigarette, sesto dito della mano destra, furono il comune filo di destino che legò il babbo ad Alfredo: giorno dopo giorno l’acre fumo bluastro li condusse, a una settimana di distanza, alla morte, il primo per infarto cardiaco, l’altro per complicazioni dell’enfisema polmonare.

Sia Riccardo che Alfredo furono determinanti nella nascita della mia passione per la musica, in particolare modo per l’opera lirica, raccontandomi le trame, descrivendomi le scene, comprandomi i dischi seguendo ognuno i propri gusti musicali: mio babbo prediligeva il melodramma romantico, per cui mi regalò La traviata, Rigoletto, Il trovatore, Norma, Otello, Carmen, mentre Alfredo, amando Puccini e il verismo, nonostante che di fatto fosse povero, trovò il modo di regalarmi La bohème, Andrea Chenier e Cavalleria Rusticana. Anche la politica li trovava divisi in discussioni inconciliabili essendo Alfredo comunista mentre mio babbo socialdemocratico. Avevano vissuto il fascismo e subito l’inquietudine divisiva della sinistra italiana.

Ritornato dalla guerra Riccardo, sopravvissuto alla Spagnola, iniziò il lavoro di fumista insieme al cognato in una bottega nei pressi del Canale di Reno, in Borgo delle Casse, quella che sarebbe diventata, in anni fascisti, via Roma e poi, in epoca repubblicana, via Guglielmo Marconi. Tutta la zona fu interessata da imponenti sventramenti che dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, per cui dell’edificio, sicuramente modesto, dove era situata la bottega, si ha memoria solo nelle piante catastali.

Riccardo aveva sposato Alda, che tutti chiamavano Aldina, una ragazza più anziana di un anno: lei donna assai mite e religiosa, lui donnaiolo impenitente e inquieto, costituirono una coppia che nonostante tutto durò per più di trent’anni, fino alla morte di lei nel 1952. Aldina non potè avere figli in seguito a un incidente stradale; i due non si persero d’animo e con affettuosa generosità crebbero sette bambini assegnati alla loro tutela. Uno di essi, un suo grande ritratto stava appeso ai muri di casa, ricorreva nei discorsi del babbo, Cicci, ma il cui vero nome era Silvano; era un bambino molto intelligente, eccelleva a scuola tanto che il babbo, appassionato di arte medica, avrebbe sperato per lui, una volta diventato grande, una carriera come chirurgo. Il destino non fu benevolo con Cicci poiché se ne andò in cielo poco più che decenne, infrangendo i sogni di mio babbo. I ricordi ricorrenti su Cicci probabilmente insospettirono mia mamma che gli espresse chiaramente quanto pensava: «secondo me Cicci era tuo figlio» e lui di rimando «sta’ zitta, tu sei quella che sa tutto!» Evitare di rispondere ha un significato più pregnante di una risposta pertinente. A sostegno del pensiero della mamma aggiungo che, non essendo persona ricca, perché mai Riccardo avrebbe dovuto accollarsi il sacrificio di pagare gli studi universitari a un ragazzo avuto in tutela se non vi fosse stato un motivo nascosto rilevante come un legame di sangue?

La mia dada Mina fu l’unica dei figli affidati a Riccardo e ad Alda che conobbi e le ero affezionatissimo; il suo vero nome era Palmina. Esistono persone costantemente perseguitate dalla cattiva sorte e Mina fu una di queste: finì la sua vita in un sanatorio lontana dal marito, senza potere vedere, stringere, baciare la propria bambina.

(Continua)

 

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